LA STAMPELLA A 5 STELLE DEL GOVERNO

di Gaetano Sebastiani

Il passo “di lato” di Beppe Grillo nella gestione del Movimento coincide con una fase molto particolare della vita politica italiana. La scena, in questa giorni, è dominata dalla discussione sul ddl Cirinnà, quello che consentirebbe l’introduzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, con tutti i suoi annessi e connessi dal sapore anglosassone (vedi “stepchild adoption”) che fa sempre molto chic e funge da edulcorante esterofilo per indorare la pillola su concetti altrimenti più difficili da ingurgitare.
Qui non intendiamo addentrarci sulle questioni ideologiche che animano questo dibattito, ma vorremmo piuttosto far emergere le ambiguità di una forza politica, il Movimento 5 Stelle appunto, che rispetto al tema delle unioni civili sta mostrando un approccio contraddittorio e controproducente. Perché il convinto endorsement dei pentastellati al ddl determina, a nostro avviso, errori di metodo e di merito non trascurabili.
Quanto al primo punto, è noto ai più che tutte quelle iniziative non esplicitamente previste dal programma devono essere sottoposte al vaglio della rete. Il voto degli iscritti è la bussola con la quale i rappresentanti grillini dovrebbero muoversi nei meandri della vita parlamentare. É l’applicazione dei tanto reiterati principi dell'”uno vale uno” e della “democrazia dal basso”. Ebbene, nel caso delle unioni civili un’azione in questo senso c’è stata, ma il web non ha avuto modo di esprimersi in maniera corretta. Il 28 ottobre 2014, infatti, si svolse una consultazione on-line che riguardava le unioni civili in maniera esclusiva, senza cioè considerare le adozioni, l’omogenitorialità, insomma tutti quei temi più spinosi che l’attuale ddl ha messo sul fuoco. Sebbene l’esito di quella votazione fu un plebiscito per il “sì”, sorsero polemiche per le modifiche in corso di consultazione del testo del quesito, generando confusione tra i votanti circa il reale valore della loro preferenza: solo unione civile o schierarsi anche per l’adozione?
A distanza di più di un anno e con l’irruzione nel dibattito nazionale di una proposta di legge che abbraccia aspetti più dirimenti e delicati si sarebbe dovuto ripetere il voto, nel rispetto delle regole senza lanciarsi in entusiastiche adesioni (il ddl va votato “così com’è”, secondo Di Maio). In questa circostanza, non si può neanche addurre la giustificazione dei tempi tecnici dei lavori parlamentari, come giustamente in altre occasioni è stato fatto (la rete per quanto rapida non può sempre essere al passo con le necessità istituzionali), perché il dibattito sulle unioni civili nel nostro Paese si protrae da molto, seppure ad intensità variabile, e ci sarebbe stato tutto il tempo per consultare la base e produrre una posizione ufficiale più in linea con i principi del Movimento.
E poi c’è la questione di merito o di opportunità politica. Il Movimento ha ottenuto grandi consensi a livello nazionale al grido di “tutti a casa”. Apparentemente, uno degli obbiettivi principali di questa forza politica è provocare una frattura con l’attuale classe dirigente o con un metodo stantìo di fare politica. Approfittare delle debolezze altrui, anche se machiavellico, può essere una buona strategia per ottenere il tanto agognato (ed utopico) 51%.
Dunque, in un periodo in cui Renzi ed il suo governo sono costretti a fronteggiare scandali bancari con riemersione di faccendieri massoni piduisti, ad inseguire alleanze parlamentari con personaggi (anch’essi piduisti!) invisi a buona parte del partito ed alla base, a giochi di puro equilibrismo statistico per giustificare una ripresa economica appena rivista al ribasso dai tecnocrati internazionali, ad alimentare beghe con i vertici dell’eurocrazia per puri scopi propagandistici interni, a coprire gli ennesimi coinvogimenti delle amministrazioni locali a guida PD con mafia, camorra et similia… A fronte di tutto questo (ed altro), non sarebbe il caso di dare un ulteriore colpo, votando contro il ddl Cirinnà insieme alle altre opposizioni e “mandare sotto” un governo che agli occhi dell’opinione pubblica – condizionata dalla propaganda di regime – sembra una macchina inarrestabile?
Se i grillini pensano che appoggiare questa legge possa dar loro l’immagine di fautori di questo “grande passo verso la civilità” (sic!), cioè verso l’omologazione globalista e genderista ed estendere il consenso fuori dai confini abituali, si illudono grandemente. Perché, in caso di approvazione, la grancassa mediatica spalmata sul renzismo più bieco farà del leader fiorentino l’uomo della svolta storica, il primo politico ad aver abbattuto il muro dell’ignoranza e dell’arretratezza culturale italiana ed a scagliarci verso lidi di progresso morale e civili mai sfiorati prima! Insomma, lo dipingeranno come un vero e proprio eroe. Ed il ruolo dei pentastellati in tutto questo sarà marginalizzato, banalizzato o peggio dimenticato, perchè il merito principale è sempre del partito promotore e quindi del suo leader che mediaticamente ha sponsorizzato la causa.
Svolgere il ruolo di stampella del governo in un contesto di oggettive difficoltà poc’anzi descritto e per una legge che soddisfa una fetta di popolazione rumorosa (ma non maggioritaria, fino a prova contraria) sembra francamente un autogol clamoroso per una forza che ha come stella polare il motto “mandare tutti a casa”. A meno che per il Movimento inseguire i diktat europoidi che ci rimproverano ritardi sui “diritti civili” sia diventato più importante che abbattere un esecutivo incapace di risolvere i problemi più urgenti di questo Paese. In tal caso bisognerà prenderne atto e considerare i propositi antisistema a 5 Stelle mera propaganda, un po’ come si fa con le forze politiche che loro stessi vorrebbero combattere.

