CRISI GRECA. GLI ATTORI, LA SCENA E LE QUINTE

di Marcello D’Addabbo

I greci sono in mezzo al guado ormai e siamo tutti coinvolti in questo vortice di passioni, paure e dibattiti che hanno scandito la settimana più carica di tensione politica degli ultimi decenni. Domenica ultima stazione. I greci dovranno decidere tra libertà e paura? Tra essere una colonia che sopravvive tutto sommato o sprofondare in una dignitosissima miseria sovrana? La partita si gioca davvero tra un governo che sta difendendo il popolo dallo strangolamento economico e gli aguzzini che vogliono imporre il rigore oppure tra un irresponsabile leader populista e la dura realtà del sacrificio contabile necessaria a sedersi nel consesso privilegiato delle grandi potenze europee? Già perché sono queste le due narrative messe in campo nell’arco di questi cinque mesi di estenuanti trattative sul debito ellenico, 300 miliardi di euro circa impagabili in scomodissime rate più volte rinegoziate e ora scadute. Una retorica con risvolti persino estetici che si gioca tra l’immagine ingessata degli euroburocrati in abito grigio e occhialini montatura leggera e i due ragazzi greci sportivi senza cravatta che arrivano ai vertici in moto, talvolta con la camicia fuori dai pantaloni. Che sfrontati eh? Ma fu vera gloria quella di Tsipras e del suo ministro delle Finanze Varoufakis?
Che il piano della Troika fosse irricevibile nelle condizioni in cui si trovano i greci lo si sa da anni. Purtroppo per coloro che sostengono il contrario, l’intera letteratura scientifica economica con qualche rara eccezione di poco conto (Giavazzi/Alesina), ci illustra da decenni quanto fosse folle in generale il progetto eurocratico della moneta unica senza un governo, documentando in anticipo quanto sarebbe stato triste l’epilogo finale a cui un simile progetto avrebbe inevitabilmente portato i popoli sottoposti alla cura come cavie da laboratorio. Parliamo di voci diversissime tra loro dal nobel canadese Robert Mundell, all’economista Martin Feldstein (Harvard) che inascoltato indicò anni or sono come l’euro a suo avviso avrebbe potuto portare ad una guerra europea (sic!), fino a Rudi Dornbusch autore del manuale di macroeconomia tra i più usati e studiati nei campus universitari di tutto il mondo che, già negli anni ’90, si espresse con toni chiarissimi contro il progetto di moneta unica: “Se mai è esistita una cattiva idea questa è l’Unione monetaria europea”.Poi c’è la solita “Woodstock economica” dei controcorrente, ovvero la coppia degli immarcescibili premi nobel Krugman & Stiglitz (ormai sono come i poetici cantanti Simon & Garfunkel) che hanno invitato esplicitamente il popolo greco domenica a votare “OXI”, il primo meritandosi addirittura uno striscione in piazza Syntagma con scritto “Viva Krugman!”. I loro richiami keynesiani contro l’austerità sono ben noti da anni e hanno giocato sicuramente a favore del governo greco nel dibattito di questi giorni.
E in questi ultimi anni non sono mancate pesanti conversioni sulla via di Atene, prima tra tutte quella eclatante di Olivier Blanchard, a maggio dimissionario economista capo del Fondo Monetario Internazionale in sostanziale polemica con la linea ultrarigorista del Fondo, sposata acriticamente dalla direttrice Christine Lagarde. “Il rigore eccessivo blocca la crescita” ipse dixit, verrebbe di rispondere “buogiorno Mr. Blanchard!”. Un nome pesante nel mondo accademico, quello di Blanchard, docente del MIT, Harvard, incarichi alla Federal Reserve, responsabile del World Economic Outlook, il rapporto sullo stato di salute dell’economia mondiale che viene diffuso due volte all’anno e tenuto in considerazione dal mondo economico come l’oracolo di Delfi. Anche lui autore di un testo di macroeconomia e mentore di Luigi Zingales, che purtroppo però non ha fatto tesoro dell’ultima lezione del maestro e continua a sostenere la necessità dei sacrifici di spesa pubblica e pensioni per rimettere in moto le economie in difficoltà. Insomma, se si aggiunge anche l’ultima svolta, quella dell’ex eurocrate Fritz Bolkenstein (Commissione europea), il quale ha illustrato in un recente convegno il fallimento del progetto europeo mettendolo in relazione con il disegno istituzionale pensato anni prima da Helmut Kohl, vediamo come Tsipras si trovi in ottima compagnia.
