LA VERITÀ È ONLINE. MA LA RIVOLUZIONE DOV’È?

di Leonardo Petrocelli

Aveva ragione lo stratega Zbigniew Brzezinski quando, parlando al Forum Europeo per la Nuove Idee nel 2010, disse: “La presa di consapevolezza collettiva ed i social network sono una minaccia per lo sviluppo dell’agenda globale”. È vero. Chiunque, anche l’essere più svogliato della galassia, si faccia un giro online potrebbe rapidamente apprendere verità un tempo appannaggio dei pochi indiani della riserva ed oggi reperibili da tutti a mezzo click. Potrebbe scaricare facilmente (e gratuitamente) un libro del prof. Giacinto Auriti o ascoltare uno dei suoi tanti video per comprendere la truffa usuraia del signoraggio. Potrebbe, con poco impegno, ricostruire la genesi ed il mostruoso funzionamento di quella macchina di segregazione dei popoli che è l’Unione Europa. Potrebbe, ancora, orientarsi agevolmente negli oscuri meandri della geopolitica americana, in quella galleria degli orrori a due corsie – dem e neocon – che ogni giorno precipita il mondo nel Caos belligerante. Potrebbe, infine, capire cos’è il mondialismo e come si estrinseca il suo lungo lavorio di distruzione delle identità e di costruzione dell’uomo liquido, indifferenziato e meticcio. Quello, insomma, che si governa con un post.
Dobbiamo continuare? Il punto è chiaro. Nonostante si cerchi di declassare l’operato della controinformazione etichettandolo come becero complottismo o si cerchi di sporcarne il valore inquinando i ponderati ragionamenti con le sciocchezze più ridicole (rettiliani et similia), la verità è online. È lì, in bella mostra, gratis, alla portata di tutti e, a volte, raccontata perfino in un buon italiano. Proprio come temeva e teme Brzezinski. E allora perché la rivoluzione non c’è? Se si punta il dito sulla complessità delle tematiche in oggetto e quindi sulla relativa capacità di comprensione dell’uomo della strada, si può far agevolmente notare come vi siano anche motivi più mesti e più bassi del signoraggio per ribellarsi. Non vi indigna l’ingordigia della casta? Non vi fa ribollire il sangue essere vessati da tasse e balzelli insopportabili? Non vi sconvolgono la disoccupazione galoppante, l’insicurezza perenne, il malaffare diffuso? Evidentemente no, perché pur abbassando di migliaia di chilometri il livello della discussione fino a lambire questioni perfettamente note a chiunque, anche all’idiota più idiota del villaggio globale, la questione rimane identica: la rivoluzione non c’è.
Qualcuno lamenta l’assenza di un capo, un leader, una guida, un tribuno della plebe capace di governare le folle iraconde, fornendo a tanto malumore una precisa direzione operativa. Qualcun altro, più avvertito, invoca l’avvento di una élites portatrice di una visione del mondo verticale – non solo politica, economica e militare, quindi, ma prima di tutto spirituale – che conduca i popoli alla battaglia finale senza limitarsi a rimestare torbidamente nel ribollire tellurico delle masse. In ogni caso, dipende dagli altri. Da quelli che sicuramente sanno, probabilmente possono, di sicuro dovrebbero, ma non si muovono. Se ne stanno nascosti, chissà dove, a fare chissà cosa. Ma è davvero così? Riesumiamo un inflazionato proverbio giapponese molto utile alla discussione nella misura in cui, si capirà subito, la rovescia: “Quando l’allievo è pronto, il maestro appare”. Ormai forte è infatti il sospetto che condottieri ed élites non riescano ad operare – nonostante il momento propizio – perché la sostanza umana cui dovrebbero rivolgersi non è adatta a riceverne la spinta, né in orizzontale né, tantomeno, in verticale. Il maestro non appare perché l’allievo non è pronto.
Cosa gli manca? Non la consapevolezza, come abbiamo visto. E nemmeno la rabbia. Gli manca una virtù prepolitica senza la quale ogni sollecitazione è vana: il coraggio. E non un coraggio ideale, astratto, intellettuale, ma il coraggio fisico del guerriero. Lo spettacolo dell’umanità di Colonia è stato disarmante e bene ha fatto Buttafuoco a ricordare la rivolta dei Vespri siciliani, infiammatasi dopo l’oltraggio di un invasore francese ad una donna del luogo, morbosamente perquisita in pubblica piazza. Oggi, nella pubblica piazza 2.0, centinaia di donne sono state oltraggiate nella tremebonda immobilità e nel pavido silenzio di mariti, fidanzati, fratelli, padri. Magari sono quelli che affollano le palestre, trascorrono ore a rimirarsi i bicipiti gonfi, si esaltano guardando e