CRISI GRECA. GLI ATTORI, LA SCENA E LE QUINTE

di Marcello D’Addabbo

I greci sono in mezzo al guado ormai e siamo tutti coinvolti in questo vortice di passioni, paure e dibattiti che hanno scandito la settimana più carica di tensione politica degli ultimi decenni. Domenica ultima stazione. I greci dovranno decidere tra libertà e paura? Tra essere una colonia che sopravvive tutto sommato o sprofondare in una dignitosissima miseria sovrana? La partita si gioca davvero tra un governo che sta difendendo il popolo dallo strangolamento economico e gli aguzzini che vogliono imporre il rigore oppure tra un irresponsabile leader populista e la dura realtà del sacrificio contabile necessaria a sedersi nel consesso privilegiato delle grandi potenze europee? Già perché sono queste le due narrative messe in campo nell’arco di questi cinque mesi di estenuanti trattative sul debito ellenico, 300 miliardi di euro circa impagabili in scomodissime rate più volte rinegoziate e ora scadute. Una retorica con risvolti persino estetici che si gioca tra l’immagine ingessata degli euroburocrati in abito grigio e occhialini montatura leggera e i due ragazzi greci sportivi senza cravatta che arrivano ai vertici in moto, talvolta con la camicia fuori dai pantaloni. Che sfrontati eh? Ma fu vera gloria quella di Tsipras e del suo ministro delle Finanze Varoufakis?
Che il piano della Troika fosse irricevibile nelle condizioni in cui si trovano i greci lo si sa da anni. Purtroppo per coloro che sostengono il contrario, l’intera letteratura scientifica economica con qualche rara eccezione di poco conto (Giavazzi/Alesina), ci illustra da decenni quanto fosse folle in generale il progetto eurocratico della moneta unica senza un governo, documentando in anticipo quanto sarebbe stato triste l’epilogo finale a cui un simile progetto avrebbe inevitabilmente portato i popoli sottoposti alla cura come cavie da laboratorio. Parliamo di voci diversissime tra loro dal nobel canadese Robert Mundell, all’economista Martin Feldstein (Harvard) che inascoltato indicò anni or sono come l’euro a suo avviso avrebbe potuto portare ad una guerra europea (sic!), fino a Rudi Dornbusch autore del manuale di macroeconomia tra i più usati e studiati nei campus universitari di tutto il mondo che, già negli anni ’90, si espresse con toni chiarissimi contro il progetto di moneta unica: “Se mai è esistita una cattiva idea questa è l’Unione monetaria europea”.Poi c’è la solita “Woodstock economica” dei controcorrente, ovvero la coppia degli immarcescibili premi nobel Krugman & Stiglitz (ormai sono come i poetici cantanti Simon & Garfunkel) che hanno invitato esplicitamente il popolo greco domenica a votare “OXI”, il primo meritandosi addirittura uno striscione in piazza Syntagma con scritto “Viva Krugman!”. I loro richiami keynesiani contro l’austerità sono ben noti da anni e hanno giocato sicuramente a favore del governo greco nel dibattito di questi giorni.
E in questi ultimi anni non sono mancate pesanti conversioni sulla via di Atene, prima tra tutte quella eclatante di Olivier Blanchard, a maggio dimissionario economista capo del Fondo Monetario Internazionale in sostanziale polemica con la linea ultrarigorista del Fondo, sposata acriticamente dalla direttrice Christine Lagarde. “Il rigore eccessivo blocca la crescita” ipse dixit, verrebbe di rispondere “buogiorno Mr. Blanchard!”. Un nome pesante nel mondo accademico, quello di Blanchard, docente del MIT, Harvard, incarichi alla Federal Reserve, responsabile del World Economic Outlook, il rapporto sullo stato di salute dell’economia mondiale che viene diffuso due volte all’anno e tenuto in considerazione dal mondo economico come l’oracolo di Delfi. Anche lui autore di un testo di macroeconomia e mentore di Luigi Zingales, che purtroppo però non ha fatto tesoro dell’ultima lezione del maestro e continua a sostenere la necessità dei sacrifici di spesa pubblica e pensioni per rimettere in moto le economie in difficoltà. Insomma, se si aggiunge anche l’ultima svolta, quella dell’ex eurocrate Fritz Bolkenstein (Commissione europea), il quale ha illustrato in un recente convegno il fallimento del progetto europeo mettendolo in relazione con il disegno istituzionale pensato anni prima da Helmut Kohl, vediamo come Tsipras si trovi in ottima compagnia.
Inoltre, uscendo per un attimo fuori dalle accademie, in questi giorni, oltre all’allarme del Governatore di Porto Rico (non potrà ripagare il debito al FMI), lo stesso Fondo Monetario ha rifiutato, cosa passata sotto silenzio dei media, la richiesta rivoltagli da 75 organizzazioni internazionali di alleggerire il debito del Nepal martoriato dal recente disastroso sisma. Si tratta di un debito di soli 55 milioni di dollari, briciole se paragonate al debito greco, ma il FMI ha detto no. É il caso di ricordare che il Nepal ha perso nel tragico terremoto oltre 8.600 vite, con una perdita economica di 10 miliardi di dollari pari ad un terzo dell’economia del paese. La Lagarde però non cede a questi sentimentalismi. Perché lavorare per ricostruire un paese distrutto quando si deve ripagare il debito? Il FMI agiva così negli anni ‘80 in America Latina imponendo cure di austerity a popoli già stremati in cambio di un prolungamento della scadenza dei ratei, affamandoli fino alla conclusione dell’inevitabile default. Sempre lo stesso circolo vizioso.
