LA POLITICA ESTERA, QUESTA SCONOSCIUTA

di Gaetano Sebastiani

Fateci caso. Nel nostro Paese, i dibattiti su questioni di politica estera sono una rarità. Durante i tiggì, ad esempio, gli “esteri” sono spesso piazzati a fine trasmissione e occupano uno spazio esiguo (inferiore persino al gossip); nei programmi di approfondimento, in prima e seconda serata, è difficile imbattersi in una discussione sul ruolo dell’Italia nel mondo; per non parlare dei principali quotidiani, dove l’ampiezza massima dello sguardo internazionale si raggiunge con le pseudo-beghe tra Renzi e l’Europa. A parte le riviste specializzate e qualche esperto che sulla rete si impegna ad allargare l’orizzonte dell’utente medio, non c’è molta carne al fuoco. E da questo quadretto mortificante non va esclusa la nostra cara classe politica che contribuisce con approccio provincialotto ad aumentare il livello di inconsapevolezza delle masse.
Proprio dalla politica, invece, ci si aspetterebbe una maggiore attenzione alle questioni estere, perchè nel contesto globalizzato e globalizzante in cui viviamo conoscere e capire i movimenti degli altri paesi sullo scacchiere internazionale significa determinare in maniera considerevole la propria azione interna. Significa, cioè, organizzare in maniera più conscia una strategia geopolitica sulla base dell’interesse nazionale che consenta alla forza politica che la esprime di dare un senso di maggiore compiutezza alla propria weltanschauung.
In Italia, partiti che abbiano compreso l’importanza di questo principio pare non ve ne siano. Non suscita alcuno stupore l’applicazione di questa considerazione alla principale forza di governo. Osservando il comportamento dell’esecutivo, infatti, sembra che la strategia geopolitica di cui sopra non venga elaborata al proprio interno, ma pare dettata direttamente da Washington. Non è un caso che tra le amicizie stars and stripes più prestigiose di Matteo Renzi ci sia un certo Michael Ledeen, uno dei massimi pontefici del Nuovo Ordine Mondiale. La decisione di prendere parte alle sanzioni contro la Russia – nonostante il prevedibile danno a moltissime imprese italiane -, così come i più recenti accordi con i nostri “partner strategici” sull’utilizzo della base di Sigonella sono due esempi di appiattimento totale sugli interessi americani. Per non parlare della doppiezza (o meglio sarebbe dire mollezza) con cui si fronteggia l’influenza sempre più schiacciante della Germania sulle sorti europee. Tutto ciò nulla ha a che vedere con il frutto di una ragionata strategia nazionale in politica estera.
Maggiore perplessità suscita, invece, l’assenza di una coerente visione sul mondo da parte delle principali forze di opposizione. Il non avere responsabilità di governo e dunque il non essere sottoposti alla pressione dei poteri dominanti, dovrebbe consentire a Lega e M5S di avere mani libere su questo tema. Ma in questo, come per altri casi, alla nomea di forza “populista” non corrisponde un’altrettanto prorompente strategia geopolitica.
La Lega, ad esempio, aveva inaugurato la sua fase salviniana con un confortante attacco alle istituzioni europee ed alla moneta unica in particolare, seguito da un ottimo riscontro elettorale durante le ultime consultazioni per il rinnovo del parlamento di Bruxelles. Ma quella spinta propulsiva (corroborata da una piattaforma studiata con l’apporto di importanti economisti quali Borghi e Bagnai) è andata via via scemando a causa di un’attenzione eccessiva nei confronti del fenomeno migratorio. Non si discute la portata del problema, dunque ben venga un monitoraggio costante su di esso, ma spesso il Carroccio lo ha affrontato sulla base di considerazioni demagogiche, allineate ad una vulgata occidentalista molto utile al mantenimento dello status quo. Come con l’episodio della visita del presidente iraniano Rohani: le dichiarazioni del leader padano entrarono immediatamente in sintonia con i tipici motivetti del pensiero unico…
Alla Lega va riconosciuto, quanto meno, il merito di aver criticato le sanzioni contro la Russia, ma l’opposizione a tali decisioni scriteriate è stata sempre espressa sulla base di considerazioni di convenienza economica nazionale, senza sottolinearne il valore politico. Sarebbe stato opportuno riconoscere nelle sanzioni un attacco a Putin ed alla sua strategia sovranista da un lato e dall’altro l’ennesimo segnale di asservimento degli stati europei alle logiche mondialiste americane.