Inoltre, uscendo per un attimo fuori dalle accademie, in questi giorni, oltre all’allarme del Governatore di Porto Rico (non potrà ripagare il debito al FMI), lo stesso Fondo Monetario ha rifiutato, cosa passata sotto silenzio dei media, la richiesta rivoltagli da 75 organizzazioni internazionali di alleggerire il debito del Nepal martoriato dal recente disastroso sisma. Si tratta di un debito di soli 55 milioni di dollari, briciole se paragonate al debito greco, ma il FMI ha detto no. É il caso di ricordare che il Nepal ha perso nel tragico terremoto oltre 8.600 vite, con una perdita economica di 10 miliardi di dollari pari ad un terzo dell’economia del paese. La Lagarde però non cede a questi sentimentalismi. Perché lavorare per ricostruire un paese distrutto quando si deve ripagare il debito? Il FMI agiva così negli anni ‘80 in America Latina imponendo cure di austerity a popoli già stremati in cambio di un prolungamento della scadenza dei ratei, affamandoli fino alla conclusione dell’inevitabile default. Sempre lo stesso circolo vizioso.
Questa mentalità meccanica radicata, questo deficit istituzionale di elasticità, controproducente se si pensa che far fallire una nazione significa non vederli mai più quei benedetti soldi, è la base del trionfo della narrativa imbastita dalla coppia Tsipras-Varoufakis i quali ora politicamente hanno il vento a favore. Beninteso, è un governo spacciato quello di Tsipras che ha in extremis svoltato a referendum per disincagliarsi da un’inevitabile voto parlamentare sulle proposte della Troika, voto che lo avrebbe fatto cadere. Oltre il 40% di Syriza aveva giurato di non votare le nuove ed ennesime misure di austerità a cui la Troika subordinava la concessione di nuovi aiuti, dopo aver già prelevato sangue da quegli stessi elettori a cui era stata promessa una boccata di ossigeno. Al di là di un’abile retorica democratica il paese è da anni già in default e mesi fa il governo aveva dichiarato di non poter rimborsare la rata da 1,6 miliardi di euro al FMI. Se non puoi rimborsare una cifra del genere, una goccia nel mare di un bilancio pubblico in uno stato europeo medio, vuol dire che il default è un fatto già dichiarato e da anni purtroppo. Non c’è mica bisogno che suoni chissà quale campana ad ufficializzarlo. Si tratta di una crisi di insolvenza che il referendum non risolverà, considerando che la chiusura del rubinetto della BCE costringerà probabilmente il governo greco, con le casse ormai vuote, a pagare i dipendenti pubblici con dei certificati di credito che di fatto costituiranno già una moneta parallela all’euro.
Questo toglie a Tsipras quell’aura magica e un po’ hollywoodiana da Spartaco del nostro tempo in lotta contro gli schiavisti (tedeschi questa volta), da Davide contro il possente Golia, il primo armato solo del suo coraggio. Oleografia che sta facendo commuovere i Moni Ovadia, le Barbara Spinelli, i Dario Fo e tutti i vendoliani arcobaleno nostrani. Tutti europeisti convinti, maghi del distinguo, finti rivoluzionari, quelli che credono fermamente nell’esistenza di un “sogno europeo” irrealizzato per colpa dei cattivi tedeschi (sempre loro). Quelli che si sarebbero accontentati di un po’ di welfare e si benessere, indifferenti alla sottrazione di identità che il progetto europeo ha sempre comportato fin da quando i vari Jean Monnet e Robert Schuman hanno avuto dagli americani l’incarico di chiudere l’Europa dei popoli in questa gabbia istituzionale per non farla mai più respirare. Questo è avvenuto fin dall’inizio e ad opera dei veri padri fondatori, i lobbisti e non gli inascoltati politici alla De Gaulle, De Gasperi ed Adenauer (conservatori questi ultimi).