Questa mentalità meccanica radicata, questo deficit istituzionale di elasticità, controproducente se si pensa che far fallire una nazione significa non vederli mai più quei benedetti soldi, è la base del trionfo della narrativa imbastita dalla coppia Tsipras-Varoufakis i quali ora politicamente hanno il vento a favore. Beninteso, è un governo spacciato quello di Tsipras che ha in extremis svoltato a referendum per disincagliarsi da un’inevitabile voto parlamentare sulle proposte della Troika, voto che lo avrebbe fatto cadere. Oltre il 40% di Syriza aveva giurato di non votare le nuove ed ennesime misure di austerità a cui la Troika subordinava la concessione di nuovi aiuti, dopo aver già prelevato sangue da quegli stessi elettori a cui era stata promessa una boccata di ossigeno. Al di là di un’abile retorica democratica il paese è da anni già in default e mesi fa il governo aveva dichiarato di non poter rimborsare la rata da 1,6 miliardi di euro al FMI. Se non puoi rimborsare una cifra del genere, una goccia nel mare di un bilancio pubblico in uno stato europeo medio, vuol dire che il default è un fatto già dichiarato e da anni purtroppo. Non c’è mica bisogno che suoni chissà quale campana ad ufficializzarlo. Si tratta di una crisi di insolvenza che il referendum non risolverà, considerando che la chiusura del rubinetto della BCE costringerà probabilmente il governo greco, con le casse ormai vuote, a pagare i dipendenti pubblici con dei certificati di credito che di fatto costituiranno già una moneta parallela all’euro.
Questo toglie a Tsipras quell’aura magica e un po’ hollywoodiana da Spartaco del nostro tempo in lotta contro gli schiavisti (tedeschi questa volta), da Davide contro il possente Golia, il primo armato solo del suo coraggio. Oleografia che sta facendo commuovere i Moni Ovadia, le Barbara Spinelli, i Dario Fo e tutti i vendoliani arcobaleno nostrani. Tutti europeisti convinti, maghi del distinguo, finti rivoluzionari, quelli che credono fermamente nell’esistenza di un “sogno europeo” irrealizzato per colpa dei cattivi tedeschi (sempre loro). Quelli che si sarebbero accontentati di un po’ di welfare e si benessere, indifferenti alla sottrazione di identità che il progetto europeo ha sempre comportato fin da quando i vari Jean Monnet e Robert Schuman hanno avuto dagli americani l’incarico di chiudere l’Europa dei popoli in questa gabbia istituzionale per non farla mai più respirare. Questo è avvenuto fin dall’inizio e ad opera dei veri padri fondatori, i lobbisti e non gli inascoltati politici alla De Gaulle, De Gasperi ed Adenauer (conservatori questi ultimi).
Che questo tipo di sinistra radicale sia comoda agli interessi del potere finanziario lo si può facilmente dedurre dalle stesse parole di Yannis Varoufakis durante i lavori di un convegno dal titolo suggestivo “Subversive Festival” di Zagabria tenutosi nel febbraio del 2013 dove si parla di Europa, del capitalismo e degli errori delle sinistre socialdemocratiche o delle “terze vie” di Tony Blair e, più recentemente, di Matteo Renzi (che allora era solo sindaco di Firenze). È in quell’assise di marxisti che Varoufakis spiazza il pubblico, dichiarando di voler difendere il capitalismo, di non avere risposte pronte per cambiare i connotati all’economia globale. Risposte pronte che, invece, a suo avviso non mancano alle destre reazionarie e ai fascismi, che l’attuale ministro delle finanze greco mostra di temere più di ogni cosa: «La crisi economica non farà probabilmente nascere un’alternativa migliore del capitalismo. Al contrario, potrebbe pericolosamente liberare forze regressive che hanno la capacità di causare un bagno di sangue umanitario, estinguendo la speranza per ogni spinta al progresso per le generazioni a venire. Il mio scopo è quello di dimostrare che l’implosione del ripugnante capitalismo europeo vada evitata a ogni costo. È una confessione, questa, che intende convincere i radicali che abbiamo una missione contraddittoria. Quella di arrestare la caduta libera del capitalismo per aver tempo di trovare un’alterativa.(…) Per quanto mi riguarda, non sono pronto a soffiare altro vento nelle vele di questa versione postmoderna degli anni Trenta. Se questo significa che saremo noi, i marxisti adeguatamente eccentrici, a dover tentare il salvataggio del capitalismo europeo, così sia». E ancora: «Sono felice di confessare il peccato di cui sono accusato da alcuni dei miei critici a sinistra: il peccato di scegliere non di proporre programmi politici radicali che cerchino di sfruttare la crisi come un’opportunità di rovesciare il capitalismo europeo, per demolire la terribile eurozona, e per minare l’Unione europea dei cartelli e dei banchieri delle bancarotte».
Messaggio cristallino che non ha bisogno di interpretazioni, Varoufakis vuole salvare la baracca che si sta autodistruggendo. Insomma il migliore amico della finanza mondiale, abbastanza eccentrico e radicale (a parole) per catalizzare su di se il voto dei sinistro-dissenzienti ma sufficientemente avveduto (rectius coniglio) da catalizzarlo e contenerlo per disinnescare la rabbia rivoluzionaria ripiegando su posizioni concilianti. E se poi emergono i veri populismi (Fn, Lega, Alba Dorata, Jobbik, Orban) quelli che hanno le idee chiare e non vengono a patti con i liberali, a quel punto si salta tutti insieme nel nuovo CNL antifascista per affrontare il nemico esistenziale abbattendo le differenze un momento prima rimarcate. Per riformare il capitalismo c’è sempre tempo poi…nei secoli a venire. Per il momento si tratta per restare nell’euro, senza cravatta e con la moto però, così i giornalisti sapranno come riempire le pagine di inutilità mascherate da notizie e tutti penseranno quanto è anticonformista e fico questo ministro che ha insegnato a Cambridge e ora si prende gioco di Dijsselbloem e Schäuble. Leggendo questo manifesto del Varoufakis-pensiero si prova un istintivo affetto per frau Merkel. In fondo quella donna è coerente, persino esteticamente con quell’immagine da direttrice scolastica di un collegio svizzero per bambini, ma sicuramente sta lavorando più lei per la causa sovranista di tutti gli Tsipras e i Podemos d’Europa. E non giurerei che lo faccia involontariamente!

