di Leonardo Petrocelli
E alla fine s’è scissa la scissione. Michele Emiliano resta nel partito, a contendere il trono a Renzi e all’altro scialbo trio d’oppositori (Orlando, Damiano e don Cuperlo), mentre la combriccola dei Bersani, D’Alema, Rossi e Speranza infila la porta e saluta. Almeno così pare perché in questo grottesco teatrino delle ombre, capace di ammorbare e paralizzare l’Italia per settimane, nulla sembra certo, a parte la cialtronaggine dei personaggi in scena.
Ora, Maurizio Blondet l’ha buttata sul potere e sottopotere, sulla volontà degli scalcagnati protagonisti della commedia di rubare spazi e poltrone secondo convenienza. Un riposizionamento dei lupi intorno all’orso morente eppure desideroso di tenere per sé la carcassa del cervo. L’analisi istintiva della casalinga di Voghera, insomma, nobilitata a traccia dominante perché, a questo punto, il Pd non pare meritare nulla di diverso. Vero, sicuramente, ma noi preferiamo entrare nella camera degli orrori scegliendo un’altra porta d’ingresso, non meno banale. Cioè quella delle vendette personali. Prendete il discorso di Veltroni, ad esempio, tornato a parlare dopo anni. Il suo endorsement a Renzi, che pure l’aveva rottamato, era in realtà un sassolino tolto dalla scarpa e tirato contro D’Alema e i dalemiani. Anche il congresso lampo, che tanto vespaio ha suscitato, nasce per lo stesso motivo cioè dal tosco desiderio di far pagare alla minoranza dem la campagna referendaria per il No. La qual cosa, si sa, è a sua volta una vendetta per la rottamazione feroce di qualche tempo prima. La vendetta della vendetta della vendetta. Niente di più, niente di meno, nell’ovvia considerazione che questa faida personalissima sia stata terreno fertile per l’incistarsi di egoismi, calcoli cinici, trattative e mercimoni vari.
Ma se la vita quotidiana è una rappresentazione, come sosteneva Goffman, il dato più interessante rimane quello della narrazione politica. Del modo, in sostanza, in cui la minoranza ha venduto la faccenda al pubblico. Niente personalismi, per carità, e niente corse per un posto al sole, ci mancherebbe. A dettare la spaccatura, sostiene D’Alema, sarebbe stato quel “solco politico e culturale profondissimo” che dividerebbe inesorabilmente i renziani e la minoranza dem. Una guerra dei mondi, dunque, fra due visioni inconciliabili della politica e della sinistra. Davvero? Renzi lo conosciamo tutti. Ma conosciamo anche gli altri, ahinoi fin troppo bene. E non ci stancheremo mai, sarà la ventesima volta, di mettere in fila tutti i loro successi accumulati negli anni passati: le privatizzazioni selvagge, la guerra in Jugoslavia, la riforma Berlinguer, che segnò l’inizio della distruzione dell’università italiana, e quella, scellerata, del Titolo V della Costituzione che invece ha affossato la sanità e reso ingestibili i rapporti fra la periferia ed il centro. E poi, ancora, l’ingresso nell’euro e la sua difesa ad oltranza, le cessioni di sovranità, Ciampi e Napolitano al Quirinale, il sostegno appassionato a tutti i governi tecnici e bancari che si sono avvicendai sulla scena, a cominciare da quello di Monti che Bersani cercò di tenere in piedi fino all’ultimo secondo. E come dimenticare il Pacchetto Treu (2001) che introdusse per la prima volta in Italia il precariato aprendo la strada all’estinzione dei diritti sociali? In ultimo, e non paia un paradosso, fra i frutti avvelenati ci mettiamo pure il renzismo che, comunque la si voglia vedere, è una fisiologica evoluzione di quelle premesse. Perché le mele, si sa, non cadono mai lontano dall’albero.
