A CHI CANTA VITTORIA

*di Gaetano Sebastiani

“Pericolo scampato!”, “sospiro di sollievo!”, “è la vittoria della speranza contro la paura”. Si è espresso così il coro belante dei guardiani dell’eurocrazia a seguito della vittoria risicata di Van der Bellen alle presidenziali austriache.
E’ balzata subito agli occhi, durante questi giorni di isteria mediatica, la solita guerra delle etichette appiccicate dalla stampa buonista ai due contendenti. Hofer, il leader dell’FPO, era dipinto come ultranazionalista, esponente dell’estrema destra o – magari stimolando maggiormente la vostra fifa – dell'”ultra” destra, anti-immigrazione, xenofobo, nazista e chi più ne ha, più ne metta. Insomma, un demonio. Mentre il vincitore era più moderatamente e semplicemente descritto come l'”indipendente”. Che fa tanto libertà di pensiero e purezza d’intenti, ma che in verità traduce nella neo-lingua dominante il rappresentante dello stantìo status quo, il megafono con le pile semi scariche di forze politiche allo sbando (tanto nel proprio Paese, quanto nel resto del Continente), quelle che la metà del popolo austriaco ha bocciato.
Non ci si spiega, dunque, come il diavolo sconfitto dal “buon senso” non abbia reagito all’esito elettorale da par suo. Un personaggio come Hofer, secondo la narrazione dei “giusti”, avrebbe dovuto gridare al complotto per una vittoria così incerta – per giunta determinata dal voto per corrispondenza – avrebbe dovuto far leva sulla pancia del suo elettorato contro il sistema che gli si è coalizzato contro, portare il popolo in piazza e marciare su Vienna con le sue squadre dalle camicie brune per imporre la propria volontà autoritaria.
E invece, nulla di tutto questo. Il Darth Vader austriaco, l’alfiere delle forze oscure, ha subito riconosciuto la vittoria del suo avversario ed ha invitato i suoi sostenitori a supportare il partito per le prossime elezioni politiche, senza minacce di vendetta e senza paventare ipotesi sovversive. Una bella lezione di stile.
Soprattutto a chi canta vittoria. A chi per scongiurare esiti sgraditi, pontificando continuamente sul progresso e sul futuro, utilizza immagini e spauracchi del Novecento che mai potranno riproporsi, perchè – fatevene una ragione – la società da allora è cambiata ed i rassicuranti schemi del passato sono saltati. A chi, in sprezzo della volontà popolare, non rispetta gli esiti referendari (vedi il recente caso olandese, o anche quelli italiani sull’acqua pubblica o, più indietro, sul finanziamento ai partiti) e continua imperterrito nell’opera di distruzione di questo continente, a forza di liberismo, immigrazione selvaggia ed annientamento delle specificità identitarie. A chi, con approccio mielosamente moralistico ed il ditino indice costantemente in erezione vorrebbe impartire lezioni di civiltà, tolleranza, democrazia, libertà di pensiero, ma non accetta altra posizione che non sia quella affanosamente elaborata dai pontefici del pensiero unico e si piega persino ai ricatti del Sultano di turno, che quei principi schiaccia alla luce del sole.
E nel caso specifico delle presidenziali, a chi canta vittoria è opportuno ricordare che per l’ennesima volta si è dovuto costituire un “front républicain” in salsa austriaca per fermare l’ondata di malcontento popolare e che le forze euriste sono sempre più logorate perchè incapaci di giustificare quello iato tra le istituzioni fredde, calcolatrici, distanti di Bruxelles e le legittime esigenze dei cittadini in balia del quotidiano.
E adesso attendiamo impazienti i prossimi test per la nostra cara eurozona. A giugno, c’è il voto per il “Brexit”. I poveri inglesi sono sottoposti ad una campagna anti-uscita degna del peggior catastrofista, che neanche Leopardi potrebbe esprimere con il suo pessimismo cosmico. Tra ipotesi di “isolamento”, “disoccupazione crescente” e udite, udite impossibilità di escludere una “terza guerra mondiale”, Cameron sta utilizzando argomenti molto “equilibrati” per convincere i sudditi britannici a rimanere nella gabbia eurocratica.