Obama_Merkel_dollPer quanto la dottrina tedesca del pareggio di bilancio sia diventata in questi anni una specie di religione, di nuovo luteranesimo nella dirigenza tedesca in ossequio all’ordoliberalismo della scuola di Friburgo come denuncia da tempo Wolfgang Munchau su “Financial Times”, recenti richiami contrari ad una permanenza ad oltranza della Grecia nella moneta unica da parte della potente Confindustria tedesca e di Volker Kauder, presidente del gruppo parlamentare della Cdu, fanno capire chiaramente che la Cancelliera deve confrontarsi con un’opinione pubblica interessata a sbarazzarsi del problema Grecia il prima possibile. L’ottimo Sebastiano Barisoni su Radio 24 ha dato conto di come in queste ore l’opinione maggioritaria nell’eurogruppo sia proprio questa, cioè “meno siamo meglio stiamo” come avrebbe detto Renzo Arbore. Anche Padoan ne è convinto ormai. Cosa li sta frenando? Obama naturalmente, che in queste ore non fa che telefonare a tutti nell’ossessione che l’uscita della Grecia dall’euro porti quest’ultima nella sfera di influenza russa facendo perdere agli americani il Mediterraneo orientale. Ovviamente questa è la preoccupazione di un impero che guarda orizzonti ben più vasti del registratore di cassa tedesco, interessi geo-strategici politici e militari che in Germania sembrano oscuri gargarismi in ostrogoto. Il fatto stesso che si usino le parole in lettere e non soltanto i numeri ai tedeschi proprio non va giù. È una lingua che non capiscono più, ormai sclerotizzati definitivamente nella loro atavica impoliticità. È una tensione, quella tra Washington e Berlino, davvero interessante, molto più dei discorsi alla nazione di Tsipras. “Questa Germania sta diventando ingestibile ultimamente”, così George Friedman dell’influente think-tank Stratfor e sono molti a pensarla come lui negli Usa.
La Germania tende ad agire in base a ciò che le conviene economicamente che agli americani piaccia o no e questo sarà probabilmente il maggior problema negli assetti mondiali del prossimo futuro. La crisi greca si gioca lungo il filo ad alta tensione di queste due potenze, tra le scosse sismiche di una relazione infida e opportunistica. I greci, intanto, pagano le spese di questa crisi vivendo una situazione argentina con le immancabili code ai bancomat e l’economia bloccata dopo anni di recessione generata dal rigore. Un tale ha scritto su un muro di Atene: “Voglio morire”. Qualcuno ha completato scrivendo accanto “devi aspettare perché c’è la coda!”. Oltre a questo humor nero la disperazione genera rabbia, ma rende anche fertile il terreno alle spinte rivoluzionarie e sovraniste.
A prescindere da come vada domenica stiamo vivendo ore molto interessanti e vivaci. Le turbolenze dei mercati, il risveglio di paure collettive ma anche di passioni intense, gli occhi del mondo puntati su Atene in un dibattito scandito dai rintocchi dell’orologio, con il sangue che torna finalmente a scorrere in quelle vene. In quelle vene europee atrofizzate da decenni di abdicazione storica e ibernazione della volontà politica dei popoli. Un’eventuale vittoria del No al referendum di domenica potrebbe aprire una crepa nel gigantesco muro di recinzione in cui sono chiusi tutti i popoli d’Europa generando una reazione a catena che certo Tsipras non auspicava. Forse non sarà lui a gestire le successive fasi di questo percorso che è il passaggio di un’onda molto più lunga ed importante iniziata con le scorse elezioni europee. I prossimi a svegliarci dal sonno dogmatico liberale potremmo essere noi italiani. Se avremo forza e lucidità anche noi potremo fra non molto dire il nostro no. Per il momento diciamo OXI.