riguardando il film 300, riempiono di spacconate i discorsi al bar, passano la giornata a scrivere sui social “cacciamoli a pedate!” e poi al momento del dunque, quando suonano le fanfare della battaglia, quella vera, dove rischi di prenderti un coltello nella pancia o di farti linciare dalla folla ostile, si squagliano come neve al sole. Sono quelli che un recente video di propaganda russo ha definito “i comandati dai divani” cioè i cuor di leone che, su internet, invitavano Putin a invadere l’Ucraina e che poi se la serebbero fatta sotto al primo squillo di tromba. Sono gli stessi. Assenti, spariti, non pervenuti. Come quel tedesco cui a Colonia hanno palpeggiato moglie e figlia quindicenne che ha dichiarato a “Repubblica” di averle perse di vista “proprio in quella mezz’ora”. Ohibò, che sventurata casualità. E come lui tutti gli altri, immaginiamo, perché atti di coraggio e resistenza non sono pervenuti alle cronache. Qualcuno è stato pestato, è vero, ma non in risposta ad una reazione bensì allo scopo di rubargli lo smartphone per il quale, chissà, magari avrà provato a combattere (non ci stupirebbe).
L’unico atto di coraggio di tutta la serata sembra sia da ascrivere a tal Ivan Jurcevic, 44enne campione mondiale di kickboxing con i suoi 130 kg spalmati su una altezza di oltre due metri. Bella forza, direte voi. Così è facile. E infatti la questione qui va ribaltata. L’apparizione del campione non ha affatto scoraggiato gli aggressori: caduto il primo, caduto il secondo e pure il terzo, il quarto non ha esistato a farsi avanti. Sapeva che sarebbe stato messo al tappeto in un battito di ciglia ma, nella sua bestiale foga, c’ha provato lo stesso. Ecco, questo è quello che avrebbero dovuto fare imbolsiti mariti, smunti fidanzati e gracili fratelli: provarci lo stesso. Di fronte ai palpeggiamenti, ai tentati stupri, alle molestie avrebbero dovuto provare a combattere senza indugiare in calcoli sulle probabilità di vittoria, ma semplicemente animati dalla volontà di agire. E difenderle. Magari il tentativo sarebbe costato loro la vita o, alla meglio, un brutta figura, ma se si avesse una minima dimestichezza con l’onore e il coraggio si saprebbe che, a volte, è d’obbligo buttarsi nel fuoco. Ad ogni costo.
Lo stesso, mutatis mutandis, è accaduto a Parigi quando un numero esiguo di terroristi ha fatto irruzione al Bataclan sparando su una folla di oltre mille persone. Vogliamo dire l’indicibile? La folla avrebbe potuto neutralizzarli semplicemente correndo verso di loro e travolgendoli. E invece niente. Tutti a terra, nascosti, paralizzati, con la testa fra le mani e la coda fra le gambe, mentre gli stragisti, per ben tre volte, ricaricavano le armi certi che nessuno li avrebbe disturbati. Anche stavolta nemmeno chi aveva appena visto un amico o un parente morire, magari un figlio, un fratello o l’amore della propria vita, ha trovato ragioni sufficienti per scagliarsi contro gli assassini del proprio caro. Non per stenderli o disarmarli, ripetiamo, non è questo che si pretende, ma almeno per onorare l’umano e irrazionale istinto di lanciarsi in battaglia per fargliela pagare.
Particolarmente grama, a questo proposito, sarà stata la giornata di quei colleghi cui i direttori di testata hanno deciso di commissionare un pezzo difficilissimo: elencare e descrivere tutti gli atti di coraggio nella notte parigina delle stragi. Leggeteli questi articoli e compatite i poveri giornalisti armati di microscopio e partiti alla caccia di storie che non sono mai avvenute. Certo, c’è la vicenda del ragazzo che ha aiutato una donna incinta a tirarsi su dal cornicione cui si era aggrappata (e capirai…) o di quel congolese che si è immolato per salvare l’amica cui erano destinati i proiettili dei terroristi. Sì, d’accordo, ma l’elenco è già finito. Al punto che i poveri cronisti, pur di riuscire a riempire gli spazi loro assegnati, hanno dovuto nobilitare a gesto eroico anche le parole di quel fidanzato che, stringendo la mano della propria amata, le ha sussurrato, più spaventato di lei: “Vedrai che andrà tutto bene”. Ecco, in questo siparietto da teen-drama c’è l’acme del coraggio europeo. Un coraggio acquoso, femmineo, passivo che nulla ha di attivo o di virile. Come ha acutamente notato Maurizio Blondet, l’Europa è femmina e si vede. E la si può molestare senza problemi. Perfino l’atto più audace, all’interno di questa categoria, cioè quello del ragazzo congolese, porta la firma di un