Qualche anno fa, nel circuito del pensiero non conformista, teneva banco una controinformazione economica argomentata e puntuale. Parlava di signoraggio e sovranità monetaria, prodigandosi in una narrazione che non conosceva pressapochismo, sostenuta com’era da cifre, dati, documenti, analisi, ricapitolazioni storiche e aggiornamenti continui. A portarla avanti erano pochi ma ben attrezzati pionieri, disposti ad andare avanti nonostante lo spettro di quella riserva indiana nella quale sapevano di confinarsi. Per tanti motivi. Non ultimo l’illusorio e generale benessere che impediva al cittadino di interessarsi a verità che lo avrebbero bruscamente ridestato dal sogno americano nel quale s’era immerso beato fino alla cima dei capelli.
Poi lo scenario è cambiato. È arrivata la crisi e qualcuno, buttato giù dal letto dalla mestizia dei tempi, ha iniziato a prestare orecchio alle parole di queste cassandre inascoltate che tanto si erano spese in tempi non sospetti. Con il risultato di rendere di pubblico dominio ciò che prima era appannaggio di qualche iniziato, esiliato nella riserva. Ormai non si contano più i siti, i libri e i documenti dedicati al problema della sovranità monetaria, recentemente approdata perfino da Santoro per bocca di una coraggiosa imprenditrice veneta. Benissimo, si dirà. Vero, se non fosse che proprio quando sarebbe stato necessario infliggere il colpo di grazia e raccontare al mondo, per filo e per segno, fatti e misfatti di secoli di usura, il livello della controinformazione si è spaventosamente abbassato. Giacinto Auriti non c’è più. Ora a suonare le trombe della rivoluzione monetaria sono i blogger di venti-trent’anni che riempiono la rete di citazioni poundiane, vecchi slogan, frasi fatte. Chiedete loro che differenza c’è fra il mercato primario e quello secondario e non vi sapranno rispondere. Non a caso, non potendo scendere troppo nei dettagli per manifesta ignoranza, il piano per la liberazione dell’umanità è stato ridotto all’osso: nazionalizzare la banca centrale di turno e stampare tutta la moneta che serve ad appianare il debito e rilanciare l’economia. Stampare, stampare, stampare. Una tipografia salverà il mondo.
Naturalmente, qualunque economista liberista, anche il più scarso della nidiata, farebbe carne di porco di questi sovranisti della domenica. Non serve essere laureati ad Harvard per capire che stampare valanghe di soldi e gettarli nel sistema significa privarli immediatamente del loro valore e ridurli a carta straccia. È per questo motivo che le Banche Centrali, dicono loro, devono rimanere indipendenti dal potere esecutivo e cioè per garantire che gli stati non si divertano ad azionare la macchina fabbrica-denari ogni cinque minuti e per qualunque capriccio. In realtà, sappiamo bene, la cricca finanziaria non è migliore dei governi che pretende di disciplinare: la moneta creata ex nihilo dagli usurai e data in presto a Stati e cittadini finisce per generare un sistema in cui, alla lunga, l’ammontare generale dei debiti supera spaventosamente la liquidità necessaria per rimborsarli. Ironia della sorte, la grande finanza che emette “moneta debito” e gli allegri stampatori della “moneta libera”, seppur per ragioni diametralmente opposte, ci conducono entrambi verso il medesimo precipizio perché dimenticano, o fingono di dimenticare, una necessaria verità: la moneta deve essere sempre agganciata a qualcosa, altrimenti il sistema esploderà sotto il peso di quanto artificialmente creato dalla bulimia umana, angelica o diabolica che sia.
