ANDREOTTI, gli americani e quella verità che non si può raccontare

AndreottiBeppe Grillo sosteneva, divertito, che “quando morirà Andreotti gli toglieranno la scatola nera dalla gobba e finalmente sapremo la verità”. Sui misteri d’Italia e sui misteri di un uomo che non è mai uscito dalle inquadrature della storia: “A parte le guerre puniche – lamentava giustamente – mi viene attribuito veramente di tutto”. Ma non c’è bisogno di una autopsia di regime sul cadavere del Divo per raccontare quello che i documenti del Dipartimento di Stato americano, divulgati in Italia dal quotidiano “La Stampa”, spiegano con dovizia di particolari.

Nella prima parte della sua epopea politica, Andreotti si era fatto apprezzare senza riserve oltreoceano quale interlocutore affidabile e capace, di sicura fede filo-atlantica e di certa, inflessibile fermezza occidentalista. Washington non avrebbe potuto augurarsi di meglio per i futuri destini propri e del satellite-Italia. Poi qualcosa si inceppa e il soldatino cambia senso di marcia.

Sulla scena irrompe uno dei pochi “eroi civili” (ammesso che tale definizione abbia un senso) di questo Paese. È Enrico Mattei, ex-partigiano, democristiano, industriale, che osa sognare una politica energetica autonoma per l’Italia. Trivella la Val Padana in cerca di gas e petrolio, interloquisce con i produttori del terzo mondo, stringe accordi con lo Scià di Persia bypassando il cartello anglo-americano delle Sette Sorelle, oligarchia del settore. L’Italia entra senza chiedere permesso e pronuncia, nei fatti, la parola impronunciabile: “Sovranità”. Un peccato mortale, quello dell’emancipazione dei servi, condito da una ulteriore, ferale notizia: Andreotti lo sta aiutando.

Per Giulio è solo il primo passo del nuovo corso. In pochi anni serra i rapporti con il mondo arabo, apre al commercio con l’Urss, dialoga, o sembra voler dialogare, con Berlinguer e gli eurocomunisti. Dove è finito l’amico yankee? Non c’è risposta, in compenso la realtà parla chiaro: “L’Italia – scrive Maurizio Molinari – iniziava ad ondeggiare verso il terzomondismo”. E si continua così anche negli anni successivi. Andreotti è il regista della Dichiarazione di Venezia sul Medio Oriente (1980) che concede una apertura europea all’Olp di Arafat e supporta il governo Craxi, sui cui pure gli americani avevano puntato con fiducia, nella crisi di Sigonella del 1985, uno dei rari istanti in cui siamo stati una nazione.

Washington è in trappola: da una parte Andreotti e Craxi sono indispensabili per contenere il PCI, e quindi non è possibile disfarsene, dall’altro però la loro ostinazione nel tutelare l’interesse nazionale è divenuta insopportabilmente fastidiosa. Gli americani sono su tutte le furie e Andreotti, per giunta, ambisce al Quirinale. Ma si tratta solo di aspettare. Con il crollo del Muro nel 1989, autoestintosi il pericolo comunista, si accende il semaforo verde sulla decapitazione della Prima Repubblica. Dopo aver sorvolato per decenni su tangenti, mazzette, ruberie e clientele di ogni tipo, la magistratura italiana si desta improvvisamente, buttata giù dal letto dagli americani, e fa piazza pulita dei partiti in nome della moralità pubblica (sic). La globalizzazione monocolore può finalmente iniziare.

* Pubblicato su barbadillo.it

PS. E Andreotti? Per lui c’è stato molto di peggio, l’accusa di associazione mafiosa ed il processo che inizia, ufficialmente, il 27 marzo del 1993. Il primo a parlare di una “entità” alle spalle di tutti, un protettore occulto e potente, uno “zio” da cui i mafiosi ricevevano protezione, era stato il pentito Tommaso Buscetta in una conversazione con Falcone di quasi dieci anni prima. Scrive Gaetano Rizzo Nervo nel suo interessante saggio Il caso Lucky Luciano: “Un cordone ombelicale ha sempre legato la CIA alla mafia e non è mai stato reciso, secondo le prove esistenti. Perché meravigliarsi ora che la Cia possa aver pilotato Tommaso Buscetta in funzione […] anti-Andreotti cioè per l’eliminazione dalla scena politica di una persona invisa, in quel momento storico, ad una fascia ben individuabile della nomenklatura americana? Singolare il fatto che Buscetta risulterebbe arruolato nel 1966 , dopo appena cinque anni dalla morte, per cause naturali, di Lucky Luciano”. Cioè il boss “amico” che gli americani contattarono per organizzare lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943. Vendetta, tremenda vendetta.

