LA POLITICA ESTERA, QUESTA SCONOSCIUTA

di Gaetano Sebastiani

Fateci caso. Nel nostro Paese, i dibattiti su questioni di politica estera sono una rarità. Durante i tiggì, ad esempio, gli “esteri” sono spesso piazzati a fine trasmissione e occupano uno spazio esiguo (inferiore persino al gossip); nei programmi di approfondimento, in prima e seconda serata, è difficile imbattersi in una discussione sul ruolo dell’Italia nel mondo; per non parlare dei principali quotidiani, dove l’ampiezza massima dello sguardo internazionale si raggiunge con le pseudo-beghe tra Renzi e l’Europa. A parte le riviste specializzate e qualche esperto che sulla rete si impegna ad allargare l’orizzonte dell’utente medio, non c’è molta carne al fuoco. E da questo quadretto mortificante non va esclusa la nostra cara classe politica che contribuisce con approccio provincialotto ad aumentare il livello di inconsapevolezza delle masse.
Proprio dalla politica, invece, ci si aspetterebbe una maggiore attenzione alle questioni estere, perchè nel contesto globalizzato e globalizzante in cui viviamo conoscere e capire i movimenti degli altri paesi sullo scacchiere internazionale significa determinare in maniera considerevole la propria azione interna. Significa, cioè, organizzare in maniera più conscia una strategia geopolitica sulla base dell’interesse nazionale che consenta alla forza politica che la esprime di dare un senso di maggiore compiutezza alla propria weltanschauung.
In Italia, partiti che abbiano compreso l’importanza di questo principio pare non ve ne siano. Non suscita alcuno stupore l’applicazione di questa considerazione alla principale forza di governo. Osservando il comportamento dell’esecutivo, infatti, sembra che la strategia geopolitica di cui sopra non venga elaborata al proprio interno, ma pare dettata direttamente da Washington. Non è un caso che tra le amicizie stars and stripes più prestigiose di Matteo Renzi ci sia un certo Michael Ledeen, uno dei massimi pontefici del Nuovo Ordine Mondiale. La decisione di prendere parte alle sanzioni contro la Russia – nonostante il prevedibile danno a moltissime imprese italiane -, così come i più recenti accordi con i nostri “partner strategici” sull’utilizzo della base di Sigonella sono due esempi di appiattimento totale sugli interessi americani. Per non parlare della doppiezza (o meglio sarebbe dire mollezza) con cui si fronteggia l’influenza sempre più schiacciante della Germania sulle sorti europee. Tutto ciò nulla ha a che vedere con il frutto di una ragionata strategia nazionale in politica estera.
Maggiore perplessità suscita, invece, l’assenza di una coerente visione sul mondo da parte delle principali forze di opposizione. Il non avere responsabilità di governo e dunque il non essere sottoposti alla pressione dei poteri dominanti, dovrebbe consentire a Lega e M5S di avere mani libere su questo tema. Ma in questo, come per altri casi, alla nomea di forza “populista” non corrisponde un’altrettanto prorompente strategia geopolitica.
La Lega, ad esempio, aveva inaugurato la sua fase salviniana con un confortante attacco alle istituzioni europee ed alla moneta unica in particolare, seguito da un ottimo riscontro elettorale durante le ultime consultazioni per il rinnovo del parlamento di Bruxelles. Ma quella spinta propulsiva (corroborata da una piattaforma studiata con l’apporto di importanti economisti quali Borghi e Bagnai) è andata via via scemando a causa di un’attenzione eccessiva nei confronti del fenomeno migratorio. Non si discute la portata del problema, dunque ben venga un monitoraggio costante su di esso, ma spesso il Carroccio lo ha affrontato sulla base di considerazioni demagogiche, allineate ad una vulgata occidentalista molto utile al mantenimento dello status quo. Come con l’episodio della visita del presidente iraniano Rohani: le dichiarazioni del leader padano entrarono immediatamente in sintonia con i tipici motivetti del pensiero unico…
Alla Lega va riconosciuto, quanto meno, il merito di aver criticato le sanzioni contro la Russia, ma l’opposizione a tali decisioni scriteriate è stata sempre espressa sulla base di considerazioni di convenienza economica nazionale, senza sottolinearne il valore politico. Sarebbe stato opportuno riconoscere nelle sanzioni un attacco a Putin ed alla sua strategia sovranista da un lato e dall’altro l’ennesimo segnale di asservimento degli stati europei alle logiche mondialiste americane.