Nel 2017, invece, avremo le elezioni federali in Germania. La Merkel, ancora non sicura di ricandidarsi perchè indicata da più parti come prossimo segretario dell’ONU, dovrebbe porsi come argine contro l’inesorabile avanzata di Alternative für Deutschland, già etichettata dai moralizzatori continentali con le solite definizioni da spaventapasseri. La campagna elettorale non è ancora iniziata, ma già possiamo immaginare che spartito suonerà l’orchestra europoide: è una musica che stiamo imparando a conoscere. E’ molto fastidiosa perchè suonata ad alto volume, ma è anche molto noiosa perchè non prevede variazioni ed è già stata suonata diverse volte.
Continuate, dunque, a cantare vittoria per il vostro “successo” in Austria. Continuate pure a cantare la canzone della paura, dello spauracchio, del terrorismo psicologico, del se vince l’altro è la catastrofe, della democrazia da salvare a tutti i costi (anche infischiandosene della volontà popolare). Noi rimarremo in silenzio ad aspettare la vostra “stecca”, quella che vi riempirà di fischi.

HANNO UN PROBLEMA ENORME. SI CHIAMA TRUMP

di Marcello D’Addabbo

Non sono riusciti a fermarlo. Il secondo Super Tuesday delle primarie americane ha come protagonista lui, l’odiato miliardario di New York Donald Trump, consacrando la sua aspirazione a diventare il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Trump si impone in Florida, Illinois, North Carolina e Missouri. Perde solo in Ohio, dove a vincere è il governatore repubblicano John Kasich. Marco Rubio, il candidato su cui il partito contava in funzione anti-Trump, umiliato nella sua Florida, si ritira. Sul campo democratico, anche Hillary Clinton porta a casa quattro Stati: Florida, Illinois, North Carolina e Ohio. Perde, di misura, in Missouri. Le primarie Usa nel campo repubblicano si stanno rivelando un vero spettacolo pirotecnico dove niente è come sembrava ai nastri di partenza e i giochi sono quantomai aperti. Tanto per cominciare il mancato decollo di Jeb Bush, “l’intelligente della famiglia” ovvero il candidato su cui puntavano ambienti del comparto sicurezza legati al padre, George H. W. Bush senior, Cia e industria degli armamenti in testa, è stato già il primo grande segnale. É rimasto legato al palo anche Marco Rubio, il cubano della Florida su cui puntava senza tanti misteri tutta la dirigenza del Partito Repubblicano in crisi di consensi, compresi i cosiddetti neo-con protagonisti dell’era Bush Junior e dell’offensiva post 11 settembre. Sarebbe dovuto emergere nella seconda fase, cioè ora, con il voto nella sua Florida popolata di esuli cubani reazionari arrabbiati. Ma con Rubio erano anche schierati i fratelli Koch delle Koch Industries, un gigante che spazia dalla chimica all’energia alla finanza alla grande distribuzione, che sovvenziona già centinaia di fondazioni, università, centri di ricerca e istituzioni culturali. I Koch hanno corrisposto già quasi 900 milioni di dollari ai candidati a loro graditi del Grand Old Party, e puntavano sulla resurrezione di Rubio, considerato un centrista moderato, nel secondo grande martedì. E invece niente. Ha vinto Trump con il 45,8% a fronte di un crollo di Rubio che giace al tappeto con il 27% e si ritira dalla partita. Un sorprendente schiaffo non solo all’establishment del partito e ai finanziatori dai ventruti forzieri ma soprattutto ai media americani ed europei che stanno cercando in ogni modo di soffocare sul nascere questo ciclone elettorale. I giornali di tutto il mondo sono davvero disperati perché, come ha scritto Maria Giovanna Maglie, il cafone, il clown, il gran villano, il disgustoso riccastro, l’uomo col riportone, quello che ha le mogli strafiche dell’Est, quello che pensa di alzare un muro col Messico, come se mezza Europa non lo stesse già facendo, sta a 621 delegati su 1237 e ha stravinto in Florida dove il partito repubblicano aveva speso 15 milioni di dollari in una campagna di fango, attacchi personali e cattiverie a valanga. Ma il modo in cui questi risultati vengono letti dai media denota una faziosità rivoltante. Viene messa in evidenza la singola e unica vittoria di un John Kasich nel suo Ohio, dove Trump è comunque secondo con un sorprendente 35,7% mentre vengono esaltate con toni trionfalistici