VERSI, UOMINI E DEI/2

coplibroUn amore infranto dal veleno della ragione spalanca le porte alla rabbia e restituisce alla coscienza una missione perduta: riannodare il filo spezzato fra uomo e Natura, lasciando che tramonti l’idea, tutta moderna, dell’orizzonte come terra di conquista per la civiltà della tecnica. È un grido irato da “esule in patria” quello lanciato da Sandro Marano, poeta ed ecologista barese, da anni attivamente impegnano in battaglie a salvaguardia dell’ambiente, nella sua ultima raccolta di poesie Vaghe lettere di amore e rabbia (Aletti ed.). Una cascata di versi contro il proprio tempo – divisa in due sezioni distinte (“Per fare più verde” e “Camminando”) ed epilogata dal canto conclusivo “Danza di febbraio”- in cui l’autore abilmente si appropria dello stilema che fu di Ezra Pound: raccontare la modernità feroce della speculazione, dell’industrialismo, della finanza, delle banche, ma anche dell’onnipotenza scientifica e tecnocratica, attraverso la delicatezza elegante del verso.

Dondolando “sul mare come sparsi fogli”, le liriche di Marano spazzano via i fumi mortiferi di Fukushima, rievocano la tragedia meridionale di Pontelandolfo, si interrogano “sulla vuota retorica che celebrò stragi fraterne” e puntano il dito intonando la più tragica delle accuse: “E voi siete felici?”. L’interrogativo è rivolto a tutti coloro che hanno gettato legna nelle caldaie della modernità. I signori della borsa, i mercanti, i politici di destra e di sinistra “mai sazi di grandi opere inutili”, gli animatori inesausti del mito-dogma della crescita, ma anche gli “scienziati alacri/ chiusi nei loro simulacri/ servi della pubblicità”. Tutti coloro, insomma, che non ricordano più una verità ormai inconfessabile: non era nostro destino fare “del mondo un grande supermercato” né lasciare che “l’età della plastica” soppiantasse l’età dell’oro.

Eppure questo è esattamente ciò che è avvenuto. Le rotte della storia sono state smarrite, “della Terra nessun più si cura”, ogni passo nel mondo alimenta i fuochi di un incontrollato delirio prometeico. E il rifugio del poeta in rivolta non è, e non può essere, solo una sera di maggio ove “non oscura le stelle/l’ingorgo d’auto”, ma un luogo così lontano da riuscire a sfiorare l’anima. Perché non ci sono vie di fuga per un uomo nietzschianamente sospeso fra Dio e il nulla, ma solo un ritorno verso se stesso “sulle vette lontane, laddove siedono in esilio gli dei”.

S. MARANO, Vaghe lettere di amore e rabbia, Aletti, pp.58, euro 12.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

VERSI, UOMINI E DEI

Czizzi2‘è un luogo dell’anima ove la poesia evade dalla prigione delle parole per appropriarsi di una dimensione orfica e senza tempo. Universale e identitaria insieme. Dove esso si trovi lo spiegò Carmelo Bene indicando le pietre A Sud del Sud dei Santi (LietoColle, pp.481, euro 21), non casuale titolo del corposo volume, curato da Michelangelo Zizzi e presentato a Polignano (Bari), in occasione del fortunato Festival “Il Libro Possibile”, che raccoglie cento anni di produzione poetica pugliese.

Un testo, “immaginato rallentando”, che vede sfilare, suddivisi per aree subregionali, gli autori del Salento, dell’Arco Ionico, della Capitanata e della Terra di Bari. Si alternano così, verso dopo verso, le suggestioni di Vittorio Bodini e Claudia Ruggeri, Antonio Verri e Vittorino Curci, Girolamo Comi e Michele Pierri. Sono questi solo alcuni dei tanti autori richiamati, maggiori o minori, obliati dalla storia o travisati dalla critica, ma tutti gemme preziose di un unico tesoro sommerso, sepolto dall’incuria di chi dovrebbe custodirne la bellezza.

D’altronde, come chiarisce Zizzi in premessa, questa è poesia che non dialoga, non informa, non dice niente a nessuno, almeno nel senso della comunicazione orizzontale, ma si qualifica, in virtù della sua propria natura, come serrato monologo interiore. Al pari dell’amore, della morte e del rapporto col sacro. E proprio in questo suo richiamarsi continuamente al mito, agli archetipi tradizionali che ribaltano l’idea posticcia di una terra vacanziera e mercantile, la scorribanda “metacritica” e non ideologica del saggio diviene un manifesto contro la civiltà senz’anima della materia, della fretta e delle macchine. “Il moderno – scrive Zizzi – è un luogo senza lentezza, senza meraviglia e senza silenzio. Anche per questo la poesia è inevitabilmente antimoderna. Rallentare significa ritornare; significa ritrovare, riconoscere. C’è una anamnesi, una lunga anamnesi alla base di ogni profondità poetica”.

Il viaggio, a questo punto, si snoda lungo l’immaginaria Linea Borbonica individuata da Flavio Santi, un corso d’acqua irrorato da molti affluenti: la mai risolta questione meridionale, l’omogeneità linguistica, la particolare condizione geofisica e, non ultimo, il mythos, “ciò che resta della leggenda” in una terra, puntellata da dolmen e menhir, che vide il proprio suolo calpestato da Pitagora, Archita e Virgilio. Non un arcaico vento di nostalgia, si badi, ma una reminiscenza platonica, un richiamo pulsante a ciò che eravamo e, da qualche parte, siamo ancora. Nonostante tutto.

