1992. SCHEGGE DI VERA STORIA (PARTE I)

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di Leonardo Petrocelli

A mo’ d’introduzione

C’è una gigantesca armata che si aggira nel dibattito pubblico italiano. È quella dei “va beh, non ho letto il libro ma ho visto il film e ora ti spiego, ti racconto, ti informo…”, ti dico come sono andate le cose ripetendoti quello che lo schermo ha raccontato attraverso la bella attrice e l’eroe tenebroso, la battuta fulminante e il mistero ammiccato, la scena di sesso e il riferimento colto. Sono quelli che hanno imparato la grande storia dai film di Hollywood e la piccola cronaca nostrana dalle fiction italiote e che sono arrivati a Tangentopoli passando per Gomorra e Il Trono di Spade. Sono i figli della Fox e della HBO, affidati al magistero di Stefano Accorsi e della sua fortunata serie 1992 per quanto riguarda uno degli anni più significativi per i destini dell’Italia contemporanea. Un anno che, forse, meriterebbe qualche riflessione integrativa di là dall’oceano di nulla nel quale la serie lo ha affogato, al netto di un paio di spunti di tiepido interesse. Sia chiaro, non basterebbe una enciclopedia per completare l’arazzo del disastro che fu ma anche qualche scheggia di vera storia può rivelarsi utile allo scopo.