La massima è valida sempre, anche nel caso delle sperimentazioni più audaci. Thaddeus Coleman Pound, il nonno del più famoso Ezra, emise una propria moneta garantendola con il legname della sua segheria. Nel 1931, nel villaggio minerario bavarese di Schwanenkirchen, vi fu la prima emissione di moneta deperibile, la Wara, concepita sul modello di quella immaginata da Gesell. Protagonista dell’iniziativa fu il signor Hebecker, proprietario della locale miniera, che si premurò di coprire l’emissione alla pari con un deposito di 40mila reichsmarks presso la banca del paese. La stessa operazione fu portata avanti, poco tempo dopo, da Michel Unterguggenberger, sindaco della cittadina tirolese di Woergl, che iniziò a battere la cosiddetta “moneta (deperibile) del lavoro”, anche in questo caso coperta di un deposito di scellini di identico valore. L’elenco potrebbe continuare ma la morale è sempre la stessa: ogni emissione monetaria deve essere garantita e coperta, non solo per condurre l’eretica battaglia in tutta sicurezza, ma soprattutto perché altrimenti la quantità di denaro stampata sarebbe frutto di una scelta totalmente arbitraria e priva di ogni ancoraggio alla realtà. Quanti, in questi anni, hanno percorso la pur interessante strada della “moneta complementare”, stampando e distribuendo gratuitamente dei talloncini con i quali coprire il 10% di ogni spesa effettuata in euro presso i negozi coinvolti nell’iniziativa, hanno avuto il problema di quante cedole mettere in circolo. Non essendo ancorate a nulla, rischiavano di essere troppe (con l’effetto di far rialzare i prezzi) o troppo poche (con l’effetto, altrettanto deleterio, di essere ininfluenti).
Storicamente, è stato l’oro l’aggancio classico della moneta. Tuttavia, si tratta di un accorgimento iniquo perché sbilancia i rapporti di forza in favore di chi può acquistare (o estorcere) vagonate del biondo metallo e condanna gli altri, più poveri in partenza e quindi sempre più poveri in seguito, a raggranellare qualche pugliuzza alla periferia dell’impero. Con il risultato di avere scarse riserve e, dunque, scarsa quantità di moneta da mettere in circolo. E allora, come si potrebbero coprire i denari del domani? La domanda non è da poco.
Per evaderla nel modo corretto, serve rifarsi ad un esempio storico e concreto. Purtroppo per i benpensanti (copritevi gli occhi), ci toccherà prendere in esame la politica monetaria del Terzo Reich, quella che a scuola e all’università non si studia mai, perché c’è Auschwitz e tanto basta. Eppure, come vedremo, l’insegnamento che se ne potrebbe trarre è grande, avendo il nazionalsocialismo raccolto una nazione economicamente distrutta per trasformarla, in una manciata di anni, nella florida macchina da guerra che avrebbe messo a ferro e fuoco l’Europa. Come hanno fatto? Con l’unico esperimento dirigista riuscito in quegli anni, anche grazie alle felici intuizioni di Hjalmar Schacht, l’ebreo (eh sì) che astutamente Hitler mise a capo della Banca Centrale del Reich, dalla quale iniziò subito a stampar moneta per ripagare i creditori della Germania.
“Ecco – dirà l’allegro stampatore – avete visto? Azionando una leva tipografica hanno risolto tutto!”. No, la questione non è affatto così semplice. È vero che il Reich iniziò a risollevarsi stampando moneta, ma è anche vero che impose ai creditori, cui il denaro veniva elargito, una clausola ferrea: i reichsmarks di nuovo conio potevano essere spesi solo in Germania, cioè per comprare le merci tedesche. In questo modo il denaro emesso dal nulla riacquistava consistenza, rientrando sotto forma di consumo, e dunque di stimolo all’economia, nel ciclo produttivo. Ma nemmeno questo modus operandi convinse fino in fondo i nazisti: stampare a tali condizioni era sostenibile, ma non stampare affatto sarebbe stato meglio. Ed ecco allora profilarsi la svolta, così come spiega Maurizio Blondet cui dobbiamo buona parte di questa analisi: “Ben presto, il sistema sviluppò, quasi spontaneamente, accordi internazionali di scambio per baratto: la Germania non aveva più bisogno di valuta estera (dollari o sterline) per comprare le materie prime di cui necessitava, perché non vendeva né comprava più. Per il grano argentino dava in cambio i suoi (pregiati) prodotti industriali; per il petrolio dei Rockefeller, armoniche a bocca e orologi a cucù. Prendere o lasciare, e le condizioni di gelo del mercato globale non consentivano ai Rockefeller di fare i difficili”. Se vi sembra preistoria, se quanto esposto vi appare come un meccanismo arcaico e dilettantesco oggi irreplicabile, sarà sufficiente citare i recentissimi accordi, ancora in via di perfezionamento, fra Russia e Iran che prevedono barili di greggio in cambio di prodotti industriali. Lo scopo è diverso (far uscire Teheran dall’isolamento imposto), ma il metodo è lo stesso. Lo diciamo con Gene Wilder: “Si può fare”. Anche oggi.