LIMITE, il nuovo saggio di Serge Latouche

Dopo l’incomprensibile sterzata a sinistra dell’ultimo anno, Latouche ritorna sui suoi passi ed elabora una riflessione da molti giudicata “reazionaria” perchè legata al concetto di limite. Parola, quest’ultima, invisa a radical chic salottieri, ex sessantottini in bicicletta, cosmopoliti digitali e compagnia cantando. Eppure, o forse proprio per questo, il libro in oggetto è probabilmente il migliore mai scritto dal filosofo di Vannes…

Chi sconfinava nell’illimitatezza, scriveva Alain Caillé riprendendo un caposaldo del pensiero greco, “doveva essere ostracizzato, escluso dalla città, perché per la città niente è più pericoloso dello scatenamento della hybris”. Ove hybris è parola che indica la smodatezza, la dismisura, l’insaziabile desiderio di essere sempre più di ciò che si è. Quella che nel mondo antico si prefigurava come una anomalia, seppur frequente, punita dagli dei, nella modernità assume i tratti della regola, dell’imperativo categorico da non disattendere mai. Da qui, l’inevitabile rimozione del suo opposto che si potrebbe compendiare in una sola parola, limite, la stessa che dà il titolo all’ultima fatica dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, padre nobile della “decrescita felice”.

Limite  è un agile pamphlet nel quale vengono sciorinati tutti gli ambiti dell’esistenza bisognosi di un confine da ri-tracciare. “In origine – scrive Latouche – il progetto della decrescita si proponeva, più modestamente, di far fronte alla sola dismisura economica, ma oggi si vede progressivamente che questa è il veicolo di tutte le altre”. E, dunque, nel testo, le riflessioni dedicate ai limiti geografici, politici, culturali, economici, morali, conoscitivi, superano largamente quelle legate ai canonici nodi ambientali e finanziari. L’operazione è senza dubbio rischiosa perché sfida le istanze del politicamente corretto: non è più un mistero per nessuno che al banchetto della cultura universale (“che non esiste”, sottolinea) si siano seduti contemporaneamente il capitalismo globale e quei salotti del pensiero “senza frontiere” che, muovendo da “un simpatico umanesimo”, ha attivamente contribuito alla costruzione di “un processo di avanzata decomposizione”. Rifiutando di comprendere che la frontiere non sbarrano ma “filtrano”, rendono possibile l’incontro e lo scambio proprio perché entrambi gli interlocutori portano in dote una specificità e una diversità da porre sul tavolo del dialogo. Il pensiero unico occidentale, in tutte sue facce (quella del liberismo ma anche quella dei diritti), approccia invece l’alterità al solo scopo di soffocarla, soprapponendo le proprie categorie fino a distruggere le precedenti. Un’operazione valoriale che atomizza le coscienze e dissolve le identità sociali finendo per concedere sempre maggiori territori di conquista a quella che Latouche chiama “l’oligarchia plutocratica mondiale”, governo unico di potentati non eletti che riduce gli stati a “prefetti di provincia, onnipotenti nell’applicazione di regolamenti oppressivi ma soggetti ad ordini dall’alto”.

All’individuo solo e inerme, ormai totalmente privo di ogni riferimento, non rimane che affidarsi al potere salvifico della scienza e della tecnologia, le quali, al pari della finanza, rifiutano ogni tipo di regolamentazione e limitazione. La premessa è nella volontà di radere al suolo il già decrepito (per colpa nostra) giardino dell’Eden, “per ricreare il mondo meglio di quanto hanno fatto Dio e la natura”. Naturalmente, la visione di tale capolavoro è di continuo rimandata a data a destinarsi perché, nel frattempo, “il risultato più visibile e tangibile è la trasformazione del mondo reale, quello in cui siamo condannati a vivere, in immondezzaio e discarica”. È, questo, il mero prezzo del progresso o è, piuttosto, l’inevitabile punizione per la nostra hybris?

S. LATOUCHE, Limite  (Bollati Boringhieri, pp. 113, euro 9).

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e barbadillo.it  Reperibile anche su arianna.it