Parte lentamente, con abbondanti dosi di scioltezza e ironia, poi improvvisamente accelera e le stoccate di fiorino si trasformano in palle di cannone, sparate al cuore dell’Unione Europea. Esibisce un interessante doppio registro l’ultimo saggio di Hans Magnus Enzensberger, il maggior poeta tedesco vivente, dedicato al tentacolare governo continentale, Il mostro buono di Bruxelles (Einaudi, pp. 98, euro 10). Non si tratta, ed è bene chiarirlo in premessa, di un libro inoffensivo. Al contrario, potrebbe rivelarsi letale per il fortino del pensiero dominante anche perché questa volta risulterà difficile liquidare le accuse prodotte appiccicando sul petto dell’autore le solite, mortifere etichette di “populista” o“demagogo” in quanto Enzensberger è, come universalmente noto, uno degli intellettuali più spiccatamente europeisti in circolazione. E la sua invettiva, quindi, si nutre di constatazioni e non di pregiudizi.
L’inizio è soft, ma già trasuda veleno quel capitolo introduttivo dedicato a quanto di buono ha finora prodotto l’unione continentale. Cinque paginette scarse per ricordare l’acquisita facilità di circolazione, le norme antifumo, le disposizioni in materia di tariffe telefoniche, i finanziamenti all’agricoltura e alle regioni più disagiate. Anche volendosi sforzare, non c’è nient’altro. Archiviata la scarna parentesi con quel sarcasmo esibito fin dai tempi di Classe media blues, Enzensberger passa all’offensiva puntando l’indice contro l’oscurità dei trattati, la complessità del quadro istituzionale, gli agi e privilegi di cui godono i burocrati non eletti (cosa che indigna notevolmente i media europei, molto meno quelli italiani impegnati con ben altri problemi di casta). Inoltre, l’Unione pare non sapere resistere alla tentazione di mettere bocca su tutto con proverbiale pedanteria: dalla curvatura dei cetrioli alla lunghezza minima dei preservativi ogni cosa è perimetrata al dettaglio, tranne la cultura, “difficilmente omologabile”, per la quale Bruxelles spende tre volte meno della sola municipalità di Monaco di Baviera.
Ma la pungente descrizione di tanta invasività è solo l’anticamera della svolta. Il libro cambia infatti improvvisamente passo pescando dal cilindro europeo il ritratto di una figura chiave nella costruzione dell’Unione: il francese Jean Monnet, glorificato “padre” dell’Europa odierna e primo presidente della Comunità del carbone e dell’acciaio. Di lui, per Enzensberger, sono chiare due cose: amava muoversi “nell’ombra” e, soprattutto, “non attribuiva alcun valore alle consultazioni popolari e ai referendum” e “neppure alla garbata invenzione della sovranità popolare”. Sintetizzando, secondo il Monnet-pensiero, l’Unione avrebbe dovuto realizzarsi attraverso decisioni prese dietro le quinte da ignoti burocrati sulla pelle di cittadini costretti al silenzio.
Dalla teoria alla pratica il passaggio è stato brevissimo ed ecco spiegato, nelle sue inconfessabili radici ideologiche, il cronico deficit democratico che affligge il continente. Una pillola amara, indorata da un paternalismo che Enzensberger sintetizza brutalmente, riportando l’orientamento dell’Unione: “La gente ignorante non sa quale sia la cosa migliore per lei. Per questo si fa bene a non consultarla neppure”.
L’eurocrazia invece non ha dubbi di sorta e, dunque, assume come propria missione storica il diritto “spietatamente umanitario” di orientare i destini collettivi, costruendo non tanto una prigione, quanto piuttosto “un riformatorio che provveda al rigoroso controllo dei suoi protetti”. Si dispiega così, e in tutta la sua brutalità, l’azione del “mostro buono” che regala attualità alle preoccupate parole di Hannah Arendt a proposito del “dominio esercitato non dalle persone o dalle leggi, bensì da anonimi uffici o computer, la cui superpotenza del tutto spersonalizzata può minacciare, più del vergognoso arbitrio delle dittature del passato, la libertà e quel minimo di civiltà senza il quale è impossibile immaginare una vita collettiva”.
*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”