SANGIULIANO: “L’Italia? Paese di ‘partigiani’ con una Costituzione sovietica”

LIBRO FELTRI-SANGIULIANOUn paese frammentato, diviso, litigioso, senza una missione nella storia e privo di un collante identitario che distolga il cittadino dalla contemplazione dei fili d’erba del proprio orticello e lo proietti in una dimensione comunitaria. È questa l’Italia raccontata nel volume Un Repubblica senza Patria. Storie d’Italia dal 1943 ad oggi (Mondadori, pp. 300, euro 19), scritto a quattro mani dai giornalisti Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano. Un sodalizio di lunga data, il loro, che prevede nella fattispecie una ferma divisione dei ruoli: se a Feltri spetta la cronaca più recente, dagli anni Settanta ad oggi, a Sangiuliano – scrittore, docente universitario e vicedirettore del Tg1 – tocca invece raccontare quel significativo arco di tempo che muove dall’ 8 settembre e giunge fino alla fine dei Sessanta. Un lavoro di ricerca storica, dunque, per comprendere, fin dalle premesse, perché la parola Italia appartenga sempre più solo al lessico calcistico.

SANGIULIANO, perché parlate di una Repubblica senza patria?

“L’Italia è uno Stato solo in termini amministrativi e giuridici, è un apparato a tenerci uniti. Ma non siamo certamente una patria cementata da quell’idem sentire di cui parlarono Vico, Fichte e le Avanguardie del Novecento. Di fatto, siamo rimasti tutti profondamente partigiani, attaccati al nostro piccolo particulare come direbbe Guicciardini. Ed è una maledizione che attraversa anche la storia contemporanea, dove non ci sono avversari politici ma solo nemici. In realtà, la guerra civile non è mai finita, ma è proseguita, a bassa intensità, fino ad oggi”.

Quando si parla di unità nazionale c’è sempre chi si richiama immediatamente alla Costituzione cui lei, però, non risparmia accuse…

“Lungi dall’essere la più bella del mondo, la nostra Costituzione è buona solo nella prima parte. Poi si avverte il peso di quella contrattazione dalla quale sorse il testo definitivo. Il Partito Comunista ebbe buon gioco nell’inserire, nel segmento economico-sociale della Carta, interi stralci della costituzione sovietica del 1936. Un ‘copia e incolla’ di cui Togliatti si vantò a lungo. Il risultato è che, diversamente da ogni altra costituzione europea, in quella italiana non compare mai la parola impresa, segno di una prospettiva ideologica anti-liberale e nemica dell’iniziativa economica privata”.

Dalla sua analisi emergono, poi, due vizi oscuri del nostro Paese. Il primo è quello del “conformismo nazionale”. A cosa si riferisce?

“Quando parlo di conformismo nazionale o dittatura del politicamente corretto mi riferisco a quel doppio piano di lettura della realtà onnipresente nel nostro dibattito. Dal circuito politico e mediatico rimbalza sempre una visione convenzionale, ipocrita, ammorbante che, poi, gli stessi personaggi stravolgono quando dialogano fra loro nelle segrete stanze.”

A questo proposito, il caso più eclatante è quello dell’Europa…

“Negli ultimi vent’anni da ogni parte è stata esibita una continua retorica dell’Europa, ma nessuno ha osato dire che l’unione continentale si è rivelata un fattore penalizzante per il nostro sviluppo. Con i 53 miliardi del fondo salva stati, in realtà, sono state salvate le banche indebitate tedesche e spagnole che, poi, sono venute qui a fare acquisti”.

Il secondo problema è la schizofrenia che affiggerebbe l’Italia.

“Il nostro è il paese del pendolo. Per anni si è tollerata una sfrenata evasione fiscale, oggi siamo oppressi da una valanga inarrestabile di tasse e balzelli. Per anni il territorio è stato devastato impunemente, oggi ci vogliono quintali di scartoffie per poter piantare un chiodo nel muro. Si passa, insomma, da un eccesso all’altro senza soluzione di continuità”

Nonostante tutto, nel dopoguerra sono emerse figure di primo piano, esempi positivi su cui lei si sofferma a lungo nel testo. Due nomi: Enrico Mattei e Adriano Olivetti.

“Erano gli alfieri dell’Italia del fare che cresceva al 4-6% e ci ha fatto conquistare quel benessere dei cui residui cui godiamo ancora oggi. All’epoca, tutti comprendevano la nostra geografia economica: siamo un paese piccolo, sovrappopolato e senza materie prime. La sola via percorribile era ed è quella di lanciare un’economia di trasformazione, cioè utilizzare il genio italico per trasformare in prodotti innovativi le materie prime che non abbiamo. Mattei inaugurò una strategia vincente per l’approvvigionamento energetico, Olivetti inventò il primo calcolatore super veloce e Giulio Natta, unico italiano vincitore del Nobel per la chimica, aprì la strada ad un settore che diede lavoro a 300mila persone. Di tutto questo non è rimasto più nulla”.

È possibile individuare un colpevole?

“Le colpe sono diffuse. Ma io ritengo che un ruolo centrale, in negativo, l’abbia giocato la progressiva scomparsa del principio di autorità. Siamo un Paese con troppe regole scritte e poca voglia, da parte di ognuno, di fare ciò che dovrebbe. Ora ci troviamo difronte ad un bivio decisivo: o inauguriamo un cambiamento radicale o andremo avanti in quel declino che, alla fine, ci consumerà”.

