LA QUERCIA, LA PALMA E LA STEPPA

di Leonardo Petrocelli

L’episodio, ormai, è noto ai più. Il padano rinsavito Matteo Salvini ha incoronato governatore della Sicilia il musulmano Pietrangelo Buttafuoco. E tutti e due si sono beccati gli aspri rimbrotti dell’occidentalista Giorgia Meloni, quella che scambiò per simbolo dell’invasione islamica a Roma una indicazione in arabo per ricordare l’avvento dell’Expo di Milano (eh sì, troppa Fallaci fa male…).
Ora, la questione centrale, posta involontariamente dall’inedito battibecco dialettico, non è legata all’opportunità di candidare o meno il novello Giafar al-Siqilli che, oltretutto, ha già rifiutato. Di base non ci affascina particolarmente la suggestione, un po’ radical e un po’ mediatica, del poeta/letterato al potere (ci è bastato Vendola, grazie), ma nemmeno pronostichiamo un suo sicuro fallimento. Anzi, sono particolarmente gustosi i racconti che, in questi giorni, hanno popolato la rete con Giafar intento a rendere la Sicilia un prospero crocevia del Mediterraneo e la Meloni, schiumante rabbia, intruppata nell’inviperito fronte neocon. Tutto molto divertente, seppur un po’ troppo condiscendente verso il Pietrangelo insulare che, da brava icona delle giovani e devote penne della destra rampante, in queste occasioni passa all’incasso con grande facilità. Forse troppa. E tuttavia il punto non è questo.
A segnalarsi per la sua enormità è la confusione che ormai esplode quotidianamente sotto il cielo d’Italia, ma anche nel buio ideale del suo sottosuolo. Perché quella delle “radici” è diventata una lotteria a tema libero in cui ognuno proietta se stesso invadendo con la propria ombra da pigmeo l’enormità immateriale della Terra degli Avi. Tutto viene riscritto e riletto in modo da rendere ovvia, fisiologica, consequenziale e identitaria una scelta completamente individuale e avulsa dal contesto. Se una quercia vuol fingersi palma, chi può impedirglielo? Il problema è pretendere che tutto il bosco reputi la metamorfosi naturale solo perché un saraceno, mille anni fa, passò di lì. Proprio come la quercia dell’esempio, Buttafuoco non può fare a meno di convertirsi all’Islam senza però tirarsi dietro l’intera Sicilia e senza evocare la dominazione islamica dell’isola quale “esempio più alto di civiltà del Mediterraneo”.
State tranquilli, non ci attarderemo nell’apparecchiare una lezioncina di storia. Su internet, in questi giorni, ne sono fiorite a decine e tutte identiche. Ci ricordano che la Sicilia, italica e indoeuropea, fu dominata dagli arabi per appena due secoli e non senza spargimenti di sangue ed eroiche resistenze come quelle del Val di Noto e del Val Demone che caddero solo dopo quindici anni di straziante lotta. Poi, scaduto il loro tempo, gli invasori furono ricacciati in mare, lasciando dietro di sé una popolazione demograficamente irrilevante ed una eredità che, per incidenza e possibilità proiettive, in nulla ricorda, ad esempio, quella della Bosnia musulmana. Una parentesi, insomma, e di certo non la più alta nella composita storia del Mare nostrum.
Tutto questo, ne siamo convinti, lo sa benissimo anche Buttafuoco la cui conversione non ci scandalizza né ci indigna. Al contrario, in ossequio al quel vecchio adagio secondo cui un’azione imperfetta è preferibile ad uno sproloquio perfetto, chi prega cinque volte al giorno rivolto verso la Mecca è certamente degno di maggior considerazione rispetto a chi, impastato di letture esoteriche, tutto esaurisce nella dimensione libresca e ciarliera senza concedere nulla al culto o al rito. Ma, nonostante ciò, la questione resta. Due secoli di dominazione straniera su oltre tremila anni di storia non cristallizzano una identità né egemonizzano le radici dell’albero. Dirsi saraceni in quanto figli di Sicilia è un artificio giustificazionista destituito di ogni fondamento epperò indicativo di una tendenza che potrebbe affermarsi nel medio periodo. Il cortocircuito è politico, intellettuale e religioso e coinvolge tutti coloro che vorrebbero costruirsi una identità definita armonizzando ogni aspetto dell’esistenza. Il cammino che porta dalla lettura di Guenon alla conversione all’Islam, passando per le canzoni di Battiato e una comprensibile ammirazione verso l’Iran della Rivoluzione, è per alcuni vera tentazione. Così come lo è un’altra infatuazione che lentamente inizia a consolidarsi: quella per il Cristianesimo ortodosso. Questa volta si passa per il sovranismo di Putin, i libri di Dugin, le bandiere zariste, le gesta del comandante Strelkov e la frontiere dell’Eurasia. Nei tempi del deserto dell’Essere ogni goccia d’acqua è un’oasi da eleggere a dimora, nonostante essa incarni la fuga verso mondi altri cui si cerca di legare indissolubilmente il proprio per giustificare se stessi. Coprendo, con quello che passa il convento, il fuoco indoeuropeo e precristiano dei Padri.
D’altro canto, la novella che giunge dai cantori dell’Occidente politico non è meritevole di più alta considerazione: il “padanesimo” leghista rifluito nel culto incapacitante delle micropatrie o il nazionalismo ottocentesco e risorgimentale, riattualizzato da un lepenismo laico o blandamente cattolico, non sono che residui, rigurgiti o riedizioni di quel processo modernista e sovversivo che oscurò l’anima vivificante dell’Occidente. La potenza civilizzatrice di Roma innalzò un Ordine millenario nel disordine delle genti barbariche (altro che la Sicilia saracena…) e pose se stessa come riferimento senza tempo per ogni fioritura nell’Universale. E ora che il mondo della tecnica e del progresso degenera nel caos orgiastico della propria follia, è ancora a quel mito seminale che serve far ritorno per dissipare le ombre della dissoluzione.
Quindi, cari signori, voi tessitori di tappeti e incanti d’Oriente o isterici neocon arruolati nella caccia (americana) al moro, voi che cercate salvezza nei bonzi del Tibet o nei monaci barbuti delle steppe, siete tutti rimandati a settembre. Ci rivediamo a Delfi. Tema della prova di riparazione: “Conosci te stesso”. Apollo vi giudicherà.

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