FRAGILI come cristallo

DisperazioneFare della bassa sociologia sulla tragedie non è un’impresa felice. Ma di fronte alla morte di un ragazzo di 28 anni, suicidatosi lanciandosi dal quarto piano nel Campus di Bari, probabilmente per ragioni legate alla sfera sentimentale e affettiva, un giusto interrogativo è stato posto: “Si dice spesso che questi ragazzi sono fragili: forse. Ma chi e che cosa li ha resi così?”. È una domanda cui è imperativo rispondere, ovviamente con una riflessione generale che non illustra né esaurisce le dinamiche specifiche del dramma citato.

Tutte le civiltà che la Storia ha visto sfilare nel corso dei millenni possedevano un orizzonte di senso, offrivano cioè agli uomini e alle donne che le abitavano un basamento sicuro, un “sole” intorno a cui far ruotare, giustificandole e sostenendole, le dinamiche di vita collettive. La centralità del sacro – comune alle grandi civiltà indoeuropee, asiatiche e, seppur molte ottave sotto, anche all’ecumene medievale – è stato l’orizzonte di senso più alto in virtù della sua natura intrinseca, destinata a sollevare l’uomo dal vortice del divenire. Come uno scoglio nella tempesta, l’uomo era centrato in sé, sollevato dalle miserie o dalle ingiustizie che lo minacciavano nel quotidiano perché le sue radici affondavano altrove, o meglio nell’altrove.

In quel progressivo scadimento di tono che puntella il regredire della Storia, la colonna più solida si è sgretolata lasciando il posto a surrogati più fragili e sempre meno degni, ma pur sempre dei surrogati. Tutto si può dire del Novecento, meno che sia stato un secolo inerte. Al contrario, ferro e sangue, ideali e battaglie, lo hanno attraversato senza sosta, dall’inizio alla fine. Perfino i ragazzi italiani degli Anni di Piombo sono stati della partita. Ogni uomo ha combattuto per una causa più grande di lui.

Poi qualcosa è cambiato. Il grande sonno ha iniziato ad abbracciare l’Occidente all’alba degli Anni Novanta quando il processo modernista e desertificatore ha raggiunto l’acme. Sul piano politico quel decennio ha visto imporsi una serie di passaggi chiave: la pax clintoniana che ha incoronato l’America unica sovrana del mondo, la definitiva emancipazione della finanza, le privatizzazione selvagge, la costruzione delle grandi impalcature tecnocratiche. In sintesi, una certosina opera di svuotamento degli stati sovrani e, dunque, di inibizione della loro possibilità di assumere una missione nella storia. Come in una corrispondenza perfetta fra macrocosmo e microcosmo, stessa sorte, sul piano antropologico e culturale, è toccata all’uomo, depauperato di ogni slancio più ampio della propria miseria e consegnato ad un’esistenza animale imperniata sul monadismo e sul desiderio. La società della crescita infinita, dei consumi smodati, del delirio prometeico di scienza e tecnica, ha potuto dilagare.

Promuovendo, ed è la domanda fondante, quale orizzonte di senso? Il sogno americano, la cavalcata sociale, la scalata irata e rancorosa. Dal delfico conosci te stesso all’anglosassone realizza te stesso, puramente su un piano quantitativo, materiale, economico. Il figlio del contadino deve provare a diventare impiegato, il figlio dell’impiegato avvocato, il figlio dell’avvocato professore universitario, il figlio del professore banchiere. Correte e non fermatevi mai. La grande anomalia del mondo moderno è tutta qui, nella sola sfida che offre ai suoi figli: passare dall’utilitaria alla Porsche. Nient’altro. Per la prima volta dall’alba dei tempi, il cimento non è più grande dell’uomo che lo incarna, ma è perfino più piccolo perché solletica solo il ventre cioè la parte meno nobile dell’intero essere.