Discorso a parte merita il M5S. Sulla politica estera il movimento fondato da Grillo non ha quasi mai esplicitato delle posizioni nette e chiare. Soprattutto non è mai emersa una visione organica sul ruolo che un’Italia a guida pentastellata avrebbe nel mondo. Alcune contraddizioni in questo senso sono emerse già all’epoca delle elezioni europee, quando il tema della moneta unica fu lasciato nelle mani di Salvini, con i risultati che tutti conosciamo. Si è cercato di recuperare terreno con la proposta del referendum per l’uscita dall’euro, ma tale progetto ancorchè avesse un valore meramente simbolico non ha avuto alcun seguito concreto e rimane uno dei tanti “vorrei ma non posso” del movimento.
Come la posizione nei confronti della NATO. Neanche il pur lodevole convegno organizzato in parlamento a fine gennaio sul ruolo odierno di questa organizzazione internazionale ha chiarito in maniera definitiva la posizione dei pentastellati, i quali oscillano tra critiche di tipo pacifista e considerazioni di opportunità tattica. E ancora, sarebbe interessante scoprire quali frutti stia portando la discussa alleanza con Farage in Europa. I cinque stelle sono a favore di un ritorno ad una maggiore sovranità nazionale, come il leader di UKIP coerentemente professa da sempre, oppure le istituzioni europee vanno preservate perchè indietro non si torna? E con la Russia che si fa? Le si riconosce un ruolo di grande attore sullo scenario internazionale, o va ridimensionato, o peggio marginalizzato perchè non si adegua ai “valori occidentali”?
L’odierno quadro internazionale, in continua evoluzione (o se volete, involuzione), ricco di colpi di scena, ambiguità e disastri, imporrebbe ad una forza politica radicalmente alternativa alla desolazione imperante l’elaborazione di un piano d’azione capace di stabilire in maniera inequivocaile la collocazione del nostro Paese nel mondo e farlo uscire dall’abisso in cui è precipitato insieme a tutta la civiltà occidentale.
Sarebbe opportuno fondare questa strategia su quattro pilastri fondamentali: uscita dall’euro, uscita dall’Europa, uscita dalla NATO ed infine, alleanza politico-economica con la Russia e con tutti gli altri Paesi continentali che propugnano una visione sovranista. A quanti altri attacchi terroristici dobbiamo assistere, quante altre crisi finanziarie e false riprese dovremo vivere, quanti altri furti di sovranità dovremo subire, quanta omologazione spirituale, culturale, identitaria dovremo ingurgitare, prima di riprendere in mano il nostro destino?

LA STAMPELLA A 5 STELLE DEL GOVERNO

di Gaetano Sebastiani

Il passo “di lato” di Beppe Grillo nella gestione del Movimento coincide con una fase molto particolare della vita politica italiana. La scena, in questa giorni, è dominata dalla discussione sul ddl Cirinnà, quello che consentirebbe l’introduzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, con tutti i suoi annessi e connessi dal sapore anglosassone (vedi “stepchild adoption”) che fa sempre molto chic e funge da edulcorante esterofilo per indorare la pillola su concetti altrimenti più difficili da ingurgitare.
Qui non intendiamo addentrarci sulle questioni ideologiche che animano questo dibattito, ma vorremmo piuttosto far emergere le ambiguità di una forza politica, il Movimento 5 Stelle appunto, che rispetto al tema delle unioni civili sta mostrando un approccio contraddittorio e controproducente. Perché il convinto endorsement dei pentastellati al ddl determina, a nostro avviso, errori di metodo e di merito non trascurabili.
Quanto al primo punto, è noto ai più che tutte quelle iniziative non esplicitamente previste dal programma devono essere sottoposte al vaglio della rete. Il voto degli iscritti è la bussola con la quale i rappresentanti grillini dovrebbero muoversi nei meandri della vita parlamentare. É l’applicazione dei tanto reiterati principi dell'”uno vale uno” e della “democrazia dal basso”. Ebbene, nel caso delle unioni civili un’azione in questo senso c’è stata, ma il web non ha avuto modo di esprimersi in maniera corretta. Il 28 ottobre 2014, infatti, si svolse una consultazione on-line che riguardava le unioni civili in maniera esclusiva, senza cioè considerare le adozioni, l’omogenitorialità, insomma tutti quei temi più spinosi che l’attuale ddl ha messo sul fuoco. Sebbene l’esito di quella votazione fu un plebiscito per il “sì”, sorsero polemiche per le modifiche in corso di consultazione del testo del quesito, generando confusione tra i votanti circa il reale valore della loro preferenza: solo unione civile o schierarsi anche per l’adozione?