Discorso a parte merita il M5S. Sulla politica estera il movimento fondato da Grillo non ha quasi mai esplicitato delle posizioni nette e chiare. Soprattutto non è mai emersa una visione organica sul ruolo che un’Italia a guida pentastellata avrebbe nel mondo. Alcune contraddizioni in questo senso sono emerse già all’epoca delle elezioni europee, quando il tema della moneta unica fu lasciato nelle mani di Salvini, con i risultati che tutti conosciamo. Si è cercato di recuperare terreno con la proposta del referendum per l’uscita dall’euro, ma tale progetto ancorchè avesse un valore meramente simbolico non ha avuto alcun seguito concreto e rimane uno dei tanti “vorrei ma non posso” del movimento.
Come la posizione nei confronti della NATO. Neanche il pur lodevole convegno organizzato in parlamento a fine gennaio sul ruolo odierno di questa organizzazione internazionale ha chiarito in maniera definitiva la posizione dei pentastellati, i quali oscillano tra critiche di tipo pacifista e considerazioni di opportunità tattica. E ancora, sarebbe interessante scoprire quali frutti stia portando la discussa alleanza con Farage in Europa. I cinque stelle sono a favore di un ritorno ad una maggiore sovranità nazionale, come il leader di UKIP coerentemente professa da sempre, oppure le istituzioni europee vanno preservate perchè indietro non si torna? E con la Russia che si fa? Le si riconosce un ruolo di grande attore sullo scenario internazionale, o va ridimensionato, o peggio marginalizzato perchè non si adegua ai “valori occidentali”?
L’odierno quadro internazionale, in continua evoluzione (o se volete, involuzione), ricco di colpi di scena, ambiguità e disastri, imporrebbe ad una forza politica radicalmente alternativa alla desolazione imperante l’elaborazione di un piano d’azione capace di stabilire in maniera inequivocaile la collocazione del nostro Paese nel mondo e farlo uscire dall’abisso in cui è precipitato insieme a tutta la civiltà occidentale.
Sarebbe opportuno fondare questa strategia su quattro pilastri fondamentali: uscita dall’euro, uscita dall’Europa, uscita dalla NATO ed infine, alleanza politico-economica con la Russia e con tutti gli altri Paesi continentali che propugnano una visione sovranista. A quanti altri attacchi terroristici dobbiamo assistere, quante altre crisi finanziarie e false riprese dovremo vivere, quanti altri furti di sovranità dovremo subire, quanta omologazione spirituale, culturale, identitaria dovremo ingurgitare, prima di riprendere in mano il nostro destino?

Il ragazzo-immagine dei POTERI FORTI

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Se ne parla da un po’ e chiunque ne parli sembra avere sempre la medesima convinzione, tanto che ormai pare si tratti di un dato acquisito. Il legame tra Renzi e i poteri forti non fa quasi più notizia, un po’ come i file governativi americani diffusi da Julian Assange narranti le torbide ingerenze USA nel mondo. Ha cominciato Franco Bechis su “Libero”, disegnando la mappa dei potenti che hanno puntato sul sindaco di Firenze dove, oltre all’immarcescibile Bernabè (Eni, Telecom e soprattutto Bilderberg), i banchieri Fabrizio Palenzona e Paolo Fresco, lo speculatore della City londinese Davide Serra e, ovviamente, la corazzata De Benedetti con tutta l’artiglieria mediatica del caso, l’attenzione si centra su un certo finanziere Marco Carrai. Sconosciuto ai non fiorentini, grande finanziatore della campagna delle primarie, per anni fornitore di servizi per il Comune di Firenze – ottenuti, pare, senza uno straccio di gara- è ultimamente al centro di polemiche in quanto proprietario di una casa situata a pochi metri da Palazzo Vecchio nella quale Renzi avrebbe abitato per tre anni gratuitamente (sulla questione i PM hanno aperto un fascicolo e il M5S ha chiesto al neo premier di rispondere in parlamento).