non-europeo. Diversamente, gli atti di vigliaccheria, sapientemente non riportati dai giornali, sono tutti nostri e di alcuni abbiamo testimonianza diretta. Sono storie miserabili di fidanzate abbandonate sul ciglio della strada dai consorti terrorizzati o di anziani calpestati da baldi giovanotti in fuga. È la vergogna di ciò che siamo diventati dopo decenni di “pace”, di abbrutimento nel benessere economico, tecnologico e intellettuale. La Storia ci ha sorpresi appisolati sul divano e i riflessi sono lenti, la pancia è gonfia, gli occhi stanchi e il coraggio ce l’ha solo il nostro avatar su Second Life. E nonostante i fatti di Colonia e Parigi ci abbiano, purtroppo, fornito recenti e plastici esempi, non serve andar troppo lontano per dimostrare la validità del teorema. Scriveva Massimo Fini: “Se capita qualche volta che uno stupro tentato nel pieno centro di una città o una rapina vengano sventate dall’intervento di qualcuno, questo qualcuno è, di solito, un albanese, un rumeno, uno slavo. Gli italiani si voltano dall’altra parte, fingono di non vedere, subiscono. Perché albanesi, romeni, slavi hanno conservato una vitalità che noi abbiamo perduto nella grascia del benessere. Questo è un Paese in cui nessuno è più disposto non dico a correre dei rischi fisici affrontando un malfattore, ma nemmeno a inzaccherarsi le scarpe. Un paio di scarpe firmate valgono più dell’onore”. Non serve aggiungere altro.
O forse sì perché adesso che l’Occidente può rimirare quotidianamente la propria immagine tremolante riflessa nello specchio della Storia, ritrova pieno significato la lezione di un film di qualche anno fa. Visto e rivisto, apprezzato, citato e ricordato da tutti. Ma forse mai capito fino in fondo da nessuno. Parliamo di Fight Club (1999) di David Fincher, con Brad Pitt ed Edward Norton, tratto dall’omonimo e ben più modesto romanzo di Chuck Palahniuk. Scavalcando tutte le pur essenziali implicazioni psicologiche, visionarie e socio-politiche della pellicola, la storia ci indica con chiarezza il basamento formativo di una avanguardia sovversiva dedita all’abbattimento del sistema. Come fa il protagonista Tyler a gettare le basi della rivoluzione? Mette su una scuola di partito o una accademia del pensiero? Tiene conferenze, impartisce lezioni, espone complessi ragionamenti geopolitici in tre lingue? No, non subito almeno. Tutto parte da quelli che la polizia definisce i “circoli clandestini della boxe”, sudici scantinati dove impiegati, avvocati, disoccupati, camerieri, manager, spazzini, studenti si incontrano ogni sabato sera per darsele di santa ragione. E non certo per imparare a combattere o per inanellare il più alto numero di ko. Non è una competizione. Vincere o perdere non conta nulla. Conta mettersi alla prova, uscire dalle spire narcotizzanti del comfort, ritrovare il coraggio dello scontro fisico che, poi, è un modo per ritrovare se stessi, per alimentare qualla fiamma che, assediata da un oceano di parole e megabyte, ancora balugina nell’animo di qualcuno.
In quest’ultima frase c’è il senso ultimo del nostro ragionamento. L’esempio ha infatti una portata evidentemente limitata nella misura in cui – nella storia – i fight club presiedono, sostanzialmente, alla formazione di un gruppo terroristico. Non è questo che ci interessa e ci mancherebbe. Così come non ci appassiona le violenza per la violenza, l’inutile aggressività fine a se stessa, dannosa e pericolosa quanto la codardia. Se non di più. Il punto è comprendere come la consapevolezza sia nulla senza il coraggio, anche fisico, oltre che intellettuale e politico, di tradurre il pensiero in azione.
Sarà forse per questo che, anche insconsciamente, la magistratura italiana – spalleggiata da politici e scribacchini – persegue ferocemente coloro che hanno osato opporre resistenza ad una banda di ladri entrati in casa? Perché tanto accanimento pur sapendo che, così facendo, finiranno per regalare vagonate di voti all’odiato populista Salvini? Forse perché, più che di Salvini, il Potere ha paura di voi. O meglio, del coraggio che potreste ritrovare se messi alle corde. Quindi, suggerendovi che la giustizia italiana finirebbe per rivelarsi più feroce dei ladri, vi inducono a nascondervi sotto il letto e a pregare per il meglio. In caso di rapina o in caso di Legge Fornero. Il trucco è tutto qui: un lupo può anche comprendere cosa gli accade intorno ma se si comporta da chihuahua non cambierà nulla. Nonostante la verità sia online.

