AMERICAN PSYCHO

crime2Obama non ha fatto in tempo ad asciugarsi le lacrime per il massacro del Connecticut che già una nuova strage occupa le prime pagine dei giornali. Ad Aurora, in Colorado, un uomo si è barricato in casa con tre ostaggi e li ha trucidati, subito prima di essere, a sua volta, ucciso dalla polizia. Il bilancio è, dunque, di quattro vittime: poche rispetto agli standard americani, ma è il luogo della tragedia ad essere particolarmente evocativo. Nella medesima città, il 20 luglio scorso, James Holmes, il Joker dai rossi capelli, apriva il fuoco in una sala cinematografica durante la prima del film Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno, lasciando dietro sé una scia di dodici morti e quasi sessanta feriti.

L’anno nuovo è dunque iniziato come era finito il vecchio, fra le lacrime di una nazione sconvolta epperò straordinariamente attenta nell’evitare di porsi una fastidiosa domanda: le stragi sono solo il frutto di un casuale susseguirsi di isolate follie o, piuttosto, è la stessa società americana ad essere ammalata al punto da produrre mostri e hamburgers quasi con la stessa facilità? La risposta giusta, ma inconfessabile, è la seconda. Qualche dato conforterà l’idea. Un americano su cinque (tra cui 13milioni di bambini) fa uso di psicofarmaci, uno su quattro ha ricevuto una diagnosi di “disturbo mentale” e in 27milioni assumono regolarmente il Prozac per iniziare la giornata. Quasi tutti, prima o poi, si sdraiano sul lettino dell’analista. Nove milioni di americani, spiegano dalla National Suicide Prevention Lifeline, pensano al suicidio. Ci sono cliniche per disintossicarsi da qualunque cosa: sesso, cybersesso, televisione, internet. Ma si lavora anche per debellare la dipendenza da shopping, videogiochi, smartphone e social network. Un sondaggio di Retrevo rivela che il 7% degli intervistati ammette di non riuscire a staccarsi dalla gestione del proprio profilo Facebook nemmeno quando fa sesso.

Sono pochi cenni ma forse utili a rappresentare la catastrofe di un mondo allo sbando, benedetto da una Costituzione che – superba ironia – invoca il “diritto alla felicità” in un sistema nonsense, tecnicista e inumano, di uomini-macchina intruppati come soldatini obesi nel meccanismo del produci-consuma-crepa. Senza uno scopo che non sia quello di un utilitaristico “sogno americano” dell’uomo che si fa da solo mentre la società, da sola, si disfa. Aveva ragione George Bernard Shaw: “Gli Stati Uniti sono il solo paese che è passato dalla barbarie alla decadenza senza aver mai conosciuto la civiltà”.

E noi, che la Civiltà l’abbiamo conosciuta, ci siamo premurati, anni or sono, di eleggere una simil meraviglia a guida del tempo presente, a faro sempiterno d’Occidente. Quasi che nulla fosse esistito prima e nulla debba esistere dopo. Ed oggi i loro problemi sono i nostri, le loro assurdità sono le nostre, la loro alienazione è la nostra. Abbiamo importato un capolavoro di follia, blindato dalla gendarmeria dei falsi profeti che tuonano “Indignatevi!”. Magari su Twitter, mentre sono in coda per acquistare l’iPhone 5 e incrociano le dita per quel dottorato ad Harvard o per quel curriculum spedito nella Silicon Valley.

*Pubblicato su barbadillo.it

DAL TEXAS AI TUAREG: la globalizzazione è in frantumi

globalIl grande racconto della globalizzazione felice, tessuto da mercanti e politologi con instancabile perizia, ha un antipatico nemico che non si rassegna a dileguarsi: la realtà.  Ciò che succede effettivamente è null’altro che l’inevitabile reazione ai deliri di un processo sintetico e plastificato, buono per la virtualità delle piazze finanziarie e pessimo per i popoli. Che, coerentemente, hanno deciso di rifiutarlo.  

“La globalizzazione è un processo irreversibile”. L’affermazione, uno dei tanti mantra in circolo nell’etere del pensiero unico, è stata esternata e sottoscritta nel tempo da un numero incalcolabile di personalità della più varia estrazione: dal “cattivo maestro” (leggi diligente scolaro) Toni Negri all’economista Giovanni Vigo, passando per Romano Prodi, Bill Clinton e Fidel Castro che, nel 1998, ebbe a dire: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. L’unanime coro non rende solo ossequio allo status quo, ma partecipa attivamente alla sua difesa, dipingendo i processi in corso come “stati naturali” al pari delle Alpi o dei Pirenei: un qualcosa che è lì per volontà divina e con cui bisogna necessariamente imparare a fare i conti, piaccia o meno. In questo modo si toglie ossigeno a quella che gli indù (ma non solo) definirebbero l’immaginazione divinizzante, cioè la capacità di dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili. Invece ogni cosa è etichettata come irreversibile: la globalizzazione, il libero mercato, l’Alleanza Atlantica, l’euro. Ma sarà poi vero? I fatti sembrano suggerire il contrario.

Per rendersene conto, però, è necessario incastrare tasselli che, in apparenza, appartengono a mosaici differenti. Il Texas necessitava di rastrellare almeno 25mila firme per sottoporre all’attenzione del presidente Obama la questione della propria indipendenza dagli Stati Uniti: ne ha raccolte oltre 116mila. La Catalogna è diventata universalmente sinonimo di aspirazione alla secessione, la Scozia corre verso uno storico referendum, il Belgio sembra destinato a spaccarsi in due come una mela. Perfino i Tuareg, apprendiamo in queste settimane, si battono per consolidare uno stato sovrano. Se stringiamo le telecamere sull’Italia la situazione non cambia: in Alto Adige, ci informa Maurilio Barozzi su “Limes”, ha ripreso fiato il partito dell’autodeterminazione Sudtiroler Freiheit, mentre in Veneto si lavora per fare della locomotiva produttiva nazionale una repubblica indipendente. E non in qualche scantinato di periferia, ma nel cuore delle istituzioni. In testa all’armata separatista c’è infatti il governatore Luca Zaia che sta esplorando la pista di un referendum consultivo, peraltro graditissimo alla popolazione. Anche l’aumento dei consensi raccolti dall’estrema destra e la riscossa dei sovranismi sono parte del gioco: il pensiero corre alla Serbia che non riconosce il Kosovo, all’Ungheria ove la “marea nera” rivendica la Transilvania, al Giappone impegnato a duellare con la Cina per le isole Senkaku/Diaoyutai. Alla Russia sovrana di Putin, al Venezuela orgoglioso di Chavez, all’Ecuador eretico di Correa, alla Grecia disperata che, se potesse, invaderebbe la Germania domani, in omaggio all’unico effetto positivo di una unione forzata: ricordarci che siamo tutti diversi.

Aggiungendo, a questo ribollir di sangue&terra, il globale disprezzo per i porti franchi della finanza e delle oligarchie non elette, l’astio istintivo verso le espressioni esterofone (tipo spending review), l’adozione di forme sempre più marcate di autoproduzione e autoconsumo (in vent’anni siamo passati dai McDonald’s all’orto sul terrazzo), il quadro può definirsi rivelatore. Se l’identità fosse un titolo in borsa sarebbe il miglior investimento possibile, diversamente dalla globalizzazione cui non resta altro che tentare di immobilizzare i popoli con le catene del debito e dell’usura. Dalla tenuta di tale morsa coercitiva dipende la sopravvivenza di un gigante in frantumi con un grande futuro alle spalle.

* Pubblicato su barbadillo.it