Carrai è il solito tipo schivo e riservato che non ama i riflettori e che conosce tutti quelli che contano, soprattutto fuori dall’Italia in Usa e in Israele. Peraltro non sorprende come già ai tempi delle primarie la generosa apertura di credito di quotidiani come il “Wall Street Journal” e il “Financial Times” dimostrasse l’esistenza di aspettative del mondo finanziario anglosassone e dei circoli transatlantici nei confronti dell’astro nascente. Il “Time” già all’inizio del 2009 incoronava Renzi come un «Obama italiano», che all’epoca era ancora un complimento per cui vale la regola che quando il diavolo ti accarezza vuole l’anima. Se non se l’è già presa. Già perché, parlando del diavolo, il nome forte che circola sui giornali, di quelli che fanno venire i brividi a chi conosce la storia dei rapporti tra Usa e Italia a partire dal dopoguerra è certamente quello di Michael Ledeen.
Personaggio noto nell’inchiesta sui depistaggi della strage di Bologna, secondo la Reseau Voltaire negli anni ’70, in Italia, Ledeen è stato collaboratore dei servizi segreti italiani e di quelli israeliani (qual è sicuramente ancor oggi) nonché membro della loggia P2: «insomma un uomo-chiave nella rete occulta della NATO in Europa», negli anni della strategia della tensione. Ma Ledeen è noto ai più per essere stato negli ultimi anni un sostenitore attivo (insieme a Irving Kristol, Robert Kagan, Richard Perle, Daniel Pipes, Poul Wolfowitz e Douglas Feith), della svolta politica neocon impressa con l’amministrazione Bush, attraverso una rete di fondazioni tra cui spicca l’ American Enterprise Intitute, uno degli organismi che, dopo l’11 Settembre, hanno forzato la politica estera Usa nella attuale e rovinosa «guerra lunga al terrorismo globale». In altre parole questo gruppo di “bravi ragazzi” ha indotto l’invasione dell’Afghanistan, l’occupazione dell’Iraq, spinto ripetutamente per un’aggressione dell’Iran, operato il frazionamento dei paesi musulmani secondo linee etnico-religiose, attuata col ferro e il fuoco l’espansione della “democrazia” nell’interesse di Usa e Israele. Marco Valerio Lo Prete, sempre ben informato sugli intrecci del potere governativo americano, sostiene che Ledeen stia seguendo e sostenendo da tempo l’ascesa di Renzi. Insomma quello che secondo l’epica tolkeniana si potrebbe definire un Nazgul (i cavalieri neri del Signore degli Anelli), ha posto la sua nera mano sulla spalla del nostro attuale Presidente del Consiglio.

Ledeen
In ciò nulla di particolarmente sorprendente se si accetta la nostra realtà di pseudo-nazione, priva di sovranità a partire dal dopoguerra, nella quale i leader politici che hanno storicamente manifestato “scatti di autodeterminazione patriottica” – dal Moro terzoposizionista al Craxi di Sigonella passando per la parentesi russa di Berlusconi- hanno tutti fatto una pessima fine. L’ultimo citato è vivo e ancora in patria solo perché è stato meno audace dei primi due, dato che in Italia aveva troppi interessi economici per potersi permettere di fare l’eroe e probabilmente se la caverà con i servizi sociali. Per questo Cossiga, grande conoscitore delle trame italo-atlantiche, definì la Repubblica italiana una «colonia privilegiata» avente la stessa autonomia decisionale di Gibilterra.
Ma il dato rilevante oggi è l’azione che i soliti poteri finanziari ed euro-atlantici hanno esercitato nel repentino cambio di governo Letta-Renzi e i motivi che possono aver portato a questa rapidissima svolta. Ciò ha a che fare con uno stato generale di allarme che ha messo in agitazione le principali centrali di influenza politica occidentali. La causa prima di un tale isterico interventismo riguarda il possibile risultato delle prossime elezioni europee. Partiamo da un presupposto: il vero artefice indiretto del governo Renzi è Grillo.
Ricapitoliamo: il voto di febbraio 2013 ha aperto una breccia nel sistema. Per due mesi le istituzioni sembravano paralizzate, non si riusciva ad eleggere un Presidente della Repubblica né a formare un governo, al che la risposta a questo stallo politico istituzionale è stata la rielezione di Napolitano, le larghe intese (imbarcando tutti i partiti sconfitti dalle urne) e il conseguente incarico dato ad Enrico Letta. Inedita forma di monarchia repubblicana di emergenza con il maestro di palazzo a guidare il debole direttorio di Palazzo Chigi per conto di un anziano Re. Un assetto vagamente autoritario e non proprio entusiasmante se si considerano le continue pubbliche manifestazioni di indiscussa fedeltà all’eurocrazia date in questi mesi dalla coppia, in un momento in cui il patto di stabilità e l’obiettivo del pareggio di bilancio sono unanimemente riconosciute tra le principali sciagure che hanno paralizzato ogni investimento pubblico e impedito lo sgonfiamento della pressione fiscale che soffoca imprese e famiglie già distrutte dalla crisi.