Che questo tipo di sinistra radicale sia comoda agli interessi del potere finanziario lo si può facilmente dedurre dalle stesse parole di Yannis Varoufakis durante i lavori di un convegno dal titolo suggestivo “Subversive Festival” di Zagabria tenutosi nel febbraio del 2013 dove si parla di Europa, del capitalismo e degli errori delle sinistre socialdemocratiche o delle “terze vie” di Tony Blair e, più recentemente, di Matteo Renzi (che allora era solo sindaco di Firenze). È in quell’assise di marxisti che Varoufakis spiazza il pubblico, dichiarando di voler difendere il capitalismo, di non avere risposte pronte per cambiare i connotati all’economia globale. Risposte pronte che, invece, a suo avviso non mancano alle destre reazionarie e ai fascismi, che l’attuale ministro delle finanze greco mostra di temere più di ogni cosa: «La crisi economica non farà probabilmente nascere un’alternativa migliore del capitalismo. Al contrario, potrebbe pericolosamente liberare forze regressive che hanno la capacità di causare un bagno di sangue umanitario, estinguendo la speranza per ogni spinta al progresso per le generazioni a venire. Il mio scopo è quello di dimostrare che l’implosione del ripugnante capitalismo europeo vada evitata a ogni costo. È una confessione, questa, che intende convincere i radicali che abbiamo una missione contraddittoria. Quella di arrestare la caduta libera del capitalismo per aver tempo di trovare un’alterativa.(…) Per quanto mi riguarda, non sono pronto a soffiare altro vento nelle vele di questa versione postmoderna degli anni Trenta. Se questo significa che saremo noi, i marxisti adeguatamente eccentrici, a dover tentare il salvataggio del capitalismo europeo, così sia». E ancora: «Sono felice di confessare il peccato di cui sono accusato da alcuni dei miei critici a sinistra: il peccato di scegliere non di proporre programmi politici radicali che cerchino di sfruttare la crisi come un’opportunità di rovesciare il capitalismo europeo, per demolire la terribile eurozona, e per minare l’Unione europea dei cartelli e dei banchieri delle bancarotte».
Messaggio cristallino che non ha bisogno di interpretazioni, Varoufakis vuole salvare la baracca che si sta autodistruggendo. Insomma il migliore amico della finanza mondiale, abbastanza eccentrico e radicale (a parole) per catalizzare su di se il voto dei sinistro-dissenzienti ma sufficientemente avveduto (rectius coniglio) da catalizzarlo e contenerlo per disinnescare la rabbia rivoluzionaria ripiegando su posizioni concilianti. E se poi emergono i veri populismi (Fn, Lega, Alba Dorata, Jobbik, Orban) quelli che hanno le idee chiare e non vengono a patti con i liberali, a quel punto si salta tutti insieme nel nuovo CNL antifascista per affrontare il nemico esistenziale abbattendo le differenze un momento prima rimarcate. Per riformare il capitalismo c’è sempre tempo poi…nei secoli a venire. Per il momento si tratta per restare nell’euro, senza cravatta e con la moto però, così i giornalisti sapranno come riempire le pagine di inutilità mascherate da notizie e tutti penseranno quanto è anticonformista e fico questo ministro che ha insegnato a Cambridge e ora si prende gioco di Dijsselbloem e Schäuble. Leggendo questo manifesto del Varoufakis-pensiero si prova un istintivo affetto per frau Merkel. In fondo quella donna è coerente, persino esteticamente con quell’immagine da direttrice scolastica di un collegio svizzero per bambini, ma sicuramente sta lavorando più lei per la causa sovranista di tutti gli Tsipras e i Podemos d’Europa. E non giurerei che lo faccia involontariamente!

