LA GUERRA DELLO YOM KIPPUR. UN BOOMERANG CONTRO GLI ARABI

di Gaetano Sebastiani

Esistono ricorrenze la cui valenza religiosa si intreccia con quella politica. A volte, tali ricorrenze sono foriere di così tanti eventi significativi, forse non sempre rilevati con la giusta attenzione, che le conseguenze sono tangibili ancora oggi. Parliamo dello Yom Kippur, la più importante festività ebraica, giorno della penitenza, che quest’anno – secondo il calendario gregoriano – cade il 23 settembre. Durante questa ricorrenza si suole dire che Israele si ferma: non è consentito mangiare, bere, ci si astiene dai rapporti sessuali, si recitano preghiere al fine di assolvere le proprie colpe dinanzi a Dio.
Ma 42 anni fa, Israele non rimase immobile. Fu, piuttosto, tra gli attori principali di uno degli eventi storici più importanti del conflitto mediorientale: la guerra, appunto, dello Yom Kippur o guerra di ottobre, secondo la storiografia araba. Dopo il conflitto del 1967, sfavorevole agli arabi, la situazione nel Medioriente si era fatta ancor più incandescente per via di alcuni cambiamenti in seno ai principali Stati dell’area. La morte improvvisa di Nasser nel 1970 spianò la strada per l’avvento al potere in Egitto di Sadat, uno degli ufficiali protagonisti del golpe del 1952. In Iraq ed in Siria, ci fu la vittoria del partito Baath rispettivamente con Saddam Hussein ed Al-Assad; mentre in Libia, l’ascesa di Gheddafi restituiva un quadro mediorientale fortemente anti-israeliano.
La volontà araba di rivalsa fu incarnata dall’egiziano Sadat (con l’incerto appoggio sovietico) che, pressato da un’opinione pubblica interna insofferente all’umiliazione militare subita nel conflitto precedente e da una situazione economica molto precaria, decise di attaccare Israele sulla sponda orientale del Sinai, proprio durante la festa dello Yom Kippur, mentre l’alleato siriano lanciava l’offensiva verso le Alture del Golan. L’attacco provocò la morte di circa 2500 soldati israeliani, ma il colpo inferto non fu sufficientemente potente da mettere in seria difficoltà le truppe con la stella di David che, in pochi giorni, sotto la guida di Ariel Sharon, si riorganizzarono, bloccarono l’avanzata nemica e penetrarono in territorio egiziano, a occidente del canale di Suez, a cui seguì una incursione in territorio siriano.
La guerra aveva raggiunto il suo apice: se da un lato, gli egiziani potevano ritenersi soddisfatti per aver infranto il mito dell’imbattibilità dello storico avversario, dall’altra rischiavano di subire un’avanzata nemica poco congeniale ai propri progetti di riscossa. Intanto, in campo internazionale, Stati Uniti ed URSS si affrettavano a fornire il proprio supporto rispettivamente ad Israele ed all’Egitto. E’ opinione diffusa quella secondo cui gli ebrei, in questo conflitto, sarebbero stati colti di sorpresa. Ma come per altri importanti eventi del passato, uno fra i tanti l’ingresso degli USA nella seconda guerra mondiale a seguito dell’attacco nipponico di Pearl Harbor, anche in questa circostanza il comportamento dei leader politici risulta ambiguo ed improntato a ragioni di convenienza.
La caratteristica fondamentale della strategia militare israeliana era (e forse lo è ancora) basata sul principio dell’attacco preventivo, potendo contare sull’estrema affidabilità dei propri servizi di intelligence, i quali potevano stabilire la certezza di un attacco nemico non più tardi di 48 ore prima dell’offensiva stessa. Solo 6 ore prima dell’inizio del conflitto, il premier Golda Meir, il ministro della Difesa Moshe Dayan ed il generale David Elazar si riunirono per decidere il da farsi. L’iniziale distanza tra le diverse posizioni fu risolta a favore di una decisione netta, caldeggiata soprattutto dal primo ministro: non ci sarebbe stato alcun attacco preventivo, in quanto era prioritario garantirsi il pieno appoggio degli Stati Uniti, i quali, nel caso di una prima mossa israeliana, avrebbero avuto maggiori difficoltà nell’approvigionamento dell’alleato. Il sacrificio dei soldati caduti allo scoppio della guerra fu, dunque, il viatico per un deciso aiuto militare statunitense e sancì una volta di più l’amicizia tra i due Paesi, propagando i suoi effetti non solo fino ai nostri giorni, ma anche sugli esiti della guerra di cui ci stiamo occupando.