Ciò detto, eccolo qua, il “solco profondissimo”. È la Bicamerale contro il Nazareno, il Pacchetto Treu contro il Job’s Act, la riforma del Titolo V contro la Riforma Boschi, Napolitano contro Mattarella. D’Alema contro Renzi. Il primo atto contro il terzo atto (di mezzo c’è Berlusconi) della medesima tragicommedia. Trovate le differenze, se ci riuscite. Noi non ne siamo capaci. Certo, la minoranza ha sempre agito con maggiore garbo e con l’appoggio di tutto il culturame schierato a promozione e tutela della macelleria sociale in atto (come è solito dire Bagnai, molto acutamente, il sangue non si vede sul grembiule rosso). Ma la copertura è fragile ed è saltata da anni. La verità è che non esiste nessuna differenza politica sostanziale fra i contendenti in campo poiché tutti si muovono, per dirla con Weber, nella “gabbia d’acciaio” dell’ordine dominante. Al massimo, se una differenza c’è, è appunto sul piano della rappresentazione: mentre procede alla mattanza, Renzi non ci ammorba con la retorica degli ultimi e delle disuguaglianze. Lo fa e basta. Diversamente da quegli altri che hanno fatto lo stesso e di peggio, ma sulle note di Bandiera Rossa e pretendendo sempre per sé il marchio di sodali degli ultimi.
Insomma, la commedia è totale. E non esistono innocenti, nemmeno in basso. Perché l’altra tragedia di questa sinistra è quella di essere fomentata da un elettorato sconcertante, dalla spaventosa ignoranza politica, che continua a credere alla favola del “solco profondissimo” e all’idea che il mondo si cambi con un ritocco qua e là, con una riforma della scuola e una loi travail scritta meglio. Ma quella, a darla per buona, è la lucidatura delle maniglie di un Titanic che affonda inesorabilmente. E la sinistra con lui, in Italia come in Europa, dove i progressisti di tutte le fogge annaspano sotto i colpi del sovranismo, come quel Macron mandato dai Rothschild a blindare la Francia e già in difficoltà dopo poche settimane di campagna elettorale contro una Le Pen in grande spolvero. Ovunque i dem muoiono e, dal cilindro, come ovvio, non sanno far altro che tirar fuori Martin Schulz, il kapò dell’Europa, giusto per darsi il colpo di grazia e confermare il teorema. D’altronde, l’immagine della direzione del Pd pronta a celebrarsi tra i flash dei fotografi, mentre fuori dal Nazareno, a pochi passi, infuria la rivolta dei tassisti, è la rappresentazione plastica dello scollamento fra dramma sociale e farsa politica. Il Paese reale contro il Palazzo Reale. “Sapesse, contessa, cosa succede qui fuori…”.
PS: Ed Emiliano? Curioso personaggio, Michelone. Sprovvisto della cattiveria di un Renzi, della perfidia strategica di un D’Alema e della vermiforme untuosità di un Veltroni, questo capopopolo casinista è stato incapace di reggere il gioco collettivo senza far sorgere un verminaio di sospetti. Ipotesi uno: lui e Renzi si sarebbero accordati sottobanco, come insinua il Corsera di oggi. Ipotesi due: Emiliano sarebbe d’accordo con la minoranza scissionista che lo avrebbe invitato a rimanere nel partito per poi propiziare, al momento opportuno, un ritorno dei fuggiaschi in grande stile (“il nostro è solo un arrivederci”, hanno chiosato sibillini). In realtà, le due ipotesi ci convincono poco. Emiliano non è, né politicamente né antropologicamente, uno della minoranza. Quando gli hanno chiesto di intonare Bandiera Rossa, il nostro ha fatto un balzo e ha replicato: “Ma no, io posso cantare al massimo Buonanotte Fiorellino!”. Direi che non ci siamo. Tra l’altro, senza la sua impetuosa ed efficace verve populista, il neonato movimento scissionista – che pare assumerà il nome fulminante di “Nuova Sinistra-Diritti e Lavoro” – si ritrova a guida Bersani-Rossi-Speranza. Cioè si ritrova il sex appeal di una cassa da morto. Dunque, è possibile che Emiliano abbia fatto tutto da solo, condannando i suoi compagni di rivolta alla morte politica per procurata noia e condannando, contemporaneamente, il renzismo a sciogliersi in un’altra probabile legislatura pestilenziale. A quel punto, rimarrebbe lui, dominus della situazione, a capeggiar la ditta con esiti assolutamente impossibili da pronosticare. Fantapolitica, certo. Nonché un invito a comprare i pop-corn e a mettervi comodi. Ci sarà da divertirsi. Ammesso che qualcuno abbia ancora voglia di ridere.