le vittorie di Hillary Clinton la quale, al netto di una consolidata prevalenza su Sanders, ha 1094 delegati contro i 774 di quest’ultimo, sui 2338 che occorrono complessivamente per la maggioranza alla convention. Affermare che la Clinton “è inarrestabile” è da sostenitori più che giornalisti. Si tace volutamente l’elemento di novità di questa consultazione: Donald Trump è riuscito a riportare migliaia di persone al voto delle primarie in un partito che sembrava in fin di vita, mentre nel campo democratico la generale disaffezione degli iscritti, dopo gli ultimi anni di presidenza dell’ormai opaco e amletico Obama, è stata a stento scossa dalla polemica anti Wall Street dell’”anziano socialista che piace ai giovani”, Bernie Sanders. Apprezzabile l’onestà intellettuale di Federico Rampini, di certo non un simpatizzante di Trump, che ha twittato “in calo ovunque la partecipazione dei democratici, mentre alle primarie repubblicane cresce dal 30% fino al 97%”. Lucia Annunziata confessa come la linea editoriale dell’Huffington Post fosse stata finora quella di derubricare Trump a fenomeno da baraccone del mondo dello spettacolo, togliendolo dalla pagina politica, onde poi dover chiedere alle redazioni estere in conference call di cambiare linea dopo aver capito che questo atteggiamento snob in Usa non faceva che favorire il tycoon. Basta avere occhi non bendati da interessi di parte per vedere le code di auto alle consultazioni repubblicane, i comitati che sorgono ovunque spontaneamente nel paese e le migliaia di giovani sostenitori che affollano il web e i social network. Una realtà che cresce quanto più Trump alza i toni della polemica e maggiormente folli e politicamente scorrette appaiono le proposte da lui comiziate con virulenza.

trump controTutti attaccano il miliardario a cominciare da Obama che ha tenuto recentemente un sermone da pastore battista sui toni troppo volgari e preoccupanti della campagna, sul linguaggio e la violenza di un “certo candidato”, mettendo in guardia dal dividere una nazione che già sta dimostrando una rabbia inattesa, per poi affermare esplicitamente che con le sue uscite Trump non potrebbe ricoprire l’incarico di Presidente. Ma sono proprio quelle uscite a farlo vincere. Come lo faranno avanzare elettoralmente i moti di indignazione politically correct di Cameron e del primo ministro francese Valls o la petizione online per proibire a Donald Trump di entrare in UK, a seguito dei suoi commenti anti-Islam, che ha raccolto in Gran Bretagna più di 200mila firme. Un tripudio di indignazioni e strilli da educande che lo rendono sempre più simpatico al suo popolo, galvanizzato ancor più dai recenti episodi di contestazioni e scontri fisici verificatisi prima o durante i recenti comizi del candidato. Mentre migliaia di persone erano in attesa che iniziasse il suo discorso all’Università dell’Illinois, un gruppo di manifestanti è riuscito ad entrare nell’arena, e dopo un incontro con la polizia locale Trump è stato costretto a rimandare il rally. L’annuncio è stato accolto con grida di gioia dai contestatori. «Abbiamo fermato Trump! Abbiamo fermato Trump!», hanno gridato. Quindi, rivolti ai sostenitori del magnate hanno attaccato: «Razzisti, tornatevene a casa!». «Vogliamo Trump, vogliamo Trump», hanno replicato i fan del candidato del Grand Old Party. Il bilancio degli incidenti, secondo i media statunitensi, è stato di sei feriti e almeno cinque persone arrestate. Dalla città degli Obama, la protesta si è poi allargata a macchia d’olio in altri due degli stati dove si è votato martedì. A St. Louis, in Missouri, durante le contestazioni che hanno accompagnato un comizio di Trump la polizia ha arrestato 31 persone con l’accusa di disturbo della quiete pubblica, e una di aggressione di terzo grado. Il magnate per tutta risposta ha schernito chi interrompeva il suo discorso alla Peabody Opera House dicendo: «A loro è permesso di bloccarci orribilmente e noi dobbiamo essere molto pacati, loro possono spingere e picchiare, ma se noi gli rispondiamo è terribile, vero?». Poi ha aggiunto: «Tornate a casa da mamma» e «andate a cercarvi un lavoro». Un altro dibattito è stato invece cancellato a Cincinnati, in Ohio, sempre a causa di problemi relativi alla sicurezza.