BUTTAFUOCO in conferenza a Bari: “Non finirà così!”

buttafuoco3Divampano fra le nebbie di un conformismo “idiota, beota e tirannico” e incendiano un cammino del pensiero che unisce la Sicilia alla Madre Russia. Sono, evocati da un volontario gioco di parole, i Fuochi (Vallecchi, pp. 234, euro 14,50) di Pietrangelo Buttafuoco, giornalista, romanziere e saggista che – nella sua ultima raccolta di scritti – affronta, senza concessioni al dettato ufficiale, l’analisi a tutto campo di “Tipi, spazi e tempi moderni”.

È questo il sottotitolo dell’incontro, promosso dalla Fondazione “Giuseppe Tatarella”, che ha visto l’altra sera, negli spazi della Sala Consiliare del Comune di Bari, lo scrittore catanese dialogare con il docente Giuseppe Incardona ed il giornalista Michele De Feudis. “In un’epoca in cui la terra è rimpicciolita dalla velocità – osserva quest’ultimo – Buttafuoco guarda all’Oriente, all’Eurasia ed afferma il ruolo del mare nostrum quale bacino d’armonia e ci riconnette alla riflessione sui tempi lunghi”. E poiché il fuoco, come chiarisce Incardona, “è creatore ma anche distruttore”, in pochi escono indenni dall’incendio polemico del cuntastorie siciliano.

L’Italia è divenuta un luogo ridicolo – riflette Buttafuoco – dove nessuno possiede la fantasia necessaria per immaginare la grandezza. Lo sguardo è tragicamente corto. E continua a mietere vittime la più pericolosa fra le armi di distruzione di massa: la menzogna”. La lama affonda subito nel cuore del Risorgimento italiano: “Nessuno – riprende – potrebbe figurarsi la conquista di Parigi da parte di un’altra città della Francia. Eppure, è quanto ha fatto Torino con Napoli, stuprandola e trasformando la sua magnificenza in una farsa carnevalesca”. Dal passato al presente il passo è breve: “Il disprezzo è lo stesso mostrato dai marines in Iraq: dopo aver demolito, hanno preteso di ricostruire la dignità di quel popolo impiantando dei bancomat. È, infondo, la leggerezza del war game che spinge a cancellare dalla faccia della terra chiunque si ritenga diverso”.

Buttafuoco ne ha per tutti: per i veleni storici che la politica italiana alimenta, per la gestione del caso marò (“consegnarsi all’ambasciata indiana sarebbe, a questo punto, un gesto d’onore”), per quell’eterno vizio italiota di gettare tutto in “perenne commedia”. Ma è il tema dell’impoverimento culturale a prendersi la scena con particolare riferimento, ancora una volta, al Meridione: “Potreste immaginare – si chiede – la Germania senza Goethe o la Francia senza Balzac? Non credo. Invece il Sud senza Pirandello lo si riesce a immaginare benissimo”. Nonostante tutto, però, è troppo presto per gettare la spugna: “Abbiamo bisogno di fuochi – conclude – e, in primis, di quel fuoco che brucia dentro. Per questo ho voluto dedicare il libro ai miei figli. Non può finire così”.

* Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

(BUTTA)FUOCHI lungo la Via della Seta

Pietrangelo_Buttafuoco_0038picA Norberto Bobbio che, alla fine di un’intervista, gli domandò “Mi spiega perché è fascista?”, rispose così: “Professore, confessione per confessione, io non sono fascista. Sono altro. Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti ad altri inaccessibili”.E proprio dal cuore di quella eresia divampa la prosa di Pietrangelo Buttafuoco, nomen omen, giornalista, romanziere, conduttore televisivo e, da marzo, firma del quotidiano “La Repubblica” dalle cui colonne ha recentemente attaccato la destra dei “destrutti”, compilando l’alfabeto dell’agonia berlusconiana. L’ennesimo tizzone, peraltro non privo di conseguenze professionali, di un incendio ideale che la recente raccolta di scritti Fuochi (Vallecchi, pp. 234, euro 14,50) contribuisce a far divampare “recuperando – spiega l’autore – i passaggi riconducibili ad un solo tema polemico, opposto rispetto al dettato ufficiale”. Cioè quello dei conformisti e dei “piritolli, pierini profumati che alzano il dito e fanno letteratura”. Rigorosamente lontano da loro, infatti, si consumano le riflessioni del cuntastorie catanese sul tempo passato e sui tempi che verranno.

