di Leonardo Petrocelli
Nel suo celebre libro La grande trasformazione (1944), Karl Polanyi si pone la stessa domanda degli osservatori inglesi della seconda metà del Settecento: da dove vengono i poveri? Un interrogativo sciocco, in apparenza, e probabilmente privo di senso per l’osservatore contemporaneo, da sempre addestrato a credere che “i poveri” – nell’accezione comunemente data al termine – siano esistiti in ogni anfratto della storia umana, nel Settecento come al tempo degli assiri. Eppure, in Inghilterra, a nessuno era venuto in mente di domandarselo prima.
Cosa aveva destato l’improvvisa curiosità dei pamphlettisti? Banalmente, l’inaspettato apparire, scrive Polanyi, “di una massa enorme di persone più simili a spettri che ad esseri umani”, un esercito di “indescrivibili animali del fango” che si trascinava per l’Inghilterra mendicando sussidi statali e migliorie per la propria condizione. Un fatto inaudito, per l’epoca. Di riflesso, tutti si adoperarono per individuare l’origine del male: ci fu chi puntò il dito contro la scarsità del grano, chi contro la cattiva alimentazione, chi contro i salari agricoli troppo alti o troppo bassi, chi contro l’inettitudine dei lavoratori, chi contro le abitazioni “disadatte”, chi contro il consumo di droghe. Harriet Martineau arrivò a sostenere che gran parte del problema derivasse dall’abitudine, tutta britannica, di bere tè (?), di cui si consigliava la sostituzione con “la birra fatta in casa”.
Naturalmente, all’origine dello scenario da Walking Dead in cui era precipitata l’Inghilterra non c’era nessuna di queste (più o meno) deliranti motivazioni. La verità era altrove. Per inseguirla, Polanyi si getta in una analitica ricostruzione della legislazione proto-lavoristica in voga al tempo, trascinando lo sventurato lettore per pagine e pagine di bizantinismi e speculazioni socio-giuridiche. Ma proprio quando quest’ultimo, ormai mostruosamente appallato, si avvia ad abbandonare ogni speranza di giungere ad un epilogo comprensibile, ecco Polanyi enunciare, d’emblée, la soluzione in modo fulminante (e stranamente sintetico): il problema risiederebbe nel “rapporto fra pauperismo e progresso”. Più cioè la società va avanti, evolve, innova, si urbanizza e genera ricchezza – in una parola “progredisce” – più aumentano i poveri. Non sarà infatti sfuggito a chi mastica un po’ di storia che l’Inghilterra cui si riferisce Polanyi, quella a cavallo fra Settecento e Ottocento, è precisamente la nazione che offrì al mondo il miracolo compiuto della rivoluzione industriale, della macchina al servizio dell’uomo e delle rotte commerciali moltiplicate. Ma, insieme a tanta opulenza, la perfida Albione inaugurò anche un’altra cosa, altrettanto sconosciuta: la disperante povertà di massa. “Niente – scrive Polanyi – salvò il popolo inglese dagli effetti della rivoluzione industriale. Una fede cieca nel progresso spontaneo si era impadronita della mentalità generale e con il fanatismo dei settari anche i più illuminati premevano per un cambiamento senza limiti né regole della società. Gli effetti della vita sulla gente erano tremendi al di là di ogni descrizione”.
L’esistenza di un nesso causale fra pauperismo e progresso non sfuggì nemmeno a De Tocqueville che, in un’opera a questo dedicata (Il pauperismo, 1835), fornisce alcuni dati illuminati. Nell’Inghilterra di quel periodo – racconta – c’era un povero ogni sei abitanti. Negli Stati all’alba del processo industriale il rapporto si decongestionava, calando a uno su venti. In quelli, infine, in cui la nuova civiltà progredita era presente solo a livello seminale, si scendeva ancora a uno su cinquantotto. Dati comunque alti, altissimi se si considera che nelle civiltà premoderne la percentuale dei poveri era intorno all’1%. Addirittura, come spesso ricorda Latouche, in tante civiltà africane la parola “povertà” non è mai esistita ed è stata introdotta solo all’arrivo degli occidentali e del loro modello industriale avanzato. Vale lo stesso per il Medioevo, la cui rappresentazione di mondo oscuro battuto da torme di storpi e derelitti è figlia esclusiva di una narrazione tutta orientata all’esaltazione del progressismo, la stessa che per decenni aveva nascosto la tragedia inglese post-rivoluzionaria, diluendola nel mai giustificato mito dell’“adattamento graduale” con l’ammissione di qualche sbavatura reazionaria (i luddisti) a condire la minestra.
