di Leonardo Petrocelli
Se non l’avete ancora visto lo vedrete presto, perché The Imitation Game (2014) di Morten Tyldum è uno di quei film (pre)destinati a fare incetta di Oscar e a diluirsi nella rete con migliaia di contributi interpretativi e storiografici. Dunque, non crediamo di ledere il legittimo diritto alla sorpresa facendo un po’ di spoiler sulla vicenda raccontata dalla pellicola. Ci troviamo in piena Seconda Guerra Mondiale, i nazisti spadroneggiano in tutta Europa e non sembra esserci modo di fermarli sul campo. Per assicurarsi un vantaggio sul nemico, gli alleati avrebbero bisogno di decriptare i codici segreti che i tedeschi utilizzano, grazie alla macchina Enigma, per coprire le proprie strategie. E qui entra in scena Alan Turing, geniale matematico e crittografo ebreo-britannico, arruolato dall’esercito di Sua Maestà in una unità di crittoanalisi con l’unico obiettivo di decifrare l’indecifrabile. L’impresa, come storicamente noto, andò a buon fine, accorciando – così ci raccontano – la guerra di quasi due anni e salvando la vita a milioni di persone.
Fin qui la Storia. Ora, la vita. Perché Turing era, al tempo, un personaggio sui generis. Buon maratoneta, omosessuale, gravato da enormi difficoltà socio-relazionali, totalmente dedito all’astrazione e al calcolo, si segnalò alle cronache non tanto per il contributo fornito durante la guerra (coperto per anni dal segreto), ma per altre due ragioni: la prima si lega alla condanna subita per omosessualità e alla successiva castrazione chimica che provocò in lui una forma pronunciata di ginecomastia (crescita dei seni). La seconda è da mettersi in relazione agli studi post-bellici di Turing, collegati all’intelligenza artificiale, di cui egli pronosticava l’avvento entro il Duemila, e alla creazione di una macchina, la Macchina di Turing, appunto, – più evoluta di quella con cui aveva messo in scacco i nazisti – universalmente considerata come la madre del moderno computer. Da cui l’incoronazione del Nostro a pioniere dell’odierna informatica.
A fronte di questa asettica narrazione si può affermare, come sempre, che l’interessante non è nei dati o nelle semplificazioni del racconto, ma negli interstizi della vicenda, nella malta fra i mattoni. E in quella domanda che Turing stesso, dopo averlo messo a conoscenza di tutta la storia, pone al poliziotto che l’ha appena arrestato: “Chi sono io?”. Le alternative in campo sono molte: un eroe di guerra, un mostro, un genio del calcolo, uno sconfitto, un perseguitato e compagnia cantando. Ma la risposta è solo una e tanti indizi la suggeriscono. La sua sessualità precoce, incerta e liquida (in procinto di sposarsi si chiede alludendo alla prima notte: “Ci riuscirò?”); la sua difficoltà ad interagire con il prossimo, se non attraverso la genialità dell’astrazione, in una perenne oscillazione tra fragilità paralizzante, incapacità quasi fisica di esprimere i pensieri ed egotica superbia; la compulsiva attrazione per le macchine sulle quali scaricherà l’evidente scompensazione affettiva, arrivando ad accarezzare i cavi con struggente affetto e a ribattezzare il macchinario con il nome del suo amore liceale da tempo defunto (per inciso, preferì la castrazione al carcere proprio perché la detenzione l’avrebbe tenuto lontano per due anni – sic – dalla sua creatura meccanica); l’indifferenza sostanziale per la macelleria umana che stava avendo luogo al di fuori della sua stanza e dei suoi calcoli, quasi la viva carne della Storia fosse un riferimento teorico senza corpo né sangue. Perfino la passione per il footing fa gioco alla riflessione. L’avete capito? Turing è l’uomo del domani, del “suo” domani e cioè quello che brulica oggi nelle nostre metropoli. Turing è il noi di questo tempo.
Dite di no? Certo, identificarsi con un simile personaggio costa fatica e uno sforzo d’onestà non indifferente. Nemmeno il più sfigato ed involuto dei nerd, si apparenterebbe a un uomo in cui ogni tratto dell’essere è deformato/dilatato fino al parossismo e che, per questo, con i suoi comportamenti eterodossi, produce irritazione perfino nello spettatore meglio disposto ad inchinarsi – come educazione civile suggerisce – all’eroe gay, ebreo e antinazista. Più facile, fuori dal politicamente corretto, accordare la propria simpatia a Hugh Alexander, il bello della combriccola dei geniacci, quello che beve, ride, scherza, che stende ogni ragazza con uno sguardo e anche il nostro Alan con un pugno, dopo l’ennesima esibizione di incomunicabilità.
Eppure, vi piaccia o meno, il riflesso nello specchio è quello di Alan. L’umanità che corre nei parchi, che avverte la Storia come scenografia lontana e indifferente, che vive intrappolata nel labirinto autoreferenziale del mentale, che esercita la propria relazionalità attraverso il filtro consolatorio delle macchine, che combatte le guerre nascosta dietro un algoritmo, e che arriva, a compimento di tutto questo, a domandarsi “Chi sono?”, in una cronica e costante perdita dell’identità, è proprio il suo riflesso postumo, la sua inconfessata progenie. Una sorta di proiezione dilatata, di “Turing collettivo” che, per inciso, non possiede nemmeno il suo genio.