Allevata da questo mantra, una generazione di automi alienati si è trascinata per il mondo finché la società ha garantito la possibilità di raggiungere la terra promessa. Ma la crisi che si è abbattuta sull’economia globale ha sparigliato il gioco. Ora la scalata non si può più fare. Al contrario si può solo retrocedere, perché la crisi non passerà, è strutturale, annuncia la dipartita irreversibile di un sistema, quello capitalista, arrivato al capolinea. Le promesse e la realtà non coincidono più. Il contadino resta contadino, senza appello, ed anzi farà bene a presidiare i suoi campi con un fucile ben carico perché impiegati, avvocati, professori e imprenditori stanno venendo a rubargli le mele.

Cosa può fare, a questo punto, il cittadino di una società che ha perso il suo orizzonte di senso e non sa immaginarne uno diverso? Nel migliore dei casi, prova a cercarselo da solo con la modestia di mezzi che questo mondo gli ha fornito. Si attacca a tutto quello che ha o crede di avere: ai sentimenti, agli hobbies, alle passioni, nel tentativo disperato di riuscire ad ingannare se stesso, a dirsi in tono rassicurante: “Va tutto bene, io ho questo per cui vivere”. Ma è un trucco, solo un trucco. E così quando anche quell’appiglio fantasma, sul quale si era puntato tutto, viene meno, perché la fidanzata ti lascia o la squadra del cuore va in fallimento, non c’è più nulla a cui aggrapparsi e non resta che precipitare nell’abisso. Giù dal quarto piano.

Ho tifato Giappone

balotelli-e-prandelliPer trentotto minuti è esistita una squadra sola. Il racconto di Italia-Giappone, confronto valido per il gruppo A della Confederations Cup, non può che iniziare da qui: da undici samurai scesi in campo contro altrettanti spaventapasseri bardati d’azzurro, travolti dallo tsunami nipponico. Agilità, mobilità, palleggio nello stretto, geometrie e inserimenti perfetti. Il Giappone di Zaccheroni-San ha passeggiato sul cadavere italiota capitalizzando al meglio la propria superiorità con due gol in mezz’ora (Honda e Kagawa) ed una infinità di occasioni create. Spettacolo puro.

Anche allo sguardo di uno spettatore neutrale, come le migliaia di brasiliani assiepati sugli spalti della Arena Pernambuco, un simile vorticare di maglie bianche non avrebbe potuto che produrre la scomunica dell’indifferenza. E infatti la torcida verdeoro, partita con gli occhi lucidi per Pirlo e Balotelli, inizia ad applaudire i giapponesi, a scandire gli scambi rapidi con gli “olè”, ad entusiasmarsi per ogni combinazione andata a segno. Quanto agli azzurri, piovono fischi da ogni parte perché in Brasile, dove nonostante la crescita economica è rimasto del sale in zucca a qualcuno, gli insulti arrivano se giochi male, non se perdi. E l’Italia è un pianto: la difesa imbarca acqua da tutte le parti, il centrocampo non disegna, Pirlo è l’ombra di se stesso, Buffon un pensionato (Beckenbauer dixit), Aquilani va fuori al 29′.

Come spesso accade, la fortuna aiuta gli ignavi e così, dopo quaranta minuti di oscena apatia e penosa immobilità, l’Italia accorcia le distanze con De Rossi. La katana, a questo punto, si spezza. I giapponesi si accorgono che la giustizia pallonara non è di questo mondo e si piegano sulle ginocchia. In sette minuti, all’inizio della ripresa, incassano altri due gol (complice un’autorete) e la frittata sembra fatta: 3-2 per l’Italia. Una rimonta gloriosa per il tifoso azzurro accecato dalla partigianeria, un’ingiustizia di proporzioni ciclopiche per qualunque essere umano dotato di raziocinio. I brasiliani, infatti, lungi dall’infervorarsi per l’inaspettata remuntada, tacciono, mortificati per il Giappone sull’orlo del collasso psicologico e infastiditi dalla sfacciata fortuna dell’Italia. Che, da par suo, decide bene, dopo 13 minuti di calcio appena decente, di fermarsi e ritornare a dormire, prostrata dallo sforzo eccessivo (sic).