1992. SCHEGGE DI VERA STORIA (PARTE III)

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di Leonardo Petrocelli

Qualcuno (non) era comunista

Spiegare perché il potere atlantico e finanziario avesse scelto senza esitazioni la sinistra italiana come cavallo di Troia per imbucarsi e controllare la fortezza Italia in quei tragici Novanta, non è questione che si può evadere in poche righe. La vicenda è complessa e la rincorsa è lunga. Nel Pci, infatti, in continuità con il loro passato recente, pre e post bellico, alcuni uomini avevano deciso di remare in una direzione profondamente diversa da quella ufficialmente propugnata dal partito, pur rimanendone ben incistati all’interno, declinando in modo del tutto singolare la vecchia idea di liberazione del proletariato.
Ci riferiamo a quella che più tardi sarà battezzata “corrente migliorista”, cioè la destra del Pci, forgiata e plasmata, fra gli altri, dall’opera del riformista Giorgio Amendola, figlio di quel Giovanni – aventiniano, antifascista, teosofista e massone iniziato nel 1905 alla loggia “Romagnosi” di Roma – che introdusse il figlio nei corridoi della Banca Commerciale Italiana (Comit) e ne fece, di fatto, il propugnatore del progetto laico e borghese che avrebbe germogliato presto in seno al Pci, divorandone le radici. Cosa fosse la Comit lo lasciamo spiegare al sempre ben informato Blondet: “Unica banca d’affari in Italia; ‘centauro’ (per usare la parola di Cuccia) di natura pubblica ma dedita a proteggere, e quasi nutrire con il pubblico denaro, le fortune dei grandi capitalisti privati, gli Agnelli, i Pirelli, gli Orlando; centro di potere sottratto al controllo dello Stato […] e testa di ponte in Italia dei vastissimi interessi della Lazard Frères, la più potente e riservata merchant bank del pianeta”. In questo ambiente elitario e ovattato, non privo di qualche deriva occultistica, crebbe l’antifascismo dei La Malfa, dei Malagodi, dei Merzagora, dei Marchesano e, ovviamente, di Cuccia, tutti intrecciati a doppio filo (e per propria ammissione, si legga il laterziano Intervista sul non-governo di La Malfa) con la massoneria britannica e i servizi segreti americani. Il Fascismo non era ancora caduto e già il centro studi della Comit stendeva su carta il progetto del Paese Normale, quello bipolare e filoatlantico, prono alle voglie del potere tecnocratico e finanziario.
Non deve dunque sorprendere che Giorgio Amendola, il “gobettiano adoratore dell’economia classica inglese”, in contatto fin dal 1931 con Raffaele Mattioli, presidente della Comit, e intimo a amico di La Malfa, avesse fatto proprie le principali istanze di quel mondo, intrecciandole a qualche ben selezionata istanza del pensiero marxista e dando vita, così, ad una torsione ideologica del tutto singolare: il grande spazio aperto del mercato-mondo come struttura centrale della società, come perno di una liberazione-liberale (sic) del proletariato e tutto il resto – patria, religione, tradizioni – derubricato a intollerabile pietra d’inciampo sulla via di un nuovo socialismo “leggero”, europeo, mondano, radicale nel suo abbracciare il nuovo, non più votato all’abbattimento del capitalismo bensì al suo progressivo miglioramento. Dalla teoria alla pratica il passo fu brevissimo: Amendola, oltre a sedere a fianco di Gianni Agnelli nell’Istituto di Affari Internazionali (AIA) fondato dal tecnocrate oligarchico Altiero Spinelli, intrattenne strettissimi rapporti con Zbigniew Brzezinski, politologo di origine polacca e stratega del Pentagono, al tempo studioso del blocco russo, presidente della Trilateral Commission e consulente della Cia. Insomma, un pezzo da novanta che, come nel 1974 rivelò l’”Executive Intelligence Review” affermava con sicurezza di “controllare la fazione del Pci guidata da Amendola”. Dagli anni Sessanta in poi, infatti, gli americani avevano regolarmente cercato un contatto con i comunisti italiani sia per spaccare in due il fronte rivoluzionario sia per modificarne le posizioni interne, facendo leva sulla fazione meglio disposta all’interlocuzione costruttiva.
Ma Amendola non fu il solo a sporcarsi le mani con l’Orco oltre la cortina di ferro. S’introduca qui Sergio Camillo Segre, responsabile della sezione esteri del Pci dal 1970 al 1979, grande frequentatore della Fondazione Agnelli e dell’ambasciata Usa a Roma, nonché habitué, insieme ad Amendola, delle riunioni a Bellagio, sul Lago di Como, organizzate dalla Fondazione Rockefeller. Ma tra i suoi galloni, uno risalta su tutti: fu l’unico comunista che riuscì a sedersi a tavola con Ted Kennedy nel 1976 cioè l’anno caldo nel quale il Pci registrò il risultato elettorale più alto (34,4%) della sua storia nazionale. Con il sorpasso a un tiro di schioppo, Segre banchettava al fianco del senatore democrat. Un onore non da poco se è vero che anche altri avevano cercato, con ogni mezzo, di partecipare alla mangiata “americana”, ricevendone però in risposta un secco rifiuto. Fra i trombati, il più mortificato di tutti fu senza dubbio Giorgio Napolitano, il futuro Presidente della Repubblica, al tempo zelante allievo di Amendola che da anni cercava di introdurlo nel giro “buono”, avendo intravisto in questo ragazzo napoletano, a suo agio con l’inglese e amico di famiglia (il padre di Napolitano, Giovanni, elemento di spicco della massoneria partenopea, fu sodale del già citato Giovanni Amendola, padre di Giorgio), il campione perfetto cui affidare la continuità del progetto. Ma gli esordi furono complessi. Inizialmente, infatti, il Dipartimento di Stato Americano e la Cia non si fidavano di quel Napolitano che, nel 1956, aveva plaudito alla repressione sovietica in Ungheria. Da cui l’ovvia reprimenda: nel 1975 gli fu negato il visto per gli Usa e nel 1976 Ted Kennedy rifiutò tre volte di incontrarlo, anche al di fuori del celebre pranzo. Insomma, una disfatta.
Ma la svolta era lì, a pochi passi. Aprì le danze il rapporto sulle relazioni tra Cia e Pci, redatto dall’ufficiale dei servizi americani Robert Boies, che indicò Napolitano quale interlocutore prezioso nella infinita chiacchierata operativa tra gli americani e i comunisti italiani. Ma furono l’elezione del democratico Jimmy Carter alla Casa Bianca ed il conseguente arrivo a Roma, in qualità di ambasciatore, di Richard Gardner, un liberal maritato con l’ebrea italiana Danielle Luzzatto, a far crollare le ultime esitazioni e incoronare definitivamente il Nostro come successore di Amendola e Segre nelle vesti di capofila dell’armata dei cavalieri serventi. Proprio Garner che, in realtà, cercava di sedurre Berlinguer, scrisse di Napolitano: “Era un socialdemocratico. Condividevamo gli stessi valori […] Con discrezione mi faceva capire di non essere d’accordo con molte decisioni del Pci e di auspicarne una evoluzione più rapida”.
L’occasione per ufficializzare la promozione sul campo si presentò due anni dopo e assunse subito i tratti confusi della vicenda equivoca. Affidiamo il racconto alla penna sferzante del giornalista Ferruccio Pinotti cui siamo debitori di molti spunti: “L’8 febbraio del 1978, un mese prima del sequestro Moro, Norman Birnbaum dell’Amherst College, un uomo che alcune fonti indicano come espressione della Cia, invita Berlinguer per un ciclo di conferenze alla New York University e in altri luoghi degli Stati Uniti. […] Qualcosa però succede e Berlinguer non parte. Il meccanismo si inceppa. A recarsi negli Usa è invece Napolitano”, su esplicito suggerimento di Brzezinski (“pochi come lui – spiegò – avrebbero potuto illuminare i miei connazionali sul Pci”).
Il viaggio, sia chiaro, non fu una passeggiata di piacere. Chiaramente sotto esame, come lo sarà Gianfranco Fini anni dopo di fronte ai banchieri della City, Napolitano – per il quale era stato oltretutto sconfessato lo Smith Act che impediva ai comunisti di mettere piede sul suolo americano – fu costretto a reggere l’urto di una raffica di domande ostili e a prodursi in una serie dichiarazioni impegnative. Che, non dubitiamo, fu felicissimo di esternare. Soprattutto di fronte alla platea del Council of Foreign Relations: “il Pci deve rompere i rapporti con Mosca”, “il Pci non si oppone più alla Nato come negli anni Sessanta”, “il compromesso storico non danneggia in alcuno modo gli interessi Usa” e compagnia leccando. Alla fine, fu un trionfo. Napolitano prese a rilasciare interviste chilometriche al “Washington Post” e alle principali reti televisive americane e proseguì nella sua indefessa attività di pierraggio. A New York, infatti, incontrò Gianni Agnelli e strinse con lui un rapporto di stretta cordialità che permise al futuro presidente di incontrare nel tempo, con la mediazione dell’Avvocato, Margaret Thatcher e soprattutto Henry Kissinger. Una amicizia solida, quest’ultima, se nel 2001, incontratisi a Cernobbio, il vecchio americano appellerà Napolitano “my favourite communist”, salvo essere subito corretto dal futuro Re Giorgio: “Ex communist, please”.
Tornato a Roma da vincitore, il 19 aprile del 1978 Napolitano fondò finalmente, con tutti i crismi dell’ufficialità, la corrente “migliorista” del Pci, tirandosi dentro Lama, Bufalini, Macaluso, il vecchio Amendola e preparandosi al sorpasso sugli avversari interni. Il fronte era stato finalmente strutturato. Ora serviva soltanto assestare la spallata finale.