Mani Legate

Ricordate la famosa battuta di Beppe Grillo a Fantastico 7 (Rai) “se in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?”. Ebbene, correva l’anno 1986 e che l’Italia intera, classe politica in testa, fosse marcia fino al midollo lo sapevano tutti. Lo sapevano i politici che le tangenti le prendevano, gli imprenditori che le pagavano, i poveracci che finivano all’angolo per non averle potute pagare. Lo sapevano tutti tranne i magistrati, le uniche anime belle della penisola a non accorgersi del verminaio di corruzione e clientele che da anni dilagava putrido in ogni dove, sommergendo il Paese. O forse lo sapevano ma non potevano intervenire, così come dimostra la misconosciuta storia del giudice Carlo Palermo che a Craxi (e non solo) si era “avvicinato” troppo già negli Anni Ottanta con l’unico effetto di farsi stoppare l’indagine dal Csm, con annessa azione disciplinare, e di vedersi negata la scorta nonostante le sue rischiose indagini sui traffici della mafia siciliana.
Insomma, dai partiti era meglio stare alla larga. E la magistratura alla larga c’era stata – vuoi per ignavia, vuoi per pavidità – per oltre quarant’anni, fino a quel fatidico 1992 che, con l’arresto di Mario Chiesa e la confessione di Alfredo Mosini, partorì l’incipit della grande slavina destinata a sconquassare l’allegro sistema tangentizio fino ad allora inviolato. Improvvisamente, era cambiato tutto. La magistratura remissiva ed ignara, fustigata per le proprie intemperanze e costretta all’immobilità dallo strapotere della politica, sembrava aver subito una mutazione antropologica ed essersi trasformata da corpo tremebondo in “partito-pool”, aggressivo e demolitore, con i vari Di Pietro, Colombo, Borrelli, D’Ambrosio, Parenti, Greco, Boccassini, decisi a fare in una manciata di mesi quel repulisti che nessuno aveva mai osato nemmeno ipotizzare per tutta la Prima Repubblica.
La Prima Repubblica, appunto, quella che aveva navigato a vista nell’ordine bipolare di Yalta, incardinata nella missione di conservare l’Italia nel blocco occidentale ed impedire che quel 30% di cittadini che votavano Pci la trascinasse dall’altra parte o, quanto meno, fuori dal blocco Nato. Cosa sarebbe successo se una Tangentopoli arrivata troppo presto avesse decapitato Dc e Psi con l’Urss ancora in piedi, Berlinguer ancora vivo e i comunisti dietro l’angolo? Ed anche considerando l’ipotesi che la valanga avesse travolto anche loro, il risultato sarebbe stato ugualmente il caos, l’imperdonabile sconvolgimento dell’arco costituzionale in un Paese, come l’Italia, i cui delicati equilibri liminari andavano conservati ad ogni costo (la questione era infatti di “carte geografiche”, di alchimie geostrategiche piuttosto che di persone perché, alla fine, un Napolitano agli Interni sarebbe stato, come sarà, fin troppo gradito). Diciamola tutta: gli Stati Uniti non avrebbero mai permesso alcun terremoto di tal fatta o, nel caso, vi avrebbero posto subito rimedio con un colpo di Stato d’ispirazione conservatrice e/o militare. Ma l’Italia non era la Grecia né il Cile e prevenire è sempre meglio che curare.
In nome di ciò, per quarant’anni gli americani avevano dovuto sopportare gli Andreotti, i Craxi, i De Michelis, i Moro (…forse no), i Cirino Pomicino, ma si trattava di un far buon viso a cattivo gioco: se fosse dipeso da loro, e soprattutto da Israele, li avrebbero volentieri lasciati penzolare da una forca. Diversamente da quanto la vulgata racconta, infatti, l’atlantismo servile non è mai stato una costante strutturale della Prima Repubblica. Ad irritare gli Usa ci aveva pensato fin da subito Andreotti sostenendo Mattei nella sua sfida alle Sette Sorelle e poi stringendo negli anni amicizie con tutti i nemici del padrone: i libanesi, i palestinesi, gli iraniani, i libici, perfino i sovietici (si leggano le memorie di Primakov). E che dire di Aldo Moro, il sorvegliato speciale su cui il Dipartimento di Stato Americano riceveva quattro rapporti al giorno e al quale Kissinger, nel 1974, mise le mani addosso durante un incontro diplomatico, minacciandolo di gravi ritorsioni (sic). Su Craxi, l’amico di Arafat che aveva trasformato il Partito Socialista da avamposto italico di Israele a forza di governo filo-palestinese, è finanche superfluo trattenersi: valga il ricordo della crisi di Sigonella ove carabinieri e militari della VAM puntarono le pistole in faccia alla Delta Force americana nell’unico e naufragato istante in cui siamo stati una nazione. All’indomani dei raid aerei su Tripoli del 1986 durante i quali gli americani non riuscirono ad uccidere Gheddafi soltanto perché Craxi lo aveva avvisato in tempo, l’emissario personale di Reagan, il generale Vernon Walters, sbottò rivolto al governo italiano: “Quando scoppia una crisi (leggi quando provochiamo una crisi, ndr), voi non siete mai dalla nostra parte”.
Il peccato originale che gli americani, schiumanti rabbia, non riuscivano a perdonare ai ministri del Belpaese era solo uno: il perseguimento dell’interesse nazionale e l’autonomia di manovra che tale obiettivo necessariamente esigeva. Detta più volgarmente, alcuni politici italiani facevano di testa loro, praticavano il doppio gioco, svicolavano dal mandato atlantico, non obbedivano, non si prostravano, non immolavano ogni ora del giorno e della notte sull’altare delle strategie di Washington, complicando così enormemente la vita dell’alleato d’oltreoceano. E per questo dovevano essere depennati. Ma non subito, però. Bisognava aspettare con pazienza il momento giusto, cioè la caduta del comunismo e dunque la rimozione del rischio di deriva rossa o terzaforzista dell’Italia.