Il Giappone, invece, ricomincia a correre e si ribella al destino già scritto. Con le residue forze ricuce il gioco, recupera e riparte, punta l’area avversaria e riprende a martellare. I brasiliani si scaldano ed anche chi vi scrive si unisce al coro, iniziando senza remore a tifare forsennatamente per i nipponici. Su punizione di Endo, Okazaki salta più in alto del metrosexual Montolivo e buca il pensionato “montiano”. 3-3. Meritato premio, per questa squadra “scandalosamente” monoetnica a cui però Zaccheroni decide di aggiungere un improvviso tocco Europe: al 34′ del secondo tempo esce Maeda ed entra il centravanti Mike Havenaar, padre olandese e madre nipponica. Così commenta, sarcastico, il telecronista Rai Stefano Bizzotto:“Havenaar di giapponese ha molto poco”. Balotelli, di italiano, non ha invece assolutamente nulla, ma questo non si può dire: è fascismo, razzismo, intolleranza da trogloditi. Ce lo spiega bene l’altro commentatore, Beppe Dossena, che tira in ballo il Nostro ogni secondo. Lo incensa anche se respira. “Bene Mario”, “Ma che bravo Mario”, “Vediamo dove si è messo Mario” (su calcio d’angolo avversario!).

In questa brodaglia nauseabonda di buonismo, considerazioni sinistrate e sostegno per contratto ad una nazionale di viziati incapaci, non si riesce a trovare una buona ragione per non sostenere il Giappone. E la sorte fornisce subito un ulteriore motivo per moltiplicare lo scoramento: a quattro minuti dalla fine Marchisio regala l’assist vittoria all’altro metrosexual, il nano Giovinco, che sigla il sorpasso definitivo. 4-3 per l’Italia e buonanotte.

I giapponesi non ci credono. Alzano gli occhi al cielo, bestemmiano, imprecano. Gli italiani invece si sfregano le mani e gongolano. “Siamo una squadra che sa soffrire” constata, raggiante, il ct Prandelli, quello del codice etico che tante vittime ad hoc ha mietuto, ad iniziare da Cassano per le sue frasi sui gay. Inevitabile, d’altronde. La squadra azzurra è una specie di superspot ambulante della società multietnica, tollerante, aperta al futuro. “Scrivete pure quello che volete ma alla Confederations Cup tifate un’altra nazione. Ve lo dico con il cuore”, ha recentemente scritto Balotelli in un tweet, rispondendo alle critiche dei tifosi. Consiglio pertinente. Ieri sera, ne avevamo trovata una niente male.

*Pubblicato su barbadillo.it

Intervista a GIULIETTO CHIESA “Contro la catastrofe”

chiesagRitengo sia tempo di gettare l’allarme, anzi di gridarlo con tutta la forza di cui si dispone. Siamo già in grave ritardo”. Inizia così, con un Avviso ai Lettori che non conosce giri di parole, il volume Invece della catastrofe (Piemme ed., pp. 291, euro 17,50), firmato dal giornalista e saggista Giulietto Chiesa, fondatore del laboratorio politico “Alternativa”. Ampio è il ventaglio dei temi affrontati nel testo: la crisi energetica, quella economica e finanziaria, il ruolo dell’informazione, la deriva della scienza e della tecnologia, il destino dell’Europa e della geopolitica globale. “Ho elaborato questo lungo ragionamento – argomenta Chiesa – per rispondere compiutamente a tutte le domande che mi sono state poste in questi anni, in Italia e all’estero. E mi rivolgo, in particolare, ai giovani perché nei prossimi anni vedremo il verificarsi di quella che non è una vuota profezia, ma un calcolo confortato dai dati”.

Chiesa, qual è il punto di partenza della sua analisi?