Cantami, o diva, dell’americano Achille

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Lo scenario, nazionale e internazionale, fornì molti argomenti per propiziare la svolta auspicata da Napolitano e sodali: la morte improvvisa di Berlinguer, la crisi del blocco sovietico, l’arrivo al potere di Gorbaciov, i fatti di piazza Tienanmen. E, non ultimo, l’approdo alla segreteria del partito di Achille Occhetto, eletto in fretta e furia dal comitato centrale nel 1988, dopo il lieve infarto che aveva colpito Alessandro Natta.
Fin da subito Occhetto cercò di qualificare il Pci come una realtà autonoma e “liberal-democratica”, decisa a battere la via di un “nuovo corso” e ormai pronta all’ingresso nel salotto della socialdemocrazia europea. A spalleggiarlo, ovviamente, c’era Napolitano: “Per essere credibili – affermò – dobbiamo fare i conti, apertamente, con il nostro passato. In ogni caso non mi scandalizzerei di un cambiamento del nome, ma vorrei che fosse legato a dei fatti politici, nel senso di una ricomposizione della sinistra in Italia e in Europa, del superamento pieno delle divisioni e di tutto ciò che di storicamente vecchio e non più sostenibile c’è nella sinistra nel suo complesso”. Il dibattito divampò fin da subito, tra obiezioni di merito e diatribe nominalistiche, con gli americani alla finestra pronti a benedire la svolta che, di fatto, arrivò il 12 novembre del 1989 a Bologna e portò, nel 1991, allo scioglimento del Pci nel nuovo Partito Democratico della Sinistra (Pds).
Se a molti il mutamento di rotta parve troppo repentino nei tempi e poco partecipato nella gestazione, evidentemente fu perché ancora non era chiaro il metodo attraverso il quale si realizzavano, e si realizzano tutt’ora, i passaggi politici più rilevanti. Mentre in Italia montava infatti la cagnara di sociologi, intellettuali, giornalisti, esponenti politici, vecchi stalinisti e nuovi riformisti, tutti intenti a masturbarsi sui destini collettivi e sul colore del Sol dell’Avvenire, Occhetto e Napolitano chiudevano la valigia e volavano in America. Era il 16 maggio del 1989, sei mesi prima della Bolognina.
Occhetto si era preparato benissimo alla sfida. Come Napolitano anni prima, anzi meglio. Questa volta l’asservimento verbale ai desideri del grande capitale atlantico non ebbe infatti mediazione né freni prudenziali. Fu un delirio totale: “Gli Usa sono meravigliosi”, “sono il Paese dove è meglio coniugata la libertà con l’eguaglianza”. Al punto da stupire (e innervosire) l’uditorio stesso. Dopo una conferenza alla solita New York University, l’intellettuale Ralph Miliband tuonò disgustato al microfono: “Se questi sono i nuovi dirigenti comunisti, la borghesia non ha più nulla da temere”. E i circoli finanziari, questo il sottotitolo, solo da guadagnarci. Il primo giorno, infatti, appena sbarcato nel Nuovo Mondo, Occhetto era stato ricevuto da Edgar Bronfman, l’uomo da un miliardo e mezzo di dollari (di allora!), presidente del Congresso Mondiale Ebraico e futuro manovratore della Russia di Gorbaciov. Ufficialmente si parlò di Medio Oriente. Ma, in realtà, il mestiere di Bronfam era un altro: riciclare leader comunisti sulla via del neocapitalismo nascente, saggiarne la nuova fede ed, eventualmente, confortarne l’ascesa dopo averli ripuliti e incipriati. Aveva provato, senza successo, con Honecker. Come si potrà facilmente desumere dagli accadimenti successivi, ci riuscì invece benissimo con Occhetto che rientrò in patria con una certificazione di massima. D’altronde la missione del segretario mirava proprio a tale obiettivo: incassare un minimo di credito politico da coloro che si apprestavano a guidare la transizione dallo schema bipolare all’orizzonte aperto della futura globalizzazione mercatista. E poiché gli affari si fanno sempre in due, forse il Potere, dal canto suo, aveva trovato non un interlocutore, non un riferimento, non un semplice “amico volenteroso”, ma un primo premier da gettare nella mischia, in attesa di rintracciare l’altro e organizzare in Italia l’alternanza da Paese Normale.