Il Sol dell’Avvenire

E finalmente, dopo anni passati a masticare amaro e sputare bile, sorse nel 1989 l’alba del giorno nuovo con il crollo del Muro e, poco dopo, la morte annunciata del diavolo. L’Unione sovietica non esisteva più. E mai come in questo caso un evento pubblicamente salutato con giubilo e gioia segnò privatamente il lutto per la fine di un’era e di tutti i suoi protagonisti, perché il crollo del comunismo aveva fregato molti, tutti quelli che nel tempo – mafia compresa – avevano goduto del sostegno americano contro la minaccia sovietica e che ora si ritrovavano, nudi, di fronte al vecchio protettore divenuto grande inquisitore e arbitro della situazione.
Che l’attacco portato da Tangentopoli fosse irreversibile lo si poteva capire anche da un paio di segnali arrivati per tempo. La morte di Salvo Lima nel marzo del 1992 (“sono gli americani” dirà subito Sbardella, l’uomo di Andreotti) e soprattutto il sinistro articolo apparso il 14 dello stesso mese sull’oracolare “Economist” dove si rimproverava all’Italia la monolitica presenza dei democristiani al potere da cinquant’anni. Con un caldo invito a modificare le carte in tavola. Caldo quasi quanto quello che, ci ricorda Maurizio Blondet, il medesimo giornale aveva lanciato nel 1978 minacciando il compromesso storico di Moro con il tranciante titolo in italiano: “È finita la commedia”. Commedia che, in effetti, tre settimane dopo sarebbe finita davvero. Nel sangue.
Se tanti pixels fanno un’immagine, eccolo qui il semaforo verde, finalmente acceso e puntato sulla Procura di Milano come una specie di Bat-segnale. Al centro della scena, nel bel mezzo dell’occhio di bue, c’è Tonino l’Americano – cioè Antonio Di Pietro, l’ex sbirro semianalfabeta con in mano un biglietto per gli Usa dove si recherà all’improvviso nel bel mezzo dell’inchiesta – pronto a farsi carico, insieme ai colleghi del pool, delle grandi pulizie di primavera in conto terzi. Paolo Cirino Pomicino lo spiegherà anni dopo in una intervista rilasciata alla “Stampa”: “È storia, anche se poco nota da noi, che la Cia agli inizi degli anni ‘90 abbia avuto ordine di fare anche intelligence economica e di raccogliere informazioni sull’Europa corrotta. Ora, che in Italia ci fosse un sistema di finanziamento illecito ai partiti è noto oggi ed era noto allora. Io lo dissi pure in una riunione dei vertici della Democrazia cristiana, che il finanziamento illecito era il nostro fianco scoperto. Ritengo che la Cia abbia raccolto informazioni e le abbia girate alla magistratura di Milano dove c’era un pm, ex poliziotto, che non andava troppo per il sottile”. E quando, molti anni dopo, l’ambasciatore americano di allora, Reginald Bartholomew, rimprovererà a Di Pietro di aver “sistematicamente violato i diritti di difesa” durante Tangentopoli, l’ex pm replicherà stizzito: “Sconfessa se stesso e il suo Paese”. Giustamente.

Per quanto riguarda la cronaca dei fatti potremmo forse fermarci qui. Ma non ci è concesso. Perché è stato un anno gravido di sorprese questo 1992 e ci richiama all’ordine il suono di una nave che il 2 giugno attraccò in sordina nelle vicinanze di Civitavecchia, proprio mentre a Milano iniziavano a cadere le teste della vecchia politica. Si trattava del Britannia, il lussuosissimo panfilo della Corona d’Inghilterra. Al suo interno non c’era la regina, come erroneamente è stato sostenuto dal folklore complottista, ma, in compenso, un numero rilevante di banchieri, finanzieri, uomini d’affari e speculatori, sbarcati nella penisola come i conquistatori di Cortés nel Nuovo Mondo. Avevano navigato fin lì per assolvere un compito importante senza far troppo rumore. Dall’altra parte del mare e dell’oceano, infatti, c’era qualcuno che aveva grandi progetti per la nuova Italia e nessuna voglia di perdere tempo.

CONTINUA

ANDREOTTI, gli americani e quella verità che non si può raccontare

AndreottiBeppe Grillo sosteneva, divertito, che “quando morirà Andreotti gli toglieranno la scatola nera dalla gobba e finalmente sapremo la verità”. Sui misteri d’Italia e sui misteri di un uomo che non è mai uscito dalle inquadrature della storia: “A parte le guerre puniche – lamentava giustamente – mi viene attribuito veramente di tutto”. Ma non c’è bisogno di una autopsia di regime sul cadavere del Divo per raccontare quello che i documenti del Dipartimento di Stato americano, divulgati in Italia dal quotidiano “La Stampa”, spiegano con dovizia di particolari.