Obama_Merkel_dollPer quanto la dottrina tedesca del pareggio di bilancio sia diventata in questi anni una specie di religione, di nuovo luteranesimo nella dirigenza tedesca in ossequio all’ordoliberalismo della scuola di Friburgo come denuncia da tempo Wolfgang Munchau su “Financial Times”, recenti richiami contrari ad una permanenza ad oltranza della Grecia nella moneta unica da parte della potente Confindustria tedesca e di Volker Kauder, presidente del gruppo parlamentare della Cdu, fanno capire chiaramente che la Cancelliera deve confrontarsi con un’opinione pubblica interessata a sbarazzarsi del problema Grecia il prima possibile. L’ottimo Sebastiano Barisoni su Radio 24 ha dato conto di come in queste ore l’opinione maggioritaria nell’eurogruppo sia proprio questa, cioè “meno siamo meglio stiamo” come avrebbe detto Renzo Arbore. Anche Padoan ne è convinto ormai. Cosa li sta frenando? Obama naturalmente, che in queste ore non fa che telefonare a tutti nell’ossessione che l’uscita della Grecia dall’euro porti quest’ultima nella sfera di influenza russa facendo perdere agli americani il Mediterraneo orientale. Ovviamente questa è la preoccupazione di un impero che guarda orizzonti ben più vasti del registratore di cassa tedesco, interessi geo-strategici politici e militari che in Germania sembrano oscuri gargarismi in ostrogoto. Il fatto stesso che si usino le parole in lettere e non soltanto i numeri ai tedeschi proprio non va giù. È una lingua che non capiscono più, ormai sclerotizzati definitivamente nella loro atavica impoliticità. È una tensione, quella tra Washington e Berlino, davvero interessante, molto più dei discorsi alla nazione di Tsipras. “Questa Germania sta diventando ingestibile ultimamente”, così George Friedman dell’influente think-tank Stratfor e sono molti a pensarla come lui negli Usa.
La Germania tende ad agire in base a ciò che le conviene economicamente che agli americani piaccia o no e questo sarà probabilmente il maggior problema negli assetti mondiali del prossimo futuro. La crisi greca si gioca lungo il filo ad alta tensione di queste due potenze, tra le scosse sismiche di una relazione infida e opportunistica. I greci, intanto, pagano le spese di questa crisi vivendo una situazione argentina con le immancabili code ai bancomat e l’economia bloccata dopo anni di recessione generata dal rigore. Un tale ha scritto su un muro di Atene: “Voglio morire”. Qualcuno ha completato scrivendo accanto “devi aspettare perché c’è la coda!”. Oltre a questo humor nero la disperazione genera rabbia, ma rende anche fertile il terreno alle spinte rivoluzionarie e sovraniste.
A prescindere da come vada domenica stiamo vivendo ore molto interessanti e vivaci. Le turbolenze dei mercati, il risveglio di paure collettive ma anche di passioni intense, gli occhi del mondo puntati su Atene in un dibattito scandito dai rintocchi dell’orologio, con il sangue che torna finalmente a scorrere in quelle vene. In quelle vene europee atrofizzate da decenni di abdicazione storica e ibernazione della volontà politica dei popoli. Un’eventuale vittoria del No al referendum di domenica potrebbe aprire una crepa nel gigantesco muro di recinzione in cui sono chiusi tutti i popoli d’Europa generando una reazione a catena che certo Tsipras non auspicava. Forse non sarà lui a gestire le successive fasi di questo percorso che è il passaggio di un’onda molto più lunga ed importante iniziata con le scorse elezioni europee. I prossimi a svegliarci dal sonno dogmatico liberale potremmo essere noi italiani. Se avremo forza e lucidità anche noi potremo fra non molto dire il nostro no. Per il momento diciamo OXI.