Liberati i marchi dall’incombenza degli approvvigionamenti, Hitler poté, a questo punto, stampare per inaugurare un grande progetto di opere pubbliche, mirato al riassorbimento della disoccupazione. Ma seppe fermarsi in tempo. Per risolvere il terzo problema, quello del rilancio dell’industria, i nazisti s’inventarono infatti un metodo diverso. “Nel sistema hitleriano – riprende Blondet – è direttamente la Banca Centrale di Stato a fornire agli industriali i capitali di cui hanno bisogno. Non lo fa aprendo a loro favore dei fidi, lo fa autorizzando gli imprenditori ad emettere cambiali garantite dalla Stato. È con queste promesse di pagamento (dette “effetti MEFO”) che gli imprenditori pagano i fornitori”. Cerchiamo di essere ancor più precisi del Nostro: MEFO era l’acronimo di Metallurgische Forschungsgesellschaft, una “scatola” vuota in nome della quale furono emesse delle obbligazioni in qualunque momento scontabili presso la Reichsbank. Un grosso rischio dunque: se gli imprenditori fossero andati a riscuotere, il Reich avrebbe fatto bancarotta perché la MEFO e i suoi capitali, semplicemente, non esistevano. Ma i capitani d’industria non lo fecero mai per due ragioni: la grande fiducia che gli attori dell’economia nutrivano verso il governo e, soprattutto, perché il circuito Stato-impresa gestì l’esistenza di questa specie di “moneta industriale”, di truffa a fin di bene, senza che nessuno sapesse niente. Il docente di scuola ignorava l’esistenza dei MEFO e, come lui, la stampa e gli osservatori internazionali, con tutte le conseguenze del caso.
Si potrebbe continuare a ragionare a lungo sul misconosciuto “miracolo hitleriano”, per esempio parlando dei surrogati (invece di importare benzina, si trovò il modo di fabbricarne una versione sintetica dal carbone o dalla gomma) o di fattori immateriali come l’innata disciplina del popolo tedesco. Ma ciò che importa sono le conclusioni: pur potendo stampare vagonate di marchi i nazisti non lo fecero, anzi cercarono, a volte con grande fantasia, di ingegnarsi in tutti i modi possibili e immaginabili pur di non stampare troppo. E questo non solo per aggirare le sanzioni di Versailles (noi ne avremmo di peggiori) o evitare di attirare sguardi ostili e indiscreti (anche qui non siamo messi meglio), ma soprattutto perché cercarono di applicare, nel modo più saggio possibile, una regola aurea: il denaro creato dal nulla non produce inflazione soltanto se ancorato all’economia reale cioè alla produzione industriale. Anche in questo caso, però, sarebbe bene trovare uno stratagemma alternativo (come i MEFO, il baratto o i surrogati) da affiancare ai soldi correnti, da “fabbricare” soltanto ove non esista una soluzione diversa. Nella fattispecie, Hitler stampò marchi per iniziare ad appianare i debiti e per assorbire la disoccupazione, ma non lo fece per disciplinare il commercio con l’estero e il rilancio delle imprese. La lezione sulla ‘tentazione tipografica’ è chiara e la mettiamo fra virgolette: “Dove non serve, non fatelo, ma dosate le forze. In questo modo, il sistema sarà equilibrato e l’inflazione non crescerà” (in Germania salì appena di 4 punti in cinque anni).
Tornando all’Italia agonizzante del 2014, la parentesi storica appena esposta fornisce indicazioni preziose. Parzialmente ripudiato o ristrutturato il debito, e recuperata la sovranità monetaria, Roma dovrebbe cercare di pianificare il rilancio senza cedere alla tentazione di indebitarsi di nuovo ma anche evitando pericolosissime derive semplificatrici. Stampare, lo avrete capito, non basta, ma è un esercizio di indipendenza e libertà che funziona solo se inserito in un più ampio disegno strategico. Che non ha nulla di ovvio o di banale. Da cui un caldo consiglio ai sovranisti della domenica: abbassate la saracinesca della tipografia e iniziate a studiare.