Agitatori spontanei o prezzolati che siano, lo scopo di queste iniziative è impedire l’attività del candidato associando ad ogni sua uscita pubblica un’immagine di violenza che porti a spaventare l’elettore e a farlo desistere dal votare questo terribile mostro estremista. Ma i più livorosi avversari di Donald Trump si trovano nello stato maggiore del partito repubblicano che sta facendo di tutto per fermarne la corsa. Jeb Bush lo definisce senza mezzi termini un “pazzo”, il neocon Robert Kagan ha dichiarato che Trump “è il mostro di Frankenstein dei repubblicani, adesso abbastanza forte da distruggere il partito”, mentre Mitt Romney ha fatto capire che stanno spulciando le dichiarazioni fiscali del miliardario alla ricerca di un pretesto per mandarlo a casa, ovviamente.
E si fa largo l’ipotesi di una convention repubblicana che in mancanza di una maggioranza netta di delegati a favore di Trump possa usare l’arma della “brokered convention”, non tenendo conto delle primarie e designando un altro candidato alle presidenziali (si era pensato tra gli altri a Paul Ryan), di fatto invalidando la consultazione. Lo riporta il Wall Street Journal. Si tratterebbe di un caso che non si verifica da prima dell’invenzione della televisione a colori, quando internet era fantascienza. L’ipotesi è remota ma indicativa dello stato psicologico dei vertici del Gop. “Davvero – ha detto Newt Gingrich un vecchio esperto del partito repubblicano che sta sulla breccia da trent’anni – quattro gatti che stanno a Washington pensano di ignorare la scelta di milioni di elettori repubblicani e perdere così qualunque contatto con la nazione? Davvero, come teorizza il neocon Bill Kristol, scimmiottato da piccoli teocon del mondo, si possono prendere i risultati delle primarie e buttarli nell’immondizia? Con risultati come questi, e con l’umiliazione cocente toccata al pupillo Rubio, bruciato per sempre, pensano di orchestrare una convention farlocca? Basta con questa follia – avverte Gingrich – non li vedete i sondaggi che confermano la ribellione al partito, considerato un nemico?”. In un’intervista alla Cnn Trump si dice sicuro che raggiungerà l’obiettivo dei 1237 delegati per essere il candidato repubblicano prima della convention di luglio e avverte il partito repubblicano: “ci saranno scontri” se dovesse conquistare il numero dei delegati per ottenere la nomination e il partito dovesse nonostante ciò negarla.