A distanza di più di un anno e con l’irruzione nel dibattito nazionale di una proposta di legge che abbraccia aspetti più dirimenti e delicati si sarebbe dovuto ripetere il voto, nel rispetto delle regole senza lanciarsi in entusiastiche adesioni (il ddl va votato “così com’è”, secondo Di Maio). In questa circostanza, non si può neanche addurre la giustificazione dei tempi tecnici dei lavori parlamentari, come giustamente in altre occasioni è stato fatto (la rete per quanto rapida non può sempre essere al passo con le necessità istituzionali), perché il dibattito sulle unioni civili nel nostro Paese si protrae da molto, seppure ad intensità variabile, e ci sarebbe stato tutto il tempo per consultare la base e produrre una posizione ufficiale più in linea con i principi del Movimento.
E poi c’è la questione di merito o di opportunità politica. Il Movimento ha ottenuto grandi consensi a livello nazionale al grido di “tutti a casa”. Apparentemente, uno degli obbiettivi principali di questa forza politica è provocare una frattura con l’attuale classe dirigente o con un metodo stantìo di fare politica. Approfittare delle debolezze altrui, anche se machiavellico, può essere una buona strategia per ottenere il tanto agognato (ed utopico) 51%.
Dunque, in un periodo in cui Renzi ed il suo governo sono costretti a fronteggiare scandali bancari con riemersione di faccendieri massoni piduisti, ad inseguire alleanze parlamentari con personaggi (anch’essi piduisti!) invisi a buona parte del partito ed alla base, a giochi di puro equilibrismo statistico per giustificare una ripresa economica appena rivista al ribasso dai tecnocrati internazionali, ad alimentare beghe con i vertici dell’eurocrazia per puri scopi propagandistici interni, a coprire gli ennesimi coinvogimenti delle amministrazioni locali a guida PD con mafia, camorra et similia… A fronte di tutto questo (ed altro), non sarebbe il caso di dare un ulteriore colpo, votando contro il ddl Cirinnà insieme alle altre opposizioni e “mandare sotto” un governo che agli occhi dell’opinione pubblica – condizionata dalla propaganda di regime – sembra una macchina inarrestabile?
Se i grillini pensano che appoggiare questa legge possa dar loro l’immagine di fautori di questo “grande passo verso la civilità” (sic!), cioè verso l’omologazione globalista e genderista ed estendere il consenso fuori dai confini abituali, si illudono grandemente. Perché, in caso di approvazione, la grancassa mediatica spalmata sul renzismo più bieco farà del leader fiorentino l’uomo della svolta storica, il primo politico ad aver abbattuto il muro dell’ignoranza e dell’arretratezza culturale italiana ed a scagliarci verso lidi di progresso morale e civili mai sfiorati prima! Insomma, lo dipingeranno come un vero e proprio eroe. Ed il ruolo dei pentastellati in tutto questo sarà marginalizzato, banalizzato o peggio dimenticato, perchè il merito principale è sempre del partito promotore e quindi del suo leader che mediaticamente ha sponsorizzato la causa.
Svolgere il ruolo di stampella del governo in un contesto di oggettive difficoltà poc’anzi descritto e per una legge che soddisfa una fetta di popolazione rumorosa (ma non maggioritaria, fino a prova contraria) sembra francamente un autogol clamoroso per una forza che ha come stella polare il motto “mandare tutti a casa”. A meno che per il Movimento inseguire i diktat europoidi che ci rimproverano ritardi sui “diritti civili” sia diventato più importante che abbattere un esecutivo incapace di risolvere i problemi più urgenti di questo Paese. In tal caso bisognerà prenderne atto e considerare i propositi antisistema a 5 Stelle mera propaganda, un po’ come si fa con le forze politiche che loro stessi vorrebbero combattere.

LA VERITÀ È ONLINE. MA LA RIVOLUZIONE DOV’È?

