LA PISTA UIGURA PER PUNIRE ERDOGAN. E NON SOLO.

di Marcello D’Addabbo

Per la strage di capodanno avvenuta nel club Reina di Istanbul i media hanno già trovato/fabbricato il colpevole: ragazzo uiguro di anni 25, cittadino cinese combattente Isis. Il sistema mainstream fa da eco alla notizia in tutto il mondo, “è cinese!”. Turcofono ma cittadino della Repubblica Popolare. Un modo per ricordare ai cinesi che il problema ce l’hanno in casa o comunque con ogni probabilità ce l’avranno in futuro se qualcuno, Cia, Mossad, Bilderberg, servizi inglesi, francesi e arabi deciderà che l’ora X della destabilizzazione interna del grande nemico giallo è arrivata. Vecchia storia, quella dell’indipendentismo uiguro, storicamente fondato sull’identità di un’etnia musulmana di religione e cultura e, al pari della minoranza tibetana, sempre oppressa dai cinesi han. Un’avversione secolare, quella tra uiguri e han che ha visto nel 2009 una recrudescenza di violenze in ambedue i campi sfociata in stragi, attentati, repressioni e centinaia di arresti in quello che una volta si chiamava Turchestan orientale, per i cinesi occupanti lo Xinjiang. Già all’epoca l’Occidente non perse occasione di fomentare l’irredentismo uiguro in funzione anti-cinese condannando la repressione attuata da Pechino, mobilitando l’ipocrita comunità internazionale a sostegno della causa. Pochi ricordano oggi che Rebiya Kadeer, a capo dell’organizzazione degli uiguri in esilio, fu accolta a Washington dal Segretario di Stato, portata per mano nei parlamenti di tutta Europa per ascoltarne le ragioni e sostenerne la causa. A Roma fu Emma Bonino, sempre in inquietante concomitanza con gli interessi della Nato – a lanciare l’appello per i diritti violati degli uiguri (dei nuer, naga, yemeniti, iracheni invece se ne infischia), dandole la parola alla Camera. Quando si muove il Dipartimento di Stato la Bonino scatta più veloce di Coppi e Bartali.                                  rebiya_kadeerIl tour in realtà fu ampio, comprendendo il tedesco Bundestag, il Parlamento europeo e – poteva mancare?? – due belle candidature dell’eroina uigura al Nobel per la pace. Ma è con l’Isis che la guerriglia uigura si distingue. Tra le milizie nere del Califfo questa componente etnica fornisce un contributo rilevante per numero di uomini e per la conclamata spietatezza dei suoi guerriglieri. Curioso osservare che la manovalanza più resistente nell’Isis fosse composta da ceceni e uiguri, due componenti accomunate dal progetto del “ritorno in patria”, dopo l’addestramento dei giovani nei deserti siriano-iracheni. Già perchè questa storia non finisce con le colonne dell’Isis in fuga da Aleppo, bersagliate dagli Sukhoi di Putin, ma ha la sua direttrice finale nei califfati da creare in Caucaso e Turchestan orientale, con l’aiuto di questi esperti veterani, al fine di destabilizzare i due avversari di Washington. Questo almeno è nelle menti degli ambienti che volevano la Clinton alla Casa Bianca e che ora cercano di infangare l’elezione di Trump con l’aiuto di media ormai ampiamente screditati. Ma tutto questo Putin e Xi Jinping lo sanno perfettamente e seguono il romanzo ceceno-uiguro con estrema attenzione cercando di anticipare mosse. Al momento è la Turchia l’avamposto problematico, il tradimento di Erdogan alla Nato è punito con una lunga scia di sangue. Una sequela di morti che sta tormentando la Turchia da anni e che ha visto un’escalation a partire dal fallito golpe turco dello scorso 15 luglio.
Ora si attacca la Turchia laica filoccidentale e festaiola che volta le spalle all’oscurantismo sunnita in voga per festeggiare un capodanno in discoteca indossando abiti occidentali ordinati via web. Chiuso l’accesso all’Ue, alla Sublime Porta che ha imboccato la via dell’est non è concessa alcuna aspirazione al modo di vivere occidentale e a mitragliare i sudditi del sultano Erdogan al club Reina di Istanbul è un professionista in tuta bianca, consumato tiratore di precisione che riesce a fuggire vivo (!), uno che tutti devono credere uiguro. Il messaggio è arrivato. Langley akbar!

