Figli d’America

Aaron+Alexis+mug+better

Procedono con una lentezza spaventosa le indagini americane sulla strage di lunedì al Navy Yard di Washington. L’unico dato certo è il bilancio delle vittime: dodici, con otto feriti da aggiungere alla lista. E poi c’è il nome del colpevole, Aaron Alexis, un ragazzone di colore ex riservista della marina e assunto a contratto come tecnico informatico nel quartier generale, che ha fatto fuoco all’impazzata dopo aver incredibilmente (sic) superato, armi alla mano, tutti i controlli del caso.

Per il resto, i contorni della fotografia si dissolvono nella solita nebbia di contraddizioni. I sopravvissuti dicono di aver visto altri due uomini sparare. Poi uno solo, infine nessuno. Non ci sono complici. Ha fatto tutto Alexis, da solo, ed è il lui l’unico responsabile, il mostro in solitaria del Navy Yard crivellato di colpi dalla polizia (suicide by police, dicono eloquentemente gli americani in questi casi) e, dunque, ormai impossibilitato a spiegare il folle gesto. I morti non parlano, purtroppo o per fortuna.

Eppure la circostanziata confessione dello stragista, evento in America più raro dell’acqua nel deserto, avrebbe fatto comodo innanzitutto ai maggiori quotidiani, impegnati in una vorticosa gara di imprecisioni. La story line, faticosamente ricostruita, è la seguente. Alexis – prima di essere inviato quattro mesi fa a Washington e all’interno di una carriera spesa soprattutto a Fort Worth in Texas – aveva servito la marina fra il 2007 e il 2011 anche se nessuno riesce a capire se sia mai stato spedito sul campo di battaglia. Di certo, il nostro aveva partecipato ai soccorsi il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle, guadagnandosi una medaglia d’oro e un post traumatic disorder. Da qui in poi la vicenda si fa pittoresca: era buddista, studiava il thailandese, bramava una donna asiatica, aveva il pugno facile e gli era capitato di aprire il fuoco già due volte, in casa e all’aperto. Alexis era, insomma, un violento perseguitato dalle immancabili “voci nella testa” e da tremiti che coglievano improvvisamente il suo corpo.

In una parola, era un folle. Il che, però, non elude la domanda sulle ragioni della strage. Qualcuno, timidamente, ha provato a buttare sul tavolo il passepartout: terrorismo. Ma è stato silenziato all’istante. Come dimostra il basso profilo adottato nelle celebrazioni per l’11/9, non è il momento di aizzare l’opinione pubblica americana contro Al Qaeda, alleato prezioso in Siria. Quindi si passa al piano B: Alexis, nella sua lunga permanenza in Texas, ha assorbito e fatto proprio l’odio sudista contro Washington, cuore e cervello del potere sionista accentratore. Sarebbe, insomma, un neonazista con qualche problema di pelle. Ma, anche questa volta, la raffica è a salve.

Lo stesso Obama si è trincerato dietro un vago giudizio di circostanza, “è un atto di codardia”, premendo l’acceleratore solo in riferimento all’urgenza di aumentare i controlli sul passato di chi fa richiesta di armi. Se siete “pericolosi”, moralmente o, chissà, anche politicamente, nulla vi sarà dato. Un accorgimento che potrebbe rivelarsi prezioso in vista del crollo economico e finanziario che, a detta della maggioranza degli analisti, attende dietro l’angolo gli Stati Uniti e che porterà in piazza milioni di persone furenti. Da disarmare al più presto.

Dunque, cosa resta? Resta un ragazzo “ready to move out of the country” cioè pronto a scappare da una società in cui non si ritrovava più. E in cui sbatteva da un muro all’altro come una trottola impazzita: meditava, faceva a pugni, sognava l’Oriente, sparava al camion del vicino. Alexis è un figlio dell’America e dalla sua anima nera, un anonimo topolino partorito dalla montagna della follia. Se l’hanno usato o ha pianificato tutto da solo, se il suo è stato un gesto solitario o da inserire, ad esempio, nella più ampia “rivolta dei militari” stravolti da un decennio orribile, è troppo presto per dirlo. Serviranno altri elementi che, però, non rovesceranno il quadro d’insieme. Benvenuti in America, ancora una volta.