“Di’ una cosa di sinistra”

Negli anni successivi al viaggio e alla svolta, i giornaloni global si affannarono a descrivere Occhetto come la guida, moderata e credibile, della nuova sinistra nascente. Il “Financial Times” prima e “Le Monde” poi, dipinsero il ritratto di uomo non più legato alla fisime dello Stato Sociale e nemmeno prevenuto nei confronti dei mutamenti in corso, ma aperto al futuro e alla nuove sfide. Certo, un “convertito in ritardo”, come scrisse maliziosamente il giornale della City ma, insomma, per saltare la staccionata si è sempre in tempo. Da par suo Occhetto fece (e disse) di tutto per sgombrare il cielo dalle ultime nubi: “L’idea di una sinistra fautrice di un grosso Stato Sociale è passata di moda”; “le risorse per rilanciare l’economia si possono reperire vendendo le cospicue proprietà dello Stato”; “continueremo la politica di rigore di Ciampi”; “non cambieremo nulla del piano di privatizzazioni”; “la sinistra ha balbettato vent’anni di fronte al nuovo liberalismo ma, se dovessimo andare al governo, le difficoltà non verrebbero dalla nostra immagine passata”.
Correva il solito biennio 1992/93. E ormai appariva chiaro ai più il crinale sul quale si stava incamminando la sinistra italiana. Tramontata la Prima Repubblica, rimossa la vecchia classe dirigente, avviate le privatizzazioni e superata la stagione dei tecnici Amato e Ciampi (utile anche a saggiare Napolitano come ministro degli Interni per un antipasto di postcomunismo al potere), il Pds si apprestava a mettere la propria efficienza strutturale, quasi aziendalista, ereditata da decenni di Pci, al servizio del nuovo disegno globale.
In tanti si sono interrogati sul perché, da un certo momento in poi, la sinistra abbia smesso di fare la sinistra, contraddicendo se stessa e i propri proclami di piazza, e soprattutto imbarcandosi in una lunga serie di imprese poco edificanti: le privatizzazioni selvagge, l’internazionalizzazione del debito, il rigorismo mercatista, la guerra in Jugoslavia (ricordate D’Alema da Clinton? “Per uno come me è un grande onore essere qui”), l’ingresso nella moneta unica e il fanatismo europeista, la parificazione di scuola pubblica e privata, l’introduzione del precariato attraverso il Pacchetto Treu, il sostegno ai conflitti americani, la promozione in ruoli chiave dei Goldman Sachs Prodi e Padoa Schioppa, il sostegno incondizionato a Monti e chi più ne ha più ne metta. Un elenco che serve rievocare per smontare il mito artificiale di una sinistra cialtrona, disunita, litigiosa, piena di impresentabili e raccomandati ma, in fondo, portatrice di “idee buone”. Nulla di più falso, come hanno dimostrato ampiamente le scelte operate negli ultimi vent’anni, tutte riconducibili alla svolta (leggi svendita) concretizzata da Occhetto e preparata con pazienza, per decenni, dagli Amendola e dai Napolitano. Poco c’entrano lo scadimento generale della politica, la perdita progressiva dei riferimenti culturali e l’avvento di generazioni di dirigenti de-ideologizzati. Sono, al massimo, fattori di contesto o elementi degenerativi. Certo, ognuno ci mise del suo, perfino Berlinguer che dopo aver seppellito Togliatti e disconosciuto l’Unione Sovietica, annacquò ogni tensione rivoluzionaria nella brodaglia insipida dell’eurocomunismo, ma il mutamento vero fu figlio di quella pianificazione accorta e ragionata.

E Tangentopoli?