M. ZIZZI (a cura di), A Sud del Sud dei Santi, LietoColle, pp. 481, euro 21.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

Ho tifato Giappone

balotelli-e-prandelliPer trentotto minuti è esistita una squadra sola. Il racconto di Italia-Giappone, confronto valido per il gruppo A della Confederations Cup, non può che iniziare da qui: da undici samurai scesi in campo contro altrettanti spaventapasseri bardati d’azzurro, travolti dallo tsunami nipponico. Agilità, mobilità, palleggio nello stretto, geometrie e inserimenti perfetti. Il Giappone di Zaccheroni-San ha passeggiato sul cadavere italiota capitalizzando al meglio la propria superiorità con due gol in mezz’ora (Honda e Kagawa) ed una infinità di occasioni create. Spettacolo puro.

Anche allo sguardo di uno spettatore neutrale, come le migliaia di brasiliani assiepati sugli spalti della Arena Pernambuco, un simile vorticare di maglie bianche non avrebbe potuto che produrre la scomunica dell’indifferenza. E infatti la torcida verdeoro, partita con gli occhi lucidi per Pirlo e Balotelli, inizia ad applaudire i giapponesi, a scandire gli scambi rapidi con gli “olè”, ad entusiasmarsi per ogni combinazione andata a segno. Quanto agli azzurri, piovono fischi da ogni parte perché in Brasile, dove nonostante la crescita economica è rimasto del sale in zucca a qualcuno, gli insulti arrivano se giochi male, non se perdi. E l’Italia è un pianto: la difesa imbarca acqua da tutte le parti, il centrocampo non disegna, Pirlo è l’ombra di se stesso, Buffon un pensionato (Beckenbauer dixit), Aquilani va fuori al 29′.

Come spesso accade, la fortuna aiuta gli ignavi e così, dopo quaranta minuti di oscena apatia e penosa immobilità, l’Italia accorcia le distanze con De Rossi. La katana, a questo punto, si spezza. I giapponesi si accorgono che la giustizia pallonara non è di questo mondo e si piegano sulle ginocchia. In sette minuti, all’inizio della ripresa, incassano altri due gol (complice un’autorete) e la frittata sembra fatta: 3-2 per l’Italia. Una rimonta gloriosa per il tifoso azzurro accecato dalla partigianeria, un’ingiustizia di proporzioni ciclopiche per qualunque essere umano dotato di raziocinio. I brasiliani, infatti, lungi dall’infervorarsi per l’inaspettata remuntada, tacciono, mortificati per il Giappone sull’orlo del collasso psicologico e infastiditi dalla sfacciata fortuna dell’Italia. Che, da par suo, decide bene, dopo 13 minuti di calcio appena decente, di fermarsi e ritornare a dormire, prostrata dallo sforzo eccessivo (sic).

Il Giappone, invece, ricomincia a correre e si ribella al destino già scritto. Con le residue forze ricuce il gioco, recupera e riparte, punta l’area avversaria e riprende a martellare. I brasiliani si scaldano ed anche chi vi scrive si unisce al coro, iniziando senza remore a tifare forsennatamente per i nipponici. Su punizione di Endo, Okazaki salta più in alto del metrosexual Montolivo e buca il pensionato “montiano”. 3-3. Meritato premio, per questa squadra “scandalosamente” monoetnica a cui però Zaccheroni decide di aggiungere un improvviso tocco Europe: al 34′ del secondo tempo esce Maeda ed entra il centravanti Mike Havenaar, padre olandese e madre nipponica. Così commenta, sarcastico, il telecronista Rai Stefano Bizzotto:“Havenaar di giapponese ha molto poco”. Balotelli, di italiano, non ha invece assolutamente nulla, ma questo non si può dire: è fascismo, razzismo, intolleranza da trogloditi. Ce lo spiega bene l’altro commentatore, Beppe Dossena, che tira in ballo il Nostro ogni secondo. Lo incensa anche se respira. “Bene Mario”, “Ma che bravo Mario”, “Vediamo dove si è messo Mario” (su calcio d’angolo avversario!).

In questa brodaglia nauseabonda di buonismo, considerazioni sinistrate e sostegno per contratto ad una nazionale di viziati incapaci, non si riesce a trovare una buona ragione per non sostenere il Giappone. E la sorte fornisce subito un ulteriore motivo per moltiplicare lo scoramento: a quattro minuti dalla fine Marchisio regala l’assist vittoria all’altro metrosexual, il nano Giovinco, che sigla il sorpasso definitivo. 4-3 per l’Italia e buonanotte.

I giapponesi non ci credono. Alzano gli occhi al cielo, bestemmiano, imprecano. Gli italiani invece si sfregano le mani e gongolano. “Siamo una squadra che sa soffrire” constata, raggiante, il ct Prandelli, quello del codice etico che tante vittime ad hoc ha mietuto, ad iniziare da Cassano per le sue frasi sui gay. Inevitabile, d’altronde. La squadra azzurra è una specie di superspot ambulante della società multietnica, tollerante, aperta al futuro. “Scrivete pure quello che volete ma alla Confederations Cup tifate un’altra nazione. Ve lo dico con il cuore”, ha recentemente scritto Balotelli in un tweet, rispondendo alle critiche dei tifosi. Consiglio pertinente. Ieri sera, ne avevamo trovata una niente male.

*Pubblicato su barbadillo.it