Buttafuoco, per cosa si è caratterizzato l’anno appena trascorso?

“Dal punto di vista nazionale ha svelato un trucco che altrimenti sarebbe stato difficile da decifrare: l’Italia non ha una sovranità politica. Dietro il paravento del governo tecnico, dietro l’ipocrisia della grande stampa, dietro le formule con cui hanno cercato di edulcorare la realtà, emerge precisamente questa triste rappresentazione. L’Italia non ha possibilità di decidere del proprio destino e partecipa al Grande Gioco internazionale in una posizione defilata, periferica e ininfluente ”.

In riferimento a quest’ultimo, selezioni due protagonisti del 2012: uno in senso positivo, l’altro in senso negativo…

“Secondo me, parlando di Grande Gioco, la Cina rappresenta l’elemento fondamentale, il vero protagonista. Al contrario, si può vedere nella rielezione di Obama un qualcosa di già noto. L’attuale Presidente rappresenta per gli Stati Uniti quello che Gorbaciov rappresentò per l’Unione Sovietica: è colui il quale metterà fine all’impero, sarà l’ultimo a spegnere le luci”.

È l’ “incubo d’Occidente” su cui riflette nel libro?

“Sì, è proprio questo. Cioè l’idea di non essere più il perno centrale della Storia e della contemporaneità. E di scoprirsi, adesso, in una posizione subalterna”.

Ciò nonostante, o forse proprio in virtù di tali considerazioni, l’Occidente continua a formulare per sé un certo tipo di racconto. In questo, la televisione possiede ancora un ruolo determinante?

“Assolutamente no, non riesce a sopravvivere ad internet ed alla molteplicità delle sue forme. La rete, di fatto, ha già inghiottito la carta stampata, la tv generalista, i telegiornali. Tutto si ritrova ad essere vecchio e inutile anche perché c’è una nuova, sterminata umanità che non è in grado di proporre una attenzione superiore ai due minuti. Parliamo di un pulviscolo sociale fatto di ignoranza: se prima era la fame a determinare lo stato di minorità, oggi è l’ignoranza il fattore decisivo. L’affamato che un tempo si faceva forte della sua necessità di emancipazione aveva comunque un vantaggio rispetto all’ignorante contemporaneo che è e sarà sempre solo uno schiavo”.

Stringendo la visuale sull’Italia, come si può giudicare la Rai della Seconda Repubblica nonché quella del periodo “tecnico”?

“Si tratta della più importante macchina culturale d’Italia, non c’è dubbio. Epperò svela tutta la sua stanchezza e perfino l’inutilità rispetto alla situazione attuale. È soltanto un immenso baraccone di potere dove non c’è possibilità di sperimentare, di innovare, di allevare. Quindi non ci potrà mai essere, in prospettiva, un vivaio. Naturalmente tutto questo accade ora, ma non accadeva in passato quando si riusciva a far convivere e coabitare le punte del nazional-popolare, come Mike Bongiorno, con un grande protagonista del dibattito culturale come Umberto Eco. Il quale, peraltro, fu anche l’autore della mitica Fenomenologia di Mike Bongiorno”.

Da quali parole d’ordine si dovrebbe ricominciare nel 2013?

“Per noi italiani l’espressione di riferimento non può che essere una: la Via della Seta. Si tratta della sola opzione di futuro a disposizione. Bisogna cominciare a lavorare di geografia e di politica estera per capire come il mondo stia cambiando. E, contemporaneamente, dismettere tutte le stupidaggini che ci hanno tenuti ancorati a luoghi comuni, a mondi morti e inutili, e, soprattutto, a pregiudizi grazie ai quali non si è inteso come il futuro riservi molte più chances di quante la nostra noia e la nostra stanchezza ci facciano immaginare”.

E il mezzogiorno quale ruolo specifico potrebbe recitare?

“Noi abbiamo una possibilità politica, strategica e culturale forte ed è, in una sola parola, l’Eurasia. Quando parlo di Via della Seta immagino questo grande continente in cui i popoli con i loro canti, i loro racconti, i loro commerci, i loro mercati, cioè con tutto quello che costruisce la vita quotidiana, si incontrano in un unico alfabeto, quello eurasiatico. La gente del Sud possiede un legame particolare con tale dimensione e Bari è il nostro avamposto, la città che più di ogni altra può aprire questo percorso verso Oriente”.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”