Il governo Letta, non dimentichiamocelo, ha avuto la sua felice inaugurazione con l’inedito accompagnamento musicale del suono delle revolverate di un disperato calabrese che ha ferito gravemente un carabiniere davanti a Palazzo Chigi, per proseguire la sua breve parabola osservando con livido ed immobile distacco l’aumento esponenziale dei suicidi dovuti allo strangolamento economico di decine di imprenditori e padri di famiglia. Su tutta questa sofferenza sociale il potere ha calato una pesante pietra tombale, un enorme coperchio di ghisa che doveva insonorizzare l’ambiente soffocando le urla di strazio pur di sottrarre ogni spazio di manovra al movimento di Grillo che aveva vinto nelle urne al fine di proseguire, con le stesso autismo da pilota automatico che aveva caratterizzato il precedente governo Monti, dritto sugli insostenibili binari di finanza pubblica imposti da Merkel, Draghi, Barroso e Olli Rehn.
Insomma, siamo giunti alle soglie dell’anno nuovo con una paralisi politico-istituzionale generata dal cosiddetto “tripolarismo” partorito dalle urne che si è sommata alla preesistente paralisi economica nel frattempo giunta a soglie allarmanti (crisi del credito, fallimenti a catena, consumi fermi, deflazione). In queste condizioni ci si dirigeva dritti alle elezioni europee per lo schianto finale con la prevedibile vittoria dei movimenti sovranisti anti-euro, dei tanto disprezzati populisti. Con l’aggravante che ora, con il trattato di Lisbona, il Presidente della Commissione europea viene eletto dall’europarlamento ed è, pertanto, espressione della volontà dell’elettorato.
Prendendo le misure in anticipo di una simile disfatta elettorale quei poteri finanziari che solitamente osservano, fiutano il pericolo ed intervengono a dare una sterzata nei momenti critici della storia della Repubblica, non hanno mancato di piazzare la loro pedina in funzione anti-populista.
Il pupazzetto toscano con la parlantina fluida e la battuta pronta, devono aver pensato, distrarrà gli italiani per qualche mese e, con le sue indiscusse doti comunicative, potrà fare promesse che non manterrà, imbonire le masse, entusiasmare qualche giovane un po’ pirla, incantare le mamme italiane che lo guardano in Rai come il figlio ideale sbarbatello e con la faccia pulita ed acquietare, infine, i disperati che sempre in maggior numero oggi desiderano l’estinzione molecolare della casta al completo e che si preparano, con questo stato d’animo, a votare per il rinnovo dell’europarlamento. E infatti da un mese a questa parte, appena consumato l’assassinio politico di Enrico Letta (senza troppi funerali e con rapido cinismo), stiamo assistendo ad uno show mediatico sensazionale, ad un delirio ininterrotto di promesse vacue, annunci di riforme con coperture a babbo morto, piroette circensi di cifre e date smentite e riconfermate, accompagnate da richiami a Goldrake e citazioni di Walt Disney per fare colpo su un paio di generazioni, con gli spaesati nuovi “ministri-bambini”, come li ha definiti Maurizio Blondet, costretti a giustificarsi in televisione e sui giornali di questo imbarazzante avventurismo.
Perché ciò che conta in realtà, in questo momento, non è il contenuto di ciò che Renzi vuole fare, ma l’effetto elettorale a breve di questa fiumana mediatica verbale ininterrotta finalizzata a realizzare uno scuotimento emotivo collettivo da contrapporre, prima che sia troppo tardi, a quell’altro tsunami, ben più temibile, in arrivo alle europee di maggio. Quello serio, che fa tanta paura ai poteri forti perché rischia di distruggere il disegno eurocratico.
Insomma, Renzi è più che mai la pedina delle oligarchie finanziarie che hanno voluto l’euro e non sono disposti a mollarlo. Perché il rischio è enorme e non riguarda solo l’Italia. Se in Francia devono vedersela con la Le Pen, forte del grande risultato del FN alle ultime municipali, la nuova Ungheria di Viktor Orbàn, grazie ad una scelta di sovranità nazionale e monetaria realizzata energicamente, si impone come possibile modello alternativo a quello delle nazioni europee che, al contrario di quest’ultima, si sono allegramente poste da sole il cappio al collo della moneta unica. E infatti l’Ungheria, governata dagli indicibili Unni di Fidesz e Jobbik, sta vivendo una crescita di tutti i propri fondamentali economici – come ha dovuto riconoscere, mestamente, “Il Sole 24 ore” – e pari solo a quella della vicina Polonia (che infatti si è guardata bene dall’aderire alla moneta unica preferendo tenersi stretta il suo zloty).