Nella prima parte della sua epopea politica, Andreotti si era fatto apprezzare senza riserve oltreoceano quale interlocutore affidabile e capace, di sicura fede filo-atlantica e di certa, inflessibile fermezza occidentalista. Washington non avrebbe potuto augurarsi di meglio per i futuri destini propri e del satellite-Italia. Poi qualcosa si inceppa e il soldatino cambia senso di marcia.

Sulla scena irrompe uno dei pochi “eroi civili” (ammesso che tale definizione abbia un senso) di questo Paese. È Enrico Mattei, ex-partigiano, democristiano, industriale, che osa sognare una politica energetica autonoma per l’Italia. Trivella la Val Padana in cerca di gas e petrolio, interloquisce con i produttori del terzo mondo, stringe accordi con lo Scià di Persia bypassando il cartello anglo-americano delle Sette Sorelle, oligarchia del settore. L’Italia entra senza chiedere permesso e pronuncia, nei fatti, la parola impronunciabile: “Sovranità”. Un peccato mortale, quello dell’emancipazione dei servi, condito da una ulteriore, ferale notizia: Andreotti lo sta aiutando.

Per Giulio è solo il primo passo del nuovo corso. In pochi anni serra i rapporti con il mondo arabo, apre al commercio con l’Urss, dialoga, o sembra voler dialogare, con Berlinguer e gli eurocomunisti. Dove è finito l’amico yankee? Non c’è risposta, in compenso la realtà parla chiaro: “L’Italia – scrive Maurizio Molinari – iniziava ad ondeggiare verso il terzomondismo”. E si continua così anche negli anni successivi. Andreotti è il regista della Dichiarazione di Venezia sul Medio Oriente (1980) che concede una apertura europea all’Olp di Arafat e supporta il governo Craxi, sui cui pure gli americani avevano puntato con fiducia, nella crisi di Sigonella del 1985, uno dei rari istanti in cui siamo stati una nazione.

Washington è in trappola: da una parte Andreotti e Craxi sono indispensabili per contenere il PCI, e quindi non è possibile disfarsene, dall’altro però la loro ostinazione nel tutelare l’interesse nazionale è divenuta insopportabilmente fastidiosa. Gli americani sono su tutte le furie e Andreotti, per giunta, ambisce al Quirinale. Ma si tratta solo di aspettare. Con il crollo del Muro nel 1989, autoestintosi il pericolo comunista, si accende il semaforo verde sulla decapitazione della Prima Repubblica. Dopo aver sorvolato per decenni su tangenti, mazzette, ruberie e clientele di ogni tipo, la magistratura italiana si desta improvvisamente, buttata giù dal letto dagli americani, e fa piazza pulita dei partiti in nome della moralità pubblica (sic). La globalizzazione monocolore può finalmente iniziare.

* Pubblicato su barbadillo.it

PS. E Andreotti? Per lui c’è stato molto di peggio, l’accusa di associazione mafiosa ed il processo che inizia, ufficialmente, il 27 marzo del 1993. Il primo a parlare di una “entità” alle spalle di tutti, un protettore occulto e potente, uno “zio” da cui i mafiosi ricevevano protezione, era stato il pentito Tommaso Buscetta in una conversazione con Falcone di quasi dieci anni prima. Scrive Gaetano Rizzo Nervo nel suo interessante saggio Il caso Lucky Luciano: “Un cordone ombelicale ha sempre legato la CIA alla mafia e non è mai stato reciso, secondo le prove esistenti. Perché meravigliarsi ora che la Cia possa aver pilotato Tommaso Buscetta in funzione […] anti-Andreotti cioè per l’eliminazione dalla scena politica di una persona invisa, in quel momento storico, ad una fascia ben individuabile della nomenklatura americana? Singolare il fatto che Buscetta risulterebbe arruolato nel 1966 , dopo appena cinque anni dalla morte, per cause naturali, di Lucky Luciano”. Cioè il boss “amico” che gli americani contattarono per organizzare lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943. Vendetta, tremenda vendetta.