Non è un mistero che la grande opera di pulizia politica, messa in piedi dalla magistratura su mandato sovranazionale, risparmiò volontariamente la sinistra italiana che, pure, avrebbe meritato ben altro trattamento. La trattativa Usa-Pci aveva però assicurato anche quello: protezione e garanzia di continuità. Lo ammise con candore Carlo De Benedetti: “In quell’operazione certamente il Pci è stato protetto perché sia Borrelli che D’Ambrosio volevano distruggere il sistema di potere, non tutti i partiti (cioè non quel partito, ndr)”. Ma, meglio ancora, lo raccontano i fatti. Scavare nella cantina oscura dell’Italia migliore fu compito del pm Tiziana Parenti, alias “Titti la rossa”, aggregata al pool per far fronte alla immensa mole di lavoro. Dopo i primi arresti, il filone delle “tangenti rosse” non ci mise molto a decollare con quei 621 milioni versati al Pds dal manager Lorenzo Panzavolta tramite il Compagno G, cioè Primo Greganti, il “perfetto comunista che non molla mai”, ovvero che protegge il silenzio ad ogni costo. Da quella traccia recentissima la marea si espanse quasi subito, giungendo a lambire i piedi del segretario amministrativo del Pds, Marcello Stefanini, ed anche di Occhetto e D’Alema, tirati in ballo dall’ex tesoriere milanese Luigi Carnevale. Sembrava fatta. Ma un intervento provvidenziale (sic) di Gerardo D’Ambrosio, futuro senatore dei Ds e del Pd (sic²), spezzò l’offensiva della collega conducendo in contemporanea una personalissima e rapidissima indagine volta a scagionare Greganti. Nessuno ci credette. Non il gip Italo Ghitti che rifiutò inizialmente l’archiviazione, salvo poi rimangiarsi ogni intento belligerante ed arrendersi alle pressioni. Non la Parenti cui l’indagine fu addirittura tolta. “Non è allineata con la procura”, tuonò D’Ambrosio. La storia di Tangentopoli, in realtà, trabocca di episodi come questo, a cominciare dal suicidio di Raul Gardini che quel 23 luglio, giorno della sua morte, avrebbe dovuto raccontare a Di Pietro a chi aveva consegnato il miliardo di lire portato a Botteghe Oscure, sede del Pci. Se Tonino l’avesse arrestato, come doveva, anziché lasciarlo in “cottura” senza apparente ragione, probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso. Ma la storia non si fa con i se e Mani Pulite, ormai, iniziava a mostrare in filigrana la propria data di scadenza. “È finita, nel senso che ciò che doveva emergere nel filone politico-affaristico è venuto fuori”, certificò il solito D’Ambrosio, apponendo la bolla papale alla decapitazione ad arte della Prima Repubblica. Era stato fatto ciò che serviva e l’Entità, per usare la colorata espressione di uno stranamente sincero Veltroni, non vedeva l’ora di tagliare i ponti con questo disordinato baccano che aveva già esaurito il suo compito e cavalcare verso il futuro. Con i suoi cavalli rossi già strigliati, sellati e pronti per la tornata elettorale del 1994. La prima della Seconda Repubblica.

Un accenno (off topic) a Berlusconi

Dire che Berlusconi abbia esercitato, già dal ’94, una provvidenziale azione di “raddrizzamento”, salvando il Paese dalla stretta mortale di una sinistra svendutasi a poteri atlantici e finanziari, è una affermazione francamente eccessiva. E non tanto per il codazzo di nani e ballerine che hanno sempre puntellato la vita politica dell’ex Cavaliere, e nemmeno per circostanze legate alla cosiddetta “questione morale”, quanto piuttosto in riferimento ad un fenomeno molto comune in politica. Soprattutto ad alto livello. Ci riferiamo al problema del doppio. Di Berlusconi, di fatto, ce ne sono stati due e del tutto antitetici. Il primo voleva nazionalizzare la Banca d’Italia, meditava l’uscita dall’euro, si scontrava con la Merkel, costruiva legami forti con Putin e Gheddafi. Il secondo, al contrario, partecipava al valzer delle privatizzazioni, sosteneva in ogni modo le guerre americane, si recava negli Usa a parlare al Congresso, stringeva fraterno sodalizio con G. W. Bush e, soprattutto, incassava il premio “Uomo dell’anno” dall’associazione ebraica “Keren Hayesod” per essersi distinto nella difesa di Israele. Questi due Berlusconi si sono alternati, affiancati e soprapposti per tutto il dispiegarsi dell’ultimo ventennio, senza che si riuscisse mai a capire quale delle due nature fosse quella preminente. Un indizio però lo possiamo rintracciare ugualmente: negli anni in cui l’ex premier si calò con zelo nei panni del perfetto servitore dei poteri atlantici e finanziari, cioè dal 2001 al 2006, il suo governo resistette per tutta la durata della legislatura, registrando un record italiano. Le inchieste rallentarono, i giornali si auto-moderarono, il battage internazionale intorno al Cavaliere scese di qualche ottava, consentendogli di proseguire la marcia. Allinearsi al potere, come ovvio, paga sempre e, in quel delicato frangente post 11/9, Berlusconi incarnò perfettamente – ancor meglio della sinistra prezzolata, non a caso scaricata per qualche tempo – il ruolo di capobastone della provincia-Italia nel quadro del grande mutamento globale. Di contro, dal 2008 in poi, quando a palesarsi fu l’altro Berlusconi, quello imprevedibile e sgradito, il sovranista amico dei russi, si scatenò sul premier la furia vendicatrice dei mercati e delle procure, costringendolo alla resa e consentendo l’avvento dei tecnici capeggiati da Monti. Avevano gioito a ragione gli americani nel ’94, al momento della sua discesa in campo: non era uno dei loro, ma aveva troppi scheletri nell’armadio e troppi interessi in gioco per potersi muovere in autonomia. Se fosse uscito dall’ovile, l’avrebbero recuperato con facilità in qualunque momento. Esattamente come poi accadde. Che questo spaccato serva di lezione a quanti oggi si apprestano o dicono di volersi apprestare, Salvini in testa, a sfidare il Potere.

A mo’ di conclusione

E siamo arrivati alla fine della nostra traversata. Inutile evidenziare che l’argomento avrebbe meritato una trattazione ben più ampia e documentata di quella che siamo riusciti a fornire in queste tre puntate. A conti fatti, le omissioni sono più delle rivelazioni, questo è certo, ma la verità non ha bisogno di troppi ricami per essere raccontata in tutta la sua nuda evidenza. La storia recente d’Italia, saga meschina e poco epica di burattinai e burattini, non è stata la nostra. È stata la loro. Vi hanno fatto appassionare a contese inesistenti, a battaglie fasulle, a contrapposizioni immaginarie, mentre il ragno tesseva la tela scucendo le vesti del re. Ma ora il re è nudo e tutti lo vedono. Bisogna soltanto che qualcuno lo dica.

FINE