Il 22 ottobre 1973, con l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le ostilità furono congelate e l’iniziativa diplomatica si sostituì alle armi. In questa circostanza di stallo emerse chiaramente l’abilità di Henry Kissinger nel prendere in mano le redini della situazione e condurre la crisi verso una soluzione pacifica ed al contempo favorevole agli interessi statunitensi nell’area. Il lavorio del segretario di Stato fu per certi versi facilitato dall’atteggiamento sovietico che, se da un lato non voleva mostrarsi troppo morbido in un simile quadro di tensione, dall’altra si dimostrò riluttante a sostenere sino in fondo le ambizioni revansciste dell’Egitto. Questa ambiguità allontanò Sadat dai russi, indebolendone il potere di contrattazione sul piano internazionale e di conseguenza spianò la strada per il rafforzamento dell’influenza diplomatica statunitense sulla risoluzione della crisi. Kissinger, inoltre, poteva contare su ulteriori elementi a proprio vantaggio: la possibilità di negoziare sia con l’Egitto che con Israele – con cui i sovietici avevano interrotto le relazioni dal 1967 – e la quasi totale immunità degli USA dal blocco petrolifero degli arabi.
In un tale contesto, il segretario di Stato ebbe gioco facile a condurre Sadat nella sfera d’interesse americana. Ben presto, infatti, il leader egiziano allontanò i consiglieri militari sovietici dal paese e la definitiva uscita di scena della superpotenza russa gettò definitivamente Sadat tra le braccia degli Stati Uniti, determinando un cambio di rotta persino con Israele, verso il quale fu aperto un canale di comunicazione foriero di ulteriori sviluppi. Nel novembre del 1977, infatti, Sadat tenne uno storico discorso alla Knesset dinanzi al premier ebraico Begin, tutto incentrato sulla questione palestinese, il cui andamento era legato a doppio filo con gli esiti delle guerre mediorientali. Il presidente egiziano sollecitava Israele ad abbandonare tutti i territori occupati ed a riconoscere ai palestinesi il diritto di autodeterminazione, inclusa la possibilità di istituire un proprio Stato.
Era il principio di una definitiva, quanto clamorosa svolta tra gli ex belligeranti. Ma erano, soprattutto, le ultime parole di sostegno di quello che da sempre era considerato dai palestinesi il paese guida nella propria lotta di liberazione. Con gli accordi di Camp David del 1978, infatti, Egitto ed Israele raggiunsero un’intesa finalizzata a dirimere i nodi più spinosi del conflitto del ’73, come ad esempio il ritorno della Penisola del Sinai sotto il controllo del Cairo, ma il problema palestinese fu solo sfiorato e nessuna decisione sostanziale fu presa circa le occupazioni di Gaza e Cisgiordania.
La tensione tra i paesi arabi e l’Egitto provocata dagli accordi tra questo e lo storico nemico israeliano degenerò ben presto in una dolorosa rottura. La pace del 1979 sanciva contemporaneamente la fine delle ostilità e l’inizio dello sfaldamento del mondo arabo che fino ad allora aveva mostrato un certo spirito unitario sia nella battaglia contro Israele, sia nel sostegno alla causa palestinese. L’Egitto fu considerato alla stregua di un traditore ed espulso dalla Lega Araba: i rapporti diplomatici ed economici furono ridotti o addirittura azzerati ed alcune fazioni radicali palestinesi condussero attacchi terroristici in territorio egiziano.
Partito come conflitto finalizzato a ridare dignità al valore militare dei paesi arabi ed in particolare dell’Egitto, la guerra dello Yom Kippur si trasformò in un boomerang che favorì Israele ed i suoi progetti di espansione e rafforzamento dei propri confini. Il tiepido supporto fornito dall’URSS ed il suo progressivo sfilarsi dalla scena nella fase post-bellica della crisi consentì agli Stati Uniti, nella figura di Kissinger, di piazzare la propria bandiera nel cuore dell’area mediorientale e rinsaldare i propri legami di amicizia e supporto all’alleato ebraico. Gli accordi di pace, avvicinando l’Egitto a Washington e Gerusalemme, privarono i palestinesi del paese più forte ed attrezzato per la propria causa, riducendo la portata della lotta di liberazione ed indebolirono l’unità dei paesi arabi.
Di lì a qualche anno, precisamente nel 1987, un’altra ondata di tensione avrebbe sconvolto l’area. Questa volta non guidata da spirito revanscista, nè dall’organizzazione militare, ma da pura disperazione: scoppiava la prima Intifada, la rivolta delle pietre contro le armi automatiche.