* Pubblicato, in versione ridotta, su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e, in versione integrale, su barbadillo.it

VERSI, UOMINI E DEI/2

coplibroUn amore infranto dal veleno della ragione spalanca le porte alla rabbia e restituisce alla coscienza una missione perduta: riannodare il filo spezzato fra uomo e Natura, lasciando che tramonti l’idea, tutta moderna, dell’orizzonte come terra di conquista per la civiltà della tecnica. È un grido irato da “esule in patria” quello lanciato da Sandro Marano, poeta ed ecologista barese, da anni attivamente impegnano in battaglie a salvaguardia dell’ambiente, nella sua ultima raccolta di poesie Vaghe lettere di amore e rabbia (Aletti ed.). Una cascata di versi contro il proprio tempo – divisa in due sezioni distinte (“Per fare più verde” e “Camminando”) ed epilogata dal canto conclusivo “Danza di febbraio”- in cui l’autore abilmente si appropria dello stilema che fu di Ezra Pound: raccontare la modernità feroce della speculazione, dell’industrialismo, della finanza, delle banche, ma anche dell’onnipotenza scientifica e tecnocratica, attraverso la delicatezza elegante del verso.

Dondolando “sul mare come sparsi fogli”, le liriche di Marano spazzano via i fumi mortiferi di Fukushima, rievocano la tragedia meridionale di Pontelandolfo, si interrogano “sulla vuota retorica che celebrò stragi fraterne” e puntano il dito intonando la più tragica delle accuse: “E voi siete felici?”. L’interrogativo è rivolto a tutti coloro che hanno gettato legna nelle caldaie della modernità. I signori della borsa, i mercanti, i politici di destra e di sinistra “mai sazi di grandi opere inutili”, gli animatori inesausti del mito-dogma della crescita, ma anche gli “scienziati alacri/ chiusi nei loro simulacri/ servi della pubblicità”. Tutti coloro, insomma, che non ricordano più una verità ormai inconfessabile: non era nostro destino fare “del mondo un grande supermercato” né lasciare che “l’età della plastica” soppiantasse l’età dell’oro.

Eppure questo è esattamente ciò che è avvenuto. Le rotte della storia sono state smarrite, “della Terra nessun più si cura”, ogni passo nel mondo alimenta i fuochi di un incontrollato delirio prometeico. E il rifugio del poeta in rivolta non è, e non può essere, solo una sera di maggio ove “non oscura le stelle/l’ingorgo d’auto”, ma un luogo così lontano da riuscire a sfiorare l’anima. Perché non ci sono vie di fuga per un uomo nietzschianamente sospeso fra Dio e il nulla, ma solo un ritorno verso se stesso “sulle vette lontane, laddove siedono in esilio gli dei”.

S. MARANO, Vaghe lettere di amore e rabbia, Aletti, pp.58, euro 12.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

VERSI, UOMINI E DEI

Czizzi2‘è un luogo dell’anima ove la poesia evade dalla prigione delle parole per appropriarsi di una dimensione orfica e senza tempo. Universale e identitaria insieme. Dove esso si trovi lo spiegò Carmelo Bene indicando le pietre A Sud del Sud dei Santi (LietoColle, pp.481, euro 21), non casuale titolo del corposo volume, curato da Michelangelo Zizzi e presentato a Polignano (Bari), in occasione del fortunato Festival “Il Libro Possibile”, che raccoglie cento anni di produzione poetica pugliese.

Un testo, “immaginato rallentando”, che vede sfilare, suddivisi per aree subregionali, gli autori del Salento, dell’Arco Ionico, della Capitanata e della Terra di Bari. Si alternano così, verso dopo verso, le suggestioni di Vittorio Bodini e Claudia Ruggeri, Antonio Verri e Vittorino Curci, Girolamo Comi e Michele Pierri. Sono questi solo alcuni dei tanti autori richiamati, maggiori o minori, obliati dalla storia o travisati dalla critica, ma tutti gemme preziose di un unico tesoro sommerso, sepolto dall’incuria di chi dovrebbe custodirne la bellezza.

D’altronde, come chiarisce Zizzi in premessa, questa è poesia che non dialoga, non informa, non dice niente a nessuno, almeno nel senso della comunicazione orizzontale, ma si qualifica, in virtù della sua propria natura, come serrato monologo interiore. Al pari dell’amore, della morte e del rapporto col sacro. E proprio in questo suo richiamarsi continuamente al mito, agli archetipi tradizionali che ribaltano l’idea posticcia di una terra vacanziera e mercantile, la scorribanda “metacritica” e non ideologica del saggio diviene un manifesto contro la civiltà senz’anima della materia, della fretta e delle macchine. “Il moderno – scrive Zizzi – è un luogo senza lentezza, senza meraviglia e senza silenzio. Anche per questo la poesia è inevitabilmente antimoderna. Rallentare significa ritornare; significa ritrovare, riconoscere. C’è una anamnesi, una lunga anamnesi alla base di ogni profondità poetica”.

Il viaggio, a questo punto, si snoda lungo l’immaginaria Linea Borbonica individuata da Flavio Santi, un corso d’acqua irrorato da molti affluenti: la mai risolta questione meridionale, l’omogeneità linguistica, la particolare condizione geofisica e, non ultimo, il mythos, “ciò che resta della leggenda” in una terra, puntellata da dolmen e menhir, che vide il proprio suolo calpestato da Pitagora, Archita e Virgilio. Non un arcaico vento di nostalgia, si badi, ma una reminiscenza platonica, un richiamo pulsante a ciò che eravamo e, da qualche parte, siamo ancora. Nonostante tutto.

M. ZIZZI (a cura di), A Sud del Sud dei Santi, LietoColle, pp. 481, euro 21.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”