di Leonardo Petrocelli

Aveva ragione lo stratega Zbigniew Brzezinski quando, parlando al Forum Europeo per la Nuove Idee nel 2010, disse: “La presa di consapevolezza collettiva ed i social network sono una minaccia per lo sviluppo dell’agenda globale”. È vero. Chiunque, anche l’essere più svogliato della galassia, si faccia un giro online potrebbe rapidamente apprendere verità un tempo appannaggio dei pochi indiani della riserva ed oggi reperibili da tutti a mezzo click. Potrebbe scaricare facilmente (e gratuitamente) un libro del prof. Giacinto Auriti o ascoltare uno dei suoi tanti video per comprendere la truffa usuraia del signoraggio. Potrebbe, con poco impegno, ricostruire la genesi ed il mostruoso funzionamento di quella macchina di segregazione dei popoli che è l’Unione Europa. Potrebbe, ancora, orientarsi agevolmente negli oscuri meandri della geopolitica americana, in quella galleria degli orrori a due corsie – dem e neocon – che ogni giorno precipita il mondo nel Caos belligerante. Potrebbe, infine, capire cos’è il mondialismo e come si estrinseca il suo lungo lavorio di distruzione delle identità e di costruzione dell’uomo liquido, indifferenziato e meticcio. Quello, insomma, che si governa con un post.
Dobbiamo continuare? Il punto è chiaro. Nonostante si cerchi di declassare l’operato della controinformazione etichettandolo come becero complottismo o si cerchi di sporcarne il valore inquinando i ponderati ragionamenti con le sciocchezze più ridicole (rettiliani et similia), la verità è online. È lì, in bella mostra, gratis, alla portata di tutti e, a volte, raccontata perfino in un buon italiano. Proprio come temeva e teme Brzezinski. E allora perché la rivoluzione non c’è? Se si punta il dito sulla complessità delle tematiche in oggetto e quindi sulla relativa capacità di comprensione dell’uomo della strada, si può far agevolmente notare come vi siano anche motivi più mesti e più bassi del signoraggio per ribellarsi. Non vi indigna l’ingordigia della casta? Non vi fa ribollire il sangue essere vessati da tasse e balzelli insopportabili? Non vi sconvolgono la disoccupazione galoppante, l’insicurezza perenne, il malaffare diffuso? Evidentemente no, perché pur abbassando di migliaia di chilometri il livello della discussione fino a lambire questioni perfettamente note a chiunque, anche all’idiota più idiota del villaggio globale, la questione rimane identica: la rivoluzione non c’è.
Qualcuno lamenta l’assenza di un capo, un leader, una guida, un tribuno della plebe capace di governare le folle iraconde, fornendo a tanto malumore una precisa direzione operativa. Qualcun altro, più avvertito, invoca l’avvento di una élites portatrice di una visione del mondo verticale – non solo politica, economica e militare, quindi, ma prima di tutto spirituale – che conduca i popoli alla battaglia finale senza limitarsi a rimestare torbidamente nel ribollire tellurico delle masse. In ogni caso, dipende dagli altri. Da quelli che sicuramente sanno, probabilmente possono, di sicuro dovrebbero, ma non si muovono. Se ne stanno nascosti, chissà dove, a fare chissà cosa. Ma è davvero così? Riesumiamo un inflazionato proverbio giapponese molto utile alla discussione nella misura in cui, si capirà subito, la rovescia: “Quando l’allievo è pronto, il maestro appare”. Ormai forte è infatti il sospetto che condottieri ed élites non riescano ad operare – nonostante il momento propizio – perché la sostanza umana cui dovrebbero rivolgersi non è adatta a riceverne la spinta, né in orizzontale né, tantomeno, in verticale. Il maestro non appare perché l’allievo non è pronto.
Cosa gli manca? Non la consapevolezza, come abbiamo visto. E nemmeno la rabbia. Gli manca una virtù prepolitica senza la quale ogni sollecitazione è vana: il coraggio. E non un coraggio ideale, astratto, intellettuale, ma il coraggio fisico del guerriero. Lo spettacolo dell’umanità di Colonia è stato disarmante e bene ha fatto Buttafuoco a ricordare la rivolta dei Vespri siciliani, infiammatasi dopo l’oltraggio di un invasore francese ad una donna del luogo, morbosamente perquisita in pubblica piazza. Oggi, nella pubblica piazza 2.0, centinaia di donne sono state oltraggiate nella tremebonda immobilità e nel pavido silenzio di mariti, fidanzati, fratelli, padri. Magari sono quelli che affollano le palestre, trascorrono ore a rimirarsi i bicipiti gonfi, si esaltano guardando e riguardando il film 300, riempiono di spacconate i discorsi al bar, passano la giornata a scrivere sui social “cacciamoli a pedate!” e poi al momento del dunque, quando suonano le fanfare della battaglia, quella vera, dove rischi di prenderti un coltello nella pancia o di farti linciare dalla folla ostile, si squagliano come neve al sole. Sono quelli che un recente video di propaganda russo ha definito “i comandati dai divani” cioè i cuor di leone che, su internet, invitavano Putin a invadere l’Ucraina e che poi se la serebbero fatta sotto al primo squillo di tromba. Sono gli stessi. Assenti, spariti, non pervenuti. Come quel tedesco cui a Colonia hanno palpeggiato moglie e figlia quindicenne che ha dichiarato a “Repubblica” di averle perse di vista “proprio in quella mezz’ora”. Ohibò, che sventurata casualità. E come lui tutti gli altri, immaginiamo, perché atti di coraggio e resistenza non sono pervenuti alle cronache. Qualcuno è stato pestato, è vero, ma non in risposta ad una reazione bensì allo scopo di rubargli lo smartphone per il quale, chissà, magari avrà provato a combattere (non ci stupirebbe).