*In foto: Militari israeliani su autoblindo, 1973 (GABRIEL DUVAL/AFP/Getty Images)

VERITÀ E RETORICA NELLA PACE DI LOSANNA

di Marcello D’Addabbo

Si è da poco concluso il vertice di Losanna tra i paesi del “5+1” (Consiglio di Sicurezza Onu + Germania) e l’Iran. Diciotto mesi di trattative e otto giorni di faticose mediazioni per trovare un’intesa sul nucleare iraniano. Ancora nulla di scritto, il testo che segnerà la ritrovata “pax nucleare” sarà messo nero su bianco per il 30 giugno, data entro la quale dovranno essere definiti i dettagli del trattato. Per il momento l’unica bozza dell’accordo consiste in un elenco di impegni, reso noto dal Dipartimento di Stato americano, che la Repubblica Islamica dovrebbe eseguire a puntino per vedersi di nuovo accolta nel mondo civile dalle grandi potenze occidentali: riduzione dei due terzi delle centrifughe finalizzate alla preparazione dell’uranio, dalle attuali diciannovemila a seimila circa, impegno a non costruire nuovi stabilimenti adibiti all’arricchimento dell’uranio, conversione dello stabilimento sotterraneo di Fordow (diverrà una sorta di innocuo CNR persiano simile a quello italiano del Gran Sasso), mantenimento della sola centrale di arricchimento a Natanz, sottoposta però alle verifiche degli occhiuti ispettori dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica). Il reattore ad acqua pesante di Arak sarà modificato e il plutonio prodotto trasferito all’estero: “Le potenze mondiali aiuteranno l’Iran a costruire un nuovo reattore ad Arak”, hanno dichiarato i negoziatori. Lo scopo di tali adempimenti è l’allungamento del breakout time, nel gergo degli esperti il tempo necessario per produrre abbastanza uranio arricchito per una bomba atomica. Le nazioni del sestetto vogliono limitare il programma di arricchimento dell’uranio dell’Iran in modo che il breakout time sia di almeno un anno, ritenendo sufficiente questo lasso di tempo per conoscere le intenzioni di Teheran e distruggere prontamente ogni infrastruttura. La durata dell’accordo dovrebbe essere di dieci anni ma con possibile proroga fino ai venticinque. In definitiva l’Iran ridurrebbe del 66% il proprio programma nucleare.
Ma in cambio di cosa? Questo punto nei giorni successivi al vertice di Losanna è diventato materia da sofisti e la divaricazione tra le varie tesi e interpretazioni in campo ha raggiunto una comicità che non ha precedenti in una negoziazione tra i governi di grandi potenze. La mediatrice eurocratica Federica Mogherini ha tuonato trionfale «prevista revoca di tutte le sanzioni!». Il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif è stato accolto al suo rientro per le strade di Teheran dai festanti “studenti verdi”, da sempre smaniosi di liberarsi dall’isolamento commerciale in cui li ha costretti la teocrazia sciita per essere liberi di fare anche loro shopping in centro tra vetrine di Tiffany e caffè di Starbucks, convinti di dirigersi ormai a vele spiegate verso il sogno liberal-capitalista. Ma il sogno è durato poco. A steccare il coro di urletti delle aspiranti gossip girls di Teheran ci hanno pensato Obama e Kerry, che hanno precisato come le sanzioni non saranno rimosse ma progressivamente sospese in relazione all’avanzamento dei lavori previsti nell’accordo, che potranno essere realizzati nell’arco di dieci anni. Gli adempimenti sono enormi, richiedono anni e l’impianto delle sanzioni è pesantissimo: l’Istituto di Studi Pubblici Internazionali (ISPI) ci ricorda come nell’arco di oltre trent’anni, cioè a partire dal famoso sequestro dei diplomatici americani a Teheran nel novembre del ’79, si siano stratificate sanzioni progressive contro l’Iran da parte di Stati Uniti, Onu e Ue. É un romanzo a puntate che comincia con le iniziali restrizioni americane finalizzate esclusivamente all’isolamento politico e al blocco degli armamenti (anni ’80) e si arriva al più recente soffocamento economico operato in gran parte dei settori del commercio e delle transazioni finanziarie attraverso ben quattro risoluzioni dell’Onu (2006-2010) legate strettamente alla questione nucleare. Un reset improvviso erga omnes sarebbe impraticabile. Le magliettine di Abercrombie dovranno attendere.
Ma chi sta forzando la narrazione mediatica sull’intesa di Losanna e da giorni dichiara solo ciò che gli fa comodo per un proprio tornaconto politico? La gara dei Pinocchio è all’ultimo sangue ed è ben motivata: la Mogherini, millantando con enfasi retorica presunti quanto inesistenti risultati del vertice, cerca di scrollarsi di dosso l’immagine di pettinatrice di bambole che ormai la accompagna in ogni consesso internazionale; Zarif deve portare a casa un risultato che lo affranchi dalle accuse di sudditanza nei confronti dell’occidente mosse in patria dai conservatori; Obama deve sventolare dinanzi al Congresso, ormai tana dei neocon, lo scalpo dell’atomica iraniana, soprattutto dopo il teatrale delirio di isteria antiraniana sapientemente comiziato da Netanyahu proprio in quel consesso, tra ovazioni e tifo da curva interista.