Al di là di queste spacconerie tipiche del personaggio nell’asprezza di questo incredibile scontro c’è tutta la crisi dei vecchi partiti che avendo accompagnato la trasformazione sociale terribile avvenuta in Occidente da trent’anni a questa parte ora non comprendono più le esigenze della società che hanno contribuito a creare. La classe media bianca americana, che sempre si è sentita la maggioranza della nazione, è allo sbando, non solo economicamente, soprattutto culturalmente, nell’identità, e si rivolge a chi sembra incarnare la sua esasperazione. Ciò accade anche a sinistra dove il migliore interprete di questo sentimento è Sanders e non la Clinton, in quanto il primo cammina nel solco delle proteste del movimento “Occupy Wall Street” nate allo scoppio della crisi del 2007-2008. Ha scritto il NYTimes “se questi candidati (Trump e Sanders) hanno un’attrattiva è perché negli ultimi decenni le nostre élite politiche hanno deciso che la classe media bianca non ha alcun ruolo da giocare nel futuro multiculturale e globalizzato che immaginano, un futuro che credono di guidare. Questa stagione di primarie mostrerà se hanno ragione oppure no”. É esattamente ciò che accade in Europa dove i vecchi partiti hanno abbandonato i popoli per anni – classe media impoverita dalla crisi e operai posti in mobilità da fabbriche che vengono delocalizzate – per inseguire i progetti globali e multietnici della finanza mentre in televisione i politici di quei partiti, maggiordomi di banche e multinazionali, ora cercano di distrarre l’opinione pubblica con il giochetto di prestigio dei diritti civili e delle nozze gay. Il boomerang di questo immane tradimento sta tornando indietro alla classe politica in tutto l’Occidente. Tutto qui. Il populismo montante è l’autodifesa della nazione intesa come popolo. Dati gli elementi oggettivi di crisi del modello economico sociale creato in questi anni di globalizzazione questa autodifesa è destinata ad essere la cifra politica dei prossimi anni. Chi ne interpreta le istanze, come sta facendo Trump, è destinato ad avere consenso. Per questo a Roma Salvini sta mollando Berlusconi, che ora ha il ruolo di stampella politica e mediatica di Renzi. Salvini vuole porsi nella posizione dove si coglie il vento, cioè il più lontano possibile da Renzi e dal suo probabile tracollo.
Per lo stesso motivo il linguaggio della Clinton oggi è vecchio e non fa più presa su una parte consistente dell’elettorato americano che si sente tradito da Washington. Una moltitudine umana che Hillary preferirebbe non votasse ma che ormai ha trovato il proprio inarrestabile tribuno. Un tribuno che in tutti i suoi interventi parla alla gente della grande questione dello spostamento del lavoro americano verso i paesi emergenti, Cina in testa, dove migliaia di fabbriche statunitensi hanno piazzato i propri insediamenti produttivi cancellando in patria in pochi anni e alla velocità della luce, posti di lavoro, stipendi, ruoli sociali e identità in nome del profitto di pochi interessati cantori del libero scambio. Che propone barriere protezionistiche in difesa dell’economia nazionale e della classe media ma anche barriere fisiche per proteggere i lavoratori americani dalla concorrenza dell’”esercito industriale di riserva” costituito dai lavoratori ispanici, affamati nelle loro terre di origine da quelle stesse multinazionali che alla fine si avvantaggiano della loro migrazione. Tutto questo il miliardario con il riporto in testa lo sa bene perché si muove da sempre nel mondo del business ma, al contrario della Clinton pagata da George Soros e della Merkel pagata da Volkswagen e Deutsche Bank, lui può dirlo perché è pagato da sé stesso. Per questo è pericoloso.
I preoccupatissimi dirigenti repubblicani, crollati i loro beniamini Bush e Rubio, non potranno certo aggrapparsi al secondo arrivato Ted Cruz, altro paria impresentabile e forse molto peggiore di Trump. All’inizio della campagna Cruz, un “battista del Sud” cioè un protestante fondamentalista, aveva organizzato un paio di uscite pubbliche con un pastore che predicava la pena di morte per gli omosessuali, poi ha capito che era meglio lasciarlo a casa, come del resto suo padre, che definisce il figlio l’Unto del Signore. Celebre il video in cui Cruz cuoce fette di pancetta arrotolandole sulla canna di un mitragliatore automatico, sparando su una sagoma di cartone per riscaldare l’improbabile “forno a canna” (un uso in voga nei poligoni del Texas). E noi ci lamentiamo di Borghezio? Con un tipo così i repubblicani si vedranno forse costretti a scendere a patti con Trump, grande comunicatore, aggressivo nei dibattiti quanto serve – si è allenato nel suo talent “The Apprentice” ad interrompere ed umiliare l’interlocutore. Insomma una perfetta belva da Colosseo da scatenare contro la navigata tigre Hillary, la quale però vanta un Kissinger come consigliere. Il manifesto clou della campagna Clinton è un faccione di Trump colpito da un pugno, accompagnato dalla scritta “colpiscilo per bene”. Mettetevi comodi dunque, lo spettacolo “Elezioni Usa 2016” è appena cominciato…e stavolta promette di dare grandi soddisfazioni!