Le Rose sono appassite. Finalmente

georgiaLa Rivoluzione georgiana delle Rose è finita. L’ultima sopravvissuta fra le molteplici ed ingloriose “rivoluzioni colorate” che avevano travolto i paesi post-sovietici, si è spenta definitivamente con la vittoria del filosofo Georgij Margvelashvili, vicino a Mosca, al primo turno delle presidenziali: con circa il 70% delle preferenze il partito del vincitore, “Sogno Georgiano”, ha schiantato lo sfidante David Bakradze, fedelissimo del presidente uscente Mikhail Saakashvili, protagonista indiscusso della Rivoluzione del 2003.

Il pensiero unico si duole compostamente per la fine di una opportunità meravigliosa di pace e democrazia, in nome della quale il Dipartimento di Stato americano e la Soros Foundation avevano inondato di soldi e di lodi Saakashvili e la sua Rivoluzione. Per il bene dell’umanità, naturalmente, ma anche per infilare una spina nel fianco della Russia ed imporre alla Georgia alcuni contratti discutibili con la British Petroleum, azionista di maggioranza dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Un prezzo (“spaventoso”, lo definì Saakashvili) da pagare per ottenere in cambio una stampa sempre condiscendente e favorevole, prodiga nella narrazione di una Georgia libera e liberata, faro di civiltà fra le tenebre moscovite. Nonché pronta, a fanfare spiegate, a fare il suo ingresso nella Nato. Almeno fino al 2008, quando l’altro grande sponsor della Rivoluzione delle Rose, cioè lo Stato di Israele, istigò Tbilisi a tentare la più audace delle imprese: sfidare militarmente Putin, aggredendo la provincia secessionista dell’Ossezia, protetta da Mosca. Per l’occasione, Israele fornì all’alleato armi, addestratori militari e persino uomini politici da inserire nella compagine governativa georgiana per rimodellarne strategicamente le mosse. Il proditorio attacco – dopo un inizio incoraggiante – si risolse in una rapida ed umiliante sconfitta, e mezzo mondo dovette darsi da fare per evitare che Putin seppellisse Saakashvili sotto una gragnuola di bombe.

I georgiani avevano sperato fino all’ultimo nell’aiuto, mai giunto, della Casa Bianca e, in fin dei conti, anche Israele, ispiratore della sortita, si limitò guardare. “Ci hanno svenduti”, si lagnò il presidente, ben conscio dei contraccolpi della disfatta: non solo il peso della sconfitta ebbe notevoli ripercussioni materiali sulla salute finanziaria del paese, ma a quel punto Saakashvili si ritrovò sbarrate le porte della Nato e dovette fare i conti con l’irritazione americana per la grossolanità della sua avventura. Scaricato dagli alleati e costretto all’isolamento, l’uomo della Rivoluzione decise di prodursi in una repentina inversione di rotta, aprendo al dialogo con l’Iran e con la Turchia di Erdogan, quando ancora ad Ankara si lavorava per una egemonia ottomana non sottomessa ai pruriti occidentali.

Una mossa disperata e suicida perché se il burattino taglia i fili e si ribella al burattinaio, a quest’ultimo, si sa, non resta che gettare il pupazzo nel fuoco del camino. E così, tutta la stampa che aveva fino ad allora lisciato il pelo del presidente iniziò a produrre un racconto inedito della Georgia colorata e democratica, rappresentata ora come una malcelata dittatura, violenta e corrotta, incapace di garantire il benessere, feroce con le minoranze e gli oppositori politici. Obiettivamente, null’altro che la realtà, celata ad arte finché – alla causa americana – è convenuto scatenare le Ong, i blogger, i circoli culturali, le femministe, gli intellettuali e tutti gli attivisti umanitari d’Occidente ai quali, per onestà, va riconosciuto un talento non da poco. Quello di riuscire a schierarsi sempre dalla parte sbagliata.

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PUTIN: “LE ONG SONO AGENTI STRANIERI”. E la verità divenne legge.

“L’ovvio – ha scritto Kahail Gibran – è ciò che non si vede mai, finché qualcuno non lo esprime con semplicità”. 

Il proposito è diventato legge: in Russia tutte le Organizzazioni non governative (ONG) che ricevono finanziamenti dall’estero sono tenute ad auto-qualificarsi, giuridicamente, come “agenti stranieri”. Pena, l’immediata chiusura e la condanna a due anni di detenzione per i loro dirigenti. Il provvedimento, fortemente voluto dal presidente Vladimir Putin, obbedisce ad una precisa logica politica: smascherare il ruolo operativo esercitato da presunte organizzazioni filantropiche che, dietro la patina zuccherosa delle libertà e dei diritti, incarnano sovente il motore delle eterodirette rivoluzioni “arancioni”, quelle tese a rovesciare i governi degli stati scomodi sobillando in modo pretestuoso l’agitazione interna.

È, questa, la dottrina di Obama o, più precisamente, quella dello stratega Zbigniew Brzezinski che da sempre invita la Casa Bianca a concentrarsi sugli avversari più ingombranti, too big to be attacked, troppo grandi per essere attaccati, ma sabotabili attraverso la propaganda dai diritti, iniziando dai paesi limitrofi. Niente droni, contingenti Nato o bombe intelligenti, bensì la collaudata e sovvenzionata filastrocca in difesa della minoranza di turno, utile ad incendiare l’animo di qualche indigeno culturalmente cresciuto a pane ed Occidente nonché a fornire ai media internazionali argomenti per un massiccio attacco frontale a risonanza globale. Se si aggiunge l’operato di qualche disturbatore inviato all’uopo, il quadro è completo. È, insomma, una guerra da democratici e premi Nobel per la Pace, che lascia le mani pulite, la fedina intatta e il nemico a terra. Ora, sarebbe fin troppo semplice ironizzare su un Occidente che si preoccupa dei diritti pur facendo stragi in mezzo mondo, che seleziona artatamente i governi canaglia (qualcuno sa cosa succede in Arabia Saudita?) e che, da essi, non riceve il medesimo trattamento. Detta più chiaramente, Putin non finanzia gli indipendentisti del Texas o le disagiate minoranze ispaniche, servendosi di organizzazioni di facciata, allo scopo di mettere i bastoni fra le ruote all’amministrazione americana, la quale, tuttavia, non esita a fare il contrario.

Ma più delle parole hanno valore gli esempi. The International Republican Institute (Iri) è una Ong americana, con sede anche a Mosca, impegnata nello sviluppo e nella diffusione della democrazia (leggi sovversione di governi sgraditi). Tale meritoria associazione, dopo aver invano versato 5 milioni di dollari in favore di una rivoluzione arancione in Bielorussia, ha animato e foraggiato, anche qui senza esito, la recente “Primavera russa” dipinta come una oceanica rivolta di donne e blogger in nome della libertà. Putin ha vinto con il 63,75% dei consensi ed il castello di carte è crollato. Curiosamente, l’Iri ha come “chairman” il senatore John MacCain, l’uomo che sfidò Obama nelle presidenziali del 2008 e che l’Italia rossa e rosata si affannò ad insultare come mostruosa replica del criminale Bush, salvo appoggiarlo (inconsapevolmente) applaudendo ai suoi tentativi di abbattere Putin. Tutte le pecore, prima o poi, ritornano all’ovile. Forse perché sfugge loro una ormai evidente constatazione, magistralmente compendiata da Massimo Fini in una delle sue più riuscite affermazioni: “Quando sento parlare di diritti umani metto mano alla pistola. Perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno”.

*Pubblicato su barbadillo.it