Ma al di là di questo gioco pirandelliano delle parti, la trattativa sul nucleare iraniano è la pedina di un altro gioco in cui si muovono palesi interessi geopolitici. L’inserimento della Germania nel sestetto di Losanna, unica nazione priva della qualifica di membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, non è casuale. L’eventuale riapertura dell’Iran ai mercati europei rappresenta uno sbocco commerciale troppo allettante. Si punta su una nazione di 80 milioni di individui dei quali il 65% ha meno di trent’anni, il 22% meno di quindici, che mantiene un tasso di crescita demografica dell’1% annuo ed è una tra le popolazioni più scolarizzate del medio oriente. Un bacino di giovani consumatori e al contempo un’immensa riserva di gas e petrolio da indirizzare verso l’Europa, in grado di concorrere sul mercato dei combustibili dei paesi arabi che fanno cartello all’interno dell’Opec. Pertanto l’Europa a guida tedesca non ha meno interessi dell’Iran a cancellare le sanzioni nel più breve tempo possibile.
Dall’altra parte si consuma la lotta tra l’amministrazione Obama con il suo disegno strategico anti-asiatico contro il temibile asse tra neocon repubblicani e Netanyahu. Tel Aviv sa perfettamente che ancor più delle testate atomiche potrebbe nuocergli l’emersione di una futura “Germania del medio oriente”, in posizione dominante e sostitutiva rispetto all’ammuffito regno saudita, che al contrario dell’Iran è inginocchiato alla politica israeliana. La voce della Repubblica Islamica è già troppo influente nell’area (Iraq, Yemen, Siria, Libano ecc…) perché lo stato sionista tolleri un suo netto sdoganamento diplomatico. Obama la pensa diversamente, vorrebbe prendere in contropiede il grande nemico asiatico russo-cinese aprendo a Teheran, (come cerca di fare anche con l’Avana) per strappargli pezzi consistenti dalla sua sfera di influenza. Si chiuderebbe un fronte per aprirne di nuovi, ovviamente, che siano più vicini al confine del nemico. Finora la trattativa sul nucleare iraniano ha registrato la maggiore divaricazione tra amministrazione democratica americana e governo israeliano, aprendo una falla interna problematica anche a Washington ed evidenziando crepe persino all’interno dello stesso partito democratico. Il Segretario di Stato americano John Kerry ha, pertanto, dovuto presentare ai media l’intesa accentuando al massimo l’aspetto dell’inibitoria sulle armi nucleari che essa comporta, quasi omettendo o minimizzando al massimo le pur minime concessioni offerte alla controparte con l’eventuale sospensione delle sanzioni. Bisognava lanciare un osso consistente al cane rabbioso della lobby neocon che sembra aver preso preventivamente possesso della Casa Bianca, certa di futuri trionfi alle presidenziali del 2016 dove già immagina di schierare l’ennesimo cercopiteco della famiglia Bush. Inoltre, Obama si preoccupa di far digerire al Congresso un’intesa dalla quale risulti essere il vincitore assoluto dei negoziati sull’odiato persiano per evitare che l’accordo definitivo venga bocciato dalla maggioranza repubblicana filoisraeliana.
Lontano da questa guerra di fazioni (ma soltanto da questa) la Russia si è impegnata al raggiungimento dell’intesa per conservare il profilo di garante del diritto internazionale già acquisito in occasione dell’accordo sullo stoccaggio delle armi chimiche siriane di Assad, mossa geniale che aveva scongiurato l’intervento occidentale in quel paese. I cinesi osservano silenziosi. Un Iran emergente nell’area risulterebbe vantaggioso per loro se mantenuto nei ranghi della Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (SCO). Ciascuno dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti sta giocando una partita complessa e pericolosa che influirà sul futuro di tutto il Medio Oriente, del caos settario che lo avvolge attualmente o di un nuovo ordine a venire. Se l’accordo abbozzato a Losanna andrà in porto ci saranno in futuro inevitabili cambiamenti anche nella società iraniana. Non è detto che si tratti di un progresso dato che, grazie all’agognata normalizzazione dei rapporti tra Iran e Occidente, in cambio dell’atomica quei poveri iraniani si troveranno improvvisamente in mano l’iPhone, con buona pace della borghesia festante di Teheran.