La certezza che in un sistema finito di risorse uno sviluppo infinito è impossibile. In questo senso, sono rivelatrici le analisi avviate dal Club di Roma che, fin dagli anni Settanta, aveva sottoposto alla pubblica attenzione il problema dell’esaurimento delle risorse. Nel 2004, si è giunti ad una fase conclusiva del percorso di indagine, con l’elaborazione di nove scenari possibili per l’immediato futuro, tutti catastrofici e derivati dall’intreccio delle varie criticità in esame: energetica, climatica, demografica, finanziaria, dell’acqua. Ognuna è prossima al punto di rottura”

Lei inserisce anche la guerra fra i probabili rischi nel breve periodo…

La carenza di risorse inevitabilmente suggerisce a paesi militarmente attrezzati, come gli Usa, di tentare una soluzione di forza. Dunque, è elevatissimo il pericolo di una guerra globale con quattro principali attori in campo: Stati Uniti, Cina, Europa e Russia, con i primi due nel ruolo di competitori principali. Altri grandi paesi in espansione, come India e Brasile, potrebbero non fare in tempo a sedersi al tavolo dei giocatori”.

Chi potrebbe scongiurare il conflitto?

Europa e Russia sono due giganti che, insieme, potrebbero inaugurare una nuova fase ‘multipolare’ ed evitare lo scontro. Ma, affinché ciò si verifichi, i paesi europei dovrebbero innanzitutto uscire dalla Nato per elaborare una strategia libera da condizionamenti atlantici”

Ma al momento non sembra esistere un forte legame “eurasiatico”….

I russi pare facciano di tutto per farsi temere, esibendo un atteggiamento fortemente antioccidentale. E, a loro volta, i media occidentali si impegnano a dipingere di Mosca un ritratto nefasto con l’obiettivo di scoraggiare il dialogo e creare un avversario. Il risultato di tutto questo è un aumentare rapido delle distanze”.

Perché i media assumerebbero una tale inclinazione?

Noi riteniamo che siano i politici a governare i canali di comunicazione. Invece essi sono legati a doppio filo ai poteri economici e finanziari che lavorano per lo scontro. Dirò di più: i media non solo non subiscono il potere politico, ma lo controllano e lo formano, dettando le tendenze cui conformarsi”.

Nel libro, non solo i giornalisti entrano nel suo mirino, ma anche gli scienziati e, più in generale, gli interpreti del pensiero tecnoscientifico. Perché questo affondo?

Siamo tutti convinti che la tecnologia ci salverà e, invece, è il più grande dei pericoli poiché incoraggia la divisione dei saperi. Uno scienziato conosce alla perfezione il centimetro quadrato di sua stretta competenza ma ignora totalmente il quadro d’insieme. Studia la zolla, non il prato. Invece, ciò che ci serve è recuperare una visione complessiva del Cosmo, delle sue regole e dei suoi equilibri”.

Tornando all’Europa, lei critica fortemente l’attuale Unione ma si schiera contro l’uscita dall’euro. Può chiarire questo punto?

L’euro è il risultato politico di una sconfitta dei paesi europei. Non è la causa dei problemi, ma un effetto che ha ulteriormente alimentato crisi, tensioni e disordini. Quindi, è sul piano politico che bisogna intervenire, rimanendo in Europa e cambiandola. Concordo con lo storico barese Luciano Canfora quando, in un recente saggio (È l’Europa che ce lo chiede! Falso!, Laterza 2012 ndr), auspicava un raccordo fra i paesi del Sud per rinegoziare tutta l’architettura continentale”.

Infine, in quale area politica le riflessioni da lei suggerite trovano oggi ascolto?

Di tutto questo la sinistra ha capito molto poco come dimostra il fatto che le analisi del Club di Roma furono irrise non solo dai poteri finanziari, ma anche dalla sinistra stessa che è ‘crescista’ al pari dei capitalisti. Quanto all’ala radicale, invece, essa si perde in un estremismo che non serve a nulla. Molte delle persone che mi contattano appartengono ad aree politiche diverse…”

…in tanti, infatti, la leggono anche da “destra”, ammesso che questa etichetta abbia ancora un senso..

Ne sono perfettamente consapevole. Lo deduco ogni giorno dalla lettere che mi arrivano. Ma, ormai, supero le classiche distinzioni novecentesche e non chiedo più a nessuno la sua appartenenza. Io stesso non mi definisco né di destra e né di sinistra. Il discrimine è fra chi sa cogliere determinate dinamiche e chi, invece, continua a rifiutarle”

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e barbadillo.it