L’unico atto di coraggio di tutta la serata sembra sia da ascrivere a tal Ivan Jurcevic, 44enne campione mondiale di kickboxing con i suoi 130 kg spalmati su una altezza di oltre due metri. Bella forza, direte voi. Così è facile. E infatti la questione qui va ribaltata. L’apparizione del campione non ha affatto scoraggiato gli aggressori: caduto il primo, caduto il secondo e pure il terzo, il quarto non ha esistato a farsi avanti. Sapeva che sarebbe stato messo al tappeto in un battito di ciglia ma, nella sua bestiale foga, c’ha provato lo stesso. Ecco, questo è quello che avrebbero dovuto fare imbolsiti mariti, smunti fidanzati e gracili fratelli: provarci lo stesso. Di fronte ai palpeggiamenti, ai tentati stupri, alle molestie avrebbero dovuto provare a combattere senza indugiare in calcoli sulle probabilità di vittoria, ma semplicemente animati dalla volontà di agire. E difenderle. Magari il tentativo sarebbe costato loro la vita o, alla meglio, un brutta figura, ma se si avesse una minima dimestichezza con l’onore e il coraggio si saprebbe che, a volte, è d’obbligo buttarsi nel fuoco. Ad ogni costo.
Lo stesso, mutatis mutandis, è accaduto a Parigi quando un numero esiguo di terroristi ha fatto irruzione al Bataclan sparando su una folla di oltre mille persone. Vogliamo dire l’indicibile? La folla avrebbe potuto neutralizzarli semplicemente correndo verso di loro e travolgendoli. E invece niente. Tutti a terra, nascosti, paralizzati, con la testa fra le mani e la coda fra le gambe, mentre gli stragisti, per ben tre volte, ricaricavano le armi certi che nessuno li avrebbe disturbati. Anche stavolta nemmeno chi aveva appena visto un amico o un parente morire, magari un figlio, un fratello o l’amore della propria vita, ha trovato ragioni sufficienti per scagliarsi contro gli assassini del proprio caro. Non per stenderli o disarmarli, ripetiamo, non è questo che si pretende, ma almeno per onorare l’umano e irrazionale istinto di lanciarsi in battaglia per fargliela pagare.
Particolarmente grama, a questo proposito, sarà stata la giornata di quei colleghi cui i direttori di testata hanno deciso di commissionare un pezzo difficilissimo: elencare e descrivere tutti gli atti di coraggio nella notte parigina delle stragi. Leggeteli questi articoli e compatite i poveri giornalisti armati di microscopio e partiti alla caccia di storie che non sono mai avvenute. Certo, c’è la vicenda del ragazzo che ha aiutato una donna incinta a tirarsi su dal cornicione cui si era aggrappata (e capirai…) o di quel congolese che si è immolato per salvare l’amica cui erano destinati i proiettili dei terroristi. Sì, d’accordo, ma l’elenco è già finito. Al punto che i poveri cronisti, pur di riuscire a riempire gli spazi loro assegnati, hanno dovuto nobilitare a gesto eroico anche le parole di quel fidanzato che, stringendo la mano della propria amata, le ha sussurrato, più spaventato di lei: “Vedrai che andrà tutto bene”. Ecco, in questo siparietto da teen-drama c’è l’acme del coraggio europeo. Un coraggio acquoso, femmineo, passivo che nulla ha di attivo o di virile. Come ha acutamente notato Maurizio Blondet, l’Europa è femmina e si vede. E la si può molestare senza problemi. Perfino l’atto più audace, all’interno di questa categoria, cioè quello del ragazzo congolese, porta la firma di un non-europeo. Diversamente, gli atti di vigliaccheria, sapientemente non riportati dai giornali, sono tutti nostri e di alcuni abbiamo testimonianza diretta. Sono storie miserabili di fidanzate abbandonate sul ciglio della strada dai consorti terrorizzati o di anziani calpestati da baldi giovanotti in fuga. È la vergogna di ciò che siamo diventati dopo decenni di “pace”, di abbrutimento nel benessere economico, tecnologico e intellettuale. La Storia ci ha sorpresi appisolati sul divano e i riflessi sono lenti, la pancia è gonfia, gli occhi stanchi e il coraggio ce l’ha