LA VOLONTÀ DI (IM)POTENZA

di Gaetano Sebastiani

La vittoria di Netanyahu alle recenti elezioni politiche in Israele certifica che il supposto carattere di specialità degli ebrei non ha molto fondamento se slogan come “con me al potere, mai due Stati” determina pesantemente l’esito delle urne. Sotto questo aspetto, vediamo quanto sottile sia la differerenza tra il “popolo eletto” e certo elettorato del Vecchio Continente, labile come foglia al vento, in balìa di promesse ed elargizioni che alcun peso specifico hanno nella realtà delle cose.
Il livello di condizionamento manifestato in questa tornata elettorale è uno dei più importanti segnali di debolezza di un intero corpo sociale, che ha scelto più o meno scientemente di condannarsi alla reiterazione di modelli di affermazione del potere vetusti ed alla lunga controproducenti, quasi autolesionistici.
Dovrebbe essere chiaro ai più che mostrare i muscoli, emettere spavalde sentenze e produrre discorsi roboanti autoinvitandosi in consessi acriticamente plaudenti ed ammiccanti più che una manifestazione di potenza è il singulto finale di un organismo allo stremo delle forze. E Netanyahu, attraverso una campagna elettorale tutta incentrata sui temi della sicurezza, della paura verso l’altro da sé (come un demone la cui presenza viene evocata ora in Palestina, ora in Iran, a seconda delle esigenze di propaganda), rivela una tara interiore estensibile a buona parte della collettività ebraica, soprattutto quella che vive, abita, colonizza dove non dovrebbe.
La sindrome dell’accerchiamento è tratto tipico di tutta una politica israeliana che ha avuto la sua palese cratofania con Ariel Sharon – con il suo malcelato progetto “Eretz Israel” – e prosegue imperterrita oggi, con le nuove colonie (invise persino agli americani), con la silente conquista di Gerusalemme e con l’auspicato e sbandierato ritorno degli ebrei dall’Europa, sapientemente aizzati dal senso di insicurezza degli ultimi attentati.
E non ci si illuda che le recenti dichiarazioni di Obama possano mettere un freno a questa strategia. Il dissenso espresso dall'”anatra zoppa” non fermerà una politica che è ben radicata nello spirito israeliano. Nonostante la ruggine attuale (creatasi, in verità, solo tra una parte del potere americano e “Bibi”), il rapporto tra il deep state USA ed Israele è più saldo che mai, soprattutto alla luce di una futura vittoria repubblicana alla Casa Bianca, i cui prodromi si sono manifestati con i risultati delle ultime elezioni midterm.
Il braciere che alimenta il fuoco della politica israeliana trova una delle sue sedi principali in questa intesa meccanica. Ma sono fiamme sempre più basse, che perdono vigore di fronte al fumo della retorica e del machismo fine a sé stesso.
Eppure un esempio di forza differente, questa sì virile, perché silenziosa e mai vittimistica, gli ebrei ce l’hanno a pochi passi. La troverebbero proprio lì, nella Striscia di Gaza, tra la gente che subisce angherie quotidiane nell’indifferenza della cosiddetta “comunità” internazionale, nella sproporzione dei mezzi di lotta tra Tsahal ed i detenuti di quella che a ragione si può definire prigione a cielo aperto, nella povertà materiale e spirituale aggravata da politiche folli e predatorie. Ecco, in questa silente e discreta resistenza scorgiamo la vera potenza di un popolo.
Chi è costretto a ostentare per affermarsi ha già mostrato tutta la propria debolezza.