In questo modo si è dimostrato che in Europa l’opzione sovranista paga e non solo in termini di ritrovato orgoglio nazionale, ma anche di pragmatico peso del portafoglio. Anche l’elettorato meno incline a derive identitarie potrebbe esserne tentato, soprattutto di fronte al disastro economico cui sta assistendo. Ma sarebbe un errore credere che la crescita elettorale dei tanto disprezzati movimenti populisti sia sempre il frutto della crisi e del conseguente impoverimento della classe media occidentale, come vuole un automatismo culturale tipico del pensiero post marxista. Paesi come Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria, Belgio e la ricchissima Olanda stanno registrando alcuni tra i più rilevanti fenomeni di crescita dei movimenti di contrapposizione all’euro-atlantismo.
In quel caso il populismo attecchisce proprio nelle favolose socialdemocrazie evolute, dove le aiuole sono potate ad angolo retto, si rispettano le corsie, tutti vanno in bicicletta e lo stato sostiene i costi dei libri di scuola e la tata per il bebè. Il paradiso dei materialisti rischia di tramutarsi nel loro inferno con buona pace del più falso dei miti progressisti.
La differenza italiana consiste nel fatto che da noi i “barbari” hanno già conseguito il loro primo significativo trionfo costringendo tutte le forze politiche residuali ad unire i cocci per sostenere un governo che alla lunga potesse spegnere l’incendio. Ma Letta era un pessimo pompiere, adesso ci prova Renzi. Tutto qui. Se non fosse che la gente sta già cominciando a scorgere il trucco di questa spudorata “operazione valium” anti-populismi. Il virtuosismo comunicativo del sindaco di Firenze sta già infrangendosi sugli scogli della realtà e della matematica. Già perché non puoi promettere una riduzione fiscale a bocce ferme, senza tagliare mezzo posto di lavoro e mantenendo al contempo intatti tutti i vincoli imposti da Bruxelles. Qualcuno lo devi scontentare e la realtà economica presenta tali criticità da costringerti a scegliere inevitabilmente tra la clava europea e i forconi italiani. Inoltre i populisti hanno il vantaggio di aver già scelto: in caso di vittoria manderanno a quel paese l’euro e l’Ue, con grande decisione e rapidità. Ne consegue che in caso di esitazione del governo le elezioni qui le vinceranno loro.
Carl Schmitt sosteneva che in politica è fondamentale la scelta del nemico. Renzi per il momento vuole fare l’amico di tutti (errore che era costato il governo a Berlusconi) con il rapidissimo effetto di aver già reso scettici molti di coloro che lo hanno in un primo momento sostenuto. La sua funzione di ragazzo-immagine dei poteri forti si sta rapidamente rivelando. Lo aveva, per alcuni versi, previsto l’ex ministro Barca nella ormai famosa conversazione telefonica carpita con l’inganno dalla radio, nel corso della quale aveva descritto il clima di avventurismo emergenziale che ha fatto da cornice alla formazione dell’attuale governo. Il penoso quadretto offerto dalla recente visita a Berlino di Renzi che sottopone alla Merkel come uno scolaro le proposte sul lavoro per ottenerne il nulla osta ha dato la misura dello spessore politico del personaggio e del raggio d’azione entro cui si muove. Tra Berlino, Francoforte, Bruxelles, Londra, Washington, Wall Street, Tel Aviv, Cernobbio e i Cda delle banche, finanzieri finanziatori ed apripista con in mano le chiavi delle stanze che contano, tetri neocon americani mandati a controllare. Una rete di pressioni e condizionamenti così fitta da restarne soffocati. Una rete che in Italia punta su di lui per salvare la baracca.
In un paio di mesi questo clamoroso bluff potrebbe rivelarsi e l’intera operazione salva-euro, messa in atto dalle oligarchie finanziarie, evaporare nell’incendio generale appiccato dai nuovi temibili Visigoti.

* A cura di Marcello D’Addabbo