solo il nostro avatar su Second Life. E nonostante i fatti di Colonia e Parigi ci abbiano, purtroppo, fornito recenti e plastici esempi, non serve andar troppo lontano per dimostrare la validità del teorema. Scriveva Massimo Fini: “Se capita qualche volta che uno stupro tentato nel pieno centro di una città o una rapina vengano sventate dall’intervento di qualcuno, questo qualcuno è, di solito, un albanese, un rumeno, uno slavo. Gli italiani si voltano dall’altra parte, fingono di non vedere, subiscono. Perché albanesi, romeni, slavi hanno conservato una vitalità che noi abbiamo perduto nella grascia del benessere. Questo è un Paese in cui nessuno è più disposto non dico a correre dei rischi fisici affrontando un malfattore, ma nemmeno a inzaccherarsi le scarpe. Un paio di scarpe firmate valgono più dell’onore”. Non serve aggiungere altro.
O forse sì perché adesso che l’Occidente può rimirare quotidianamente la propria immagine tremolante riflessa nello specchio della Storia, ritrova pieno significato la lezione di un film di qualche anno fa. Visto e rivisto, apprezzato, citato e ricordato da tutti. Ma forse mai capito fino in fondo da nessuno. Parliamo di Fight Club (1999) di David Fincher, con Brad Pitt ed Edward Norton, tratto dall’omonimo e ben più modesto romanzo di Chuck Palahniuk. Scavalcando tutte le pur essenziali implicazioni psicologiche, visionarie e socio-politiche della pellicola, la storia ci indica con chiarezza il basamento formativo di una avanguardia sovversiva dedita all’abbattimento del sistema. Come fa il protagonista Tyler a gettare le basi della rivoluzione? Mette su una scuola di partito o una accademia del pensiero? Tiene conferenze, impartisce lezioni, espone complessi ragionamenti geopolitici in tre lingue? No, non subito almeno. Tutto parte da quelli che la polizia definisce i “circoli clandestini della boxe”, sudici scantinati dove impiegati, avvocati, disoccupati, camerieri, manager, spazzini, studenti si incontrano ogni sabato sera per darsele di santa ragione. E non certo per imparare a combattere o per inanellare il più alto numero di ko. Non è una competizione. Vincere o perdere non conta nulla. Conta mettersi alla prova, uscire dalle spire narcotizzanti del comfort, ritrovare il coraggio dello scontro fisico che, poi, è un modo per ritrovare se stessi, per alimentare qualla fiamma che, assediata da un oceano di parole e megabyte, ancora balugina nell’animo di qualcuno.
In quest’ultima frase c’è il senso ultimo del nostro ragionamento. L’esempio ha infatti una portata evidentemente limitata nella misura in cui – nella storia – i fight club presiedono, sostanzialmente, alla formazione di un gruppo terroristico. Non è questo che ci interessa e ci mancherebbe. Così come non ci appassiona le violenza per la violenza, l’inutile aggressività fine a se stessa, dannosa e pericolosa quanto la codardia. Se non di più. Il punto è comprendere come la consapevolezza sia nulla senza il coraggio, anche fisico, oltre che intellettuale e politico, di tradurre il pensiero in azione.
Sarà forse per questo che, anche insconsciamente, la magistratura italiana – spalleggiata da politici e scribacchini – persegue ferocemente coloro che hanno osato opporre resistenza ad una banda di ladri entrati in casa? Perché tanto accanimento pur sapendo che, così facendo, finiranno per regalare vagonate di voti all’odiato populista Salvini? Forse perché, più che di Salvini, il Potere ha paura di voi. O meglio, del coraggio che potreste ritrovare se messi alle corde. Quindi, suggerendovi che la giustizia italiana finirebbe per rivelarsi più feroce dei ladri, vi inducono a nascondervi sotto il letto e a pregare per il meglio. In caso di rapina o in caso di Legge Fornero. Il trucco è tutto qui: un lupo può anche comprendere cosa gli accade intorno ma se si comporta da chihuahua non cambierà nulla. Nonostante la verità sia online.