*Pubblicato su barbadillo.it

FRAGILI come cristallo

DisperazioneFare della bassa sociologia sulla tragedie non è un’impresa felice. Ma di fronte alla morte di un ragazzo di 28 anni, suicidatosi lanciandosi dal quarto piano nel Campus di Bari, probabilmente per ragioni legate alla sfera sentimentale e affettiva, un giusto interrogativo è stato posto: “Si dice spesso che questi ragazzi sono fragili: forse. Ma chi e che cosa li ha resi così?”. È una domanda cui è imperativo rispondere, ovviamente con una riflessione generale che non illustra né esaurisce le dinamiche specifiche del dramma citato.

Tutte le civiltà che la Storia ha visto sfilare nel corso dei millenni possedevano un orizzonte di senso, offrivano cioè agli uomini e alle donne che le abitavano un basamento sicuro, un “sole” intorno a cui far ruotare, giustificandole e sostenendole, le dinamiche di vita collettive. La centralità del sacro – comune alle grandi civiltà indoeuropee, asiatiche e, seppur molte ottave sotto, anche all’ecumene medievale – è stato l’orizzonte di senso più alto in virtù della sua natura intrinseca, destinata a sollevare l’uomo dal vortice del divenire. Come uno scoglio nella tempesta, l’uomo era centrato in sé, sollevato dalle miserie o dalle ingiustizie che lo minacciavano nel quotidiano perché le sue radici affondavano altrove, o meglio nell’altrove.

In quel progressivo scadimento di tono che puntella il regredire della Storia, la colonna più solida si è sgretolata lasciando il posto a surrogati più fragili e sempre meno degni, ma pur sempre dei surrogati. Tutto si può dire del Novecento, meno che sia stato un secolo inerte. Al contrario, ferro e sangue, ideali e battaglie, lo hanno attraversato senza sosta, dall’inizio alla fine. Perfino i ragazzi italiani degli Anni di Piombo sono stati della partita. Ogni uomo ha combattuto per una causa più grande di lui.

Poi qualcosa è cambiato. Il grande sonno ha iniziato ad abbracciare l’Occidente all’alba degli Anni Novanta quando il processo modernista e desertificatore ha raggiunto l’acme. Sul piano politico quel decennio ha visto imporsi una serie di passaggi chiave: la pax clintoniana che ha incoronato l’America unica sovrana del mondo, la definitiva emancipazione della finanza, le privatizzazione selvagge, la costruzione delle grandi impalcature tecnocratiche. In sintesi, una certosina opera di svuotamento degli stati sovrani e, dunque, di inibizione della loro possibilità di assumere una missione nella storia. Come in una corrispondenza perfetta fra macrocosmo e microcosmo, stessa sorte, sul piano antropologico e culturale, è toccata all’uomo, depauperato di ogni slancio più ampio della propria miseria e consegnato ad un’esistenza animale imperniata sul monadismo e sul desiderio. La società della crescita infinita, dei consumi smodati, del delirio prometeico di scienza e tecnica, ha potuto dilagare.

Promuovendo, ed è la domanda fondante, quale orizzonte di senso? Il sogno americano, la cavalcata sociale, la scalata irata e rancorosa. Dal delfico conosci te stesso all’anglosassone realizza te stesso, puramente su un piano quantitativo, materiale, economico. Il figlio del contadino deve provare a diventare impiegato, il figlio dell’impiegato avvocato, il figlio dell’avvocato professore universitario, il figlio del professore banchiere. Correte e non fermatevi mai. La grande anomalia del mondo moderno è tutta qui, nella sola sfida che offre ai suoi figli: passare dall’utilitaria alla Porsche. Nient’altro. Per la prima volta dall’alba dei tempi, il cimento non è più grande dell’uomo che lo incarna, ma è perfino più piccolo perché solletica solo il ventre cioè la parte meno nobile dell’intero essere.