IL CASO KARAN. Morire dalla parte sbagliata per dare un senso alla vita

karanBurak Karan, origini turche e natali in Germania, era un centrocampista difensivo di discreto valore con un passato nelle nazionali giovanili tedesche. Poteva vivere di calcio, senza magari arrivare ai livelli dell’amico Boateng, ma disegnando comunque una carriera dignitosa con tutto l’implicito codazzo di benefit annessi e connessi: donne, macchine, soldi. E invece Burak ha preso a navigare in rete cercando, sempre più fanaticamente, notizie sull’evoluzione dei combattimenti siriani al confine con la “sua” Turchia e lì si è recato, con folta barba jihadista, per partecipare alla guerra santa in svolgimento. E sempre lì ha trovato la morte, lo scorso ottobre, sotto le bombe sganciate dall’esercito di Assad.

Questa è la notizia in tutta la sua scarna essenzialità e, a dire il vero, sembra costruita apposta per un bel titolo giornalistico ad affetto. Ammettiamolo pure. Se Burak non fosse stato un calciatore, non se lo sarebbe filato nessuno. Esattamente come nessuno si fila tutti i ragazzi tedeschi, francesi ed anche “italiani” – o almeno qui residenti -, che partono dalle locali comunità salafite per andare in Siria ad ingrossare le fila dei ribelli fondamentalisti sunniti. Un dato che non dovrebbe sorprendere perché la pesca in Occidente non richiede particolari sforzi d’ingegno. Cosa vedono questi ragazzi intorno a loro? La paccottiglia agonizzante della civiltà dei consumi, il Papa che paga l’albergo, la politica destituita di ogni senso e funzione, gli orizzonti culturali chiusi dietro l’uscio di un reality show. E così, un giorno come un altro, nel silenzio di una moschea, per strada o nel dotto cicalare di un corridoio universitario, qualcuno ti intercetta, si accosta e dice: “Vuoi dare un senso alla tua vita e fare qualcosa di veramente grande? Vieni a combattere in Siria, sul fronte dei ribelli”. Naturalmente, il Lucignolo barbuto omette di specificare che la guerra in oggetto è caldeggiata da americani e israeliani e che ci si troverà a morire sullo stesso fronte del Grande Satana. Le forze dell’Islam sano sono da tutt’altra parte. Ma queste cose è meglio non dirle, perché il cortocircuito sarebbe un po’ troppo complesso da spiegare. Basta una illustrazione bigotta e scarna, da breviario maoista, sulla divina opportunità di questa guerriglia fondamentalista permanente e si parte. Verso la morte e oltre.

Quando poi la morte arriva davvero, come nel caso di Burak, la retromarcia è totale: “Era lì per attività umanitarie”, è stato detto. Ma il suono di queste parole ha ormai la stessa stanca monotonia di una vecchia tarantella che non fa ballare più nessuno. E ci riporta alla mente, proprio in riferimento a diritti umani et similia, la magra figura dell’organizzazione “Medici senza frontiere” (MSF) – Premio Nobel per la Pace nel 1999 – e del suo co-fondatore Jacques Beres, tornato in Francia dopo due settimane trascorse in Siria, ove si era precipitato per portare clandestinamente soccorso al fronte ribelle. Immaginandolo (ancora) composto da studenti, donne, operai, intellettuali. E invece si è ritrovato a dover curare, in buona parte, i fondamentalisti di Al Qaeda: “È qualcosa di davvero strano da vedere” ha dichiarato, pensoso, rilasciando una intervista alla Reuters nel settembre 2012.

Un curioso sgomento, il suo, dato che il Guardian, già due mesi prima (luglio 2012), aveva messo in guardia il mondo su quanto stava accadendo. Sarebbe stato sufficiente perdere qualche istante ad informarsi, invece di partire in quarta con il sole in fronte e la verità in tasca, a rischio di divenire un collaborazionista dei terroristi più efferati (si è addirittura parlato di una “interferenza criminale” di MSF). Dispiace, ma ignorantia non excusat. Al massimo, e con grande fatica, possiamo comprendere Burak Karan in virtù di quel vuoto spaventoso che fa sbandare ogni giorno la sua generazione. Gli altri no.

*Pubblicato su barbadillo.it