Ma non è solo una questione di numeri. Perché, per pochi che fossero, i poveri sono certamente esistiti anche prima dell’irruzione della modernità, ma la loro condizione era ben diversa rispetto a quella dei loro omologhi settecenteschi. Come sostiene l’illustre medievista Michel Mollat Du Jourdin, i poveri nel Medioevo – quelli veri, da distinguere dagli adepti dell’indigenza volontaria – erano “sofferenti ma integrati”, cioè sostenuti e supportati da tutto un sistema di tutele, materiali e immateriali, che forniva a chiunque, perfino allo scemo del villaggio, un ruolo nella comunità. Senza, oltretutto, alcuna ricaduta morale perché tali dispositivi, lungi dall’essere, come l’assistenzialismo odierno, una forma di umiliazione per lo sventurato, fungevano da paracadute di dignità.

Luddisti in rivolta contro le macchine tessili
Ora, se i dati si inscrivono nel quadro della certezza matematica, rimane il problema interpretativo. La società industriale produce povertà. Ma perché? Polanyi sostiene che ciò accada in quanto l’economia di mercato, anche quella embrionale, mercifica la terra, la moneta e il lavoro (cioè l’uomo), esponendoli ad ogni tipo di fluttuazione ed avviandosi, per questo, ad una inevitabile distruzione. È una verità che va completata. Di fatto, la rivoluzione industriale sconvolse definitivamente – quale terminale ultimo di un lungo processo – un ordine economico che aveva retto per secoli, pur fra ingiustizie e disparità, perché capace di imbrigliare il demone dell’economia nelle maglie della vita comunitaria, attraverso complessi sistemi rituali, cerimoniali e convenzionali. Gli scambi, i commerci, così come la produzione, hanno sempre avuto cittadinanza ad ogni latitudine e in ogni tempo, ma la “terza funzione” – subordinata a quella sacerdotale e guerriera – era tenuta sotto controllo, impossibilitata a debordare e, per capirci, a sradicare il contadino inglese dal campo su cui aveva sempre lavorato per precipitarlo nel deserto industriale del North West ove si sarebbe trasformato in un pericoloso mendicante urbano. In un “povero moderno”, solo, senza salvazione, totalmente dipendente dall’erogazione altrui di reddito monetario.
Ma ciò che ha distrutto questo equilibrio non assomiglia, come la vulgata insegna, ad una sorta di conquista dall’interno. L’economia non ha semplicemente detronizzato la politica, “possedendo” così la società in una sorta di golpe che basterebbe ribaltare per riportare le cose a posto (il famoso “ristabilire il primato della politica sull’economia”). Ha fatto di peggio e quasi il contrario. L’economia si è autonomizzata, è “uscita” dal ventre della civiltà per creare un immaginario alternativo, un universo parallelo, un mundus imaginalis di debiti e crediti nel quale ci ha trascinati tutti, rinchiudendoci a doppia mandata. Come il genio (jinn) delle favole orientali che, vellicando l’ingordigia del malcapitato con il prodigio dei tre desideri, finisce per intrappolarlo nella lampada. Non siamo posseduti, siamo stati mangiati, inglobati. La presa è avvenuta dall’esterno, non dall’interno. E ogni volta che il demone scuote il corpo – prima rivoluzione industriale, seconda rivoluzione industriale, rivoluzione telematica, rivoluzione digitale e ora smart manufactoring – noi che ci stiamo dentro siamo esposti al terremoto di turno. Allora come oggi: nell’era dell’orgia finanziaria, delle montagne di derivati, dei debiti non solvibili, della robotica che pensiona l’uomo senza margini di riposizionamento, dell’accerchiamento globale privo di zone franche, quale credete sarà la vostra fine?
Sì, esatto. Quella degli inglesi del Settecento, “spettri” e “animali del fango”. Certo, mutatis mutandis, qualcuno dà ancora la colpa al tè, come la Martineau secoli fa, ma le sciocchezze non cambiano la sostanza. E non la cambieranno neanche le ricette di destra e di sinistra, né tantomeno le bandiere rosse sventolate al sol dell’avvenire perché anche socialismo e comunismo, con tutti i loro derivati post-moderni, sono figli della rivoluzione industriale e dell’economia come “struttura” della società, cioè si agitano nella pancia del demone e non fuori da essa. Il che – naturalmente – non toglie valore strategico a tutte le battaglie contingenti che, ogni giorno, combattiamo anche noi discutendo su queste pagine di proprietà della moneta, banche centrali, finanza, trattati europei, Job’s act e Ttip. Fronti di lotta sacrosanti, necessari. Ma per portare il mondo fuori dal ventre del demone non basterà uscire dall’euro. Bisognerà uscire dalla lampada e rimettere l’economia al guinzaglio.