Allevata da questo mantra, una generazione di automi alienati si è trascinata per il mondo finché la società ha garantito la possibilità di raggiungere la terra promessa. Ma la crisi che si è abbattuta sull’economia globale ha sparigliato il gioco. Ora la scalata non si può più fare. Al contrario si può solo retrocedere, perché la crisi non passerà, è strutturale, annuncia la dipartita irreversibile di un sistema, quello capitalista, arrivato al capolinea. Le promesse e la realtà non coincidono più. Il contadino resta contadino, senza appello, ed anzi farà bene a presidiare i suoi campi con un fucile ben carico perché impiegati, avvocati, professori e imprenditori stanno venendo a rubargli le mele.

Cosa può fare, a questo punto, il cittadino di una società che ha perso il suo orizzonte di senso e non sa immaginarne uno diverso? Nel migliore dei casi, prova a cercarselo da solo con la modestia di mezzi che questo mondo gli ha fornito. Si attacca a tutto quello che ha o crede di avere: ai sentimenti, agli hobbies, alle passioni, nel tentativo disperato di riuscire ad ingannare se stesso, a dirsi in tono rassicurante: “Va tutto bene, io ho questo per cui vivere”. Ma è un trucco, solo un trucco. E così quando anche quell’appiglio fantasma, sul quale si era puntato tutto, viene meno, perché la fidanzata ti lascia o la squadra del cuore va in fallimento, non c’è più nulla a cui aggrapparsi e non resta che precipitare nell’abisso. Giù dal quarto piano.

VERSI, UOMINI E DEI/2

coplibroUn amore infranto dal veleno della ragione spalanca le porte alla rabbia e restituisce alla coscienza una missione perduta: riannodare il filo spezzato fra uomo e Natura, lasciando che tramonti l’idea, tutta moderna, dell’orizzonte come terra di conquista per la civiltà della tecnica. È un grido irato da “esule in patria” quello lanciato da Sandro Marano, poeta ed ecologista barese, da anni attivamente impegnano in battaglie a salvaguardia dell’ambiente, nella sua ultima raccolta di poesie Vaghe lettere di amore e rabbia (Aletti ed.). Una cascata di versi contro il proprio tempo – divisa in due sezioni distinte (“Per fare più verde” e “Camminando”) ed epilogata dal canto conclusivo “Danza di febbraio”- in cui l’autore abilmente si appropria dello stilema che fu di Ezra Pound: raccontare la modernità feroce della speculazione, dell’industrialismo, della finanza, delle banche, ma anche dell’onnipotenza scientifica e tecnocratica, attraverso la delicatezza elegante del verso.

Dondolando “sul mare come sparsi fogli”, le liriche di Marano spazzano via i fumi mortiferi di Fukushima, rievocano la tragedia meridionale di Pontelandolfo, si interrogano “sulla vuota retorica che celebrò stragi fraterne” e puntano il dito intonando la più tragica delle accuse: “E voi siete felici?”. L’interrogativo è rivolto a tutti coloro che hanno gettato legna nelle caldaie della modernità. I signori della borsa, i mercanti, i politici di destra e di sinistra “mai sazi di grandi opere inutili”, gli animatori inesausti del mito-dogma della crescita, ma anche gli “scienziati alacri/ chiusi nei loro simulacri/ servi della pubblicità”. Tutti coloro, insomma, che non ricordano più una verità ormai inconfessabile: non era nostro destino fare “del mondo un grande supermercato” né lasciare che “l’età della plastica” soppiantasse l’età dell’oro.

Eppure questo è esattamente ciò che è avvenuto. Le rotte della storia sono state smarrite, “della Terra nessun più si cura”, ogni passo nel mondo alimenta i fuochi di un incontrollato delirio prometeico. E il rifugio del poeta in rivolta non è, e non può essere, solo una sera di maggio ove “non oscura le stelle/l’ingorgo d’auto”, ma un luogo così lontano da riuscire a sfiorare l’anima. Perché non ci sono vie di fuga per un uomo nietzschianamente sospeso fra Dio e il nulla, ma solo un ritorno verso se stesso “sulle vette lontane, laddove siedono in esilio gli dei”.

S. MARANO, Vaghe lettere di amore e rabbia, Aletti, pp.58, euro 12.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”