LA SINISTRA EUROPEA È MORTA. RESTANO LE LARVE

di Leonardo Petrocelli

La sinistra europea è il grande malato immaginario del tempo presente. Immaginario non perché sia forte e in salute, vittima di una qualche nevrosi incapacitante che la confina scioccamente a letto, ma perché, in realtà, essa è defunta, esanime, stecchita. Si ingegna per rivendicare un ruolo e un destino che non le appartengono, blatera su un proprio ritorno in grande stile sulla scena, millanta praterie e galoppate future alla conquista della menti e dei cuori d’Europa, ma sono solo chili di trucco, quintali di fard scadente spalmati sulle gote esangui del cadavere. La sinistra s’immagina malata ma è morta.
Si prenda ad esempio il conflitto mediorientale nelle sue ultime declinazioni storiche e le relative forze in campo. Da una parte ci sono le orde dell’Isis, l’agente collettivo, mediatico e sanguinario del Caos. Poi c’è l’equivoco (eufemismo) blocco occidentale, con le petromonarchie del Golfo fiancheggiatrici dei jihadisti, il sempre serpeggiante Israele dietro le quinte, i turchi della nuova buffonata ottomana, gli europei servili e gli americani in testa, a fare da frontman alla farsa. E, infine, ci sono i russi, con Assad e gli iraniani, arroccati nell’unico fronte che l’Isis lo combatte davvero. Ora, a ben pensare, il conflitto è tutto interno a quelle che, novecentescamente, si potrebbero definire posizioni “di destra”: difficile immaginare la sinistra con i tagliagole e – se un barlume di ragione è ancora sopravvissuto nelle menti dei furono compagni – anche la pattuglia dell’imperialismo occidentale, degli americani produttori di armi e sganciatori di bombe intelligenti, non dovrebbe essere in cima alle preferenze. Rimane Putin che, sia detto per inciso, sarebbe la scelta giusta. Ma anche qui i rossi si defilano: lo Zar caccia le Ong, vieta la propaganda omosessuale, appoggia l’Iran teocratico che bandisce le calze a rete. E dunque? Dunque la sinistra traballa, viaggia senza un centro, senza un appiglio operativo, si liquefa e si disperde senza nemmeno poter più spendere la carta evergreen della pace e del dialogo (con chi? Con l’Isis?). In una parola, non c’è. Nello scontro fra fallaciani e putiniani, tra ultras dell’Occidente più bieco e sovranisti consapevoli, tra la propaganda della Santanchè e la controinformazione ragionata, il compagno fa tappezzeria. Vorrebbe aggrapparsi a Giulietto Chiesa, l’unico nome per lui spendibile, ma non può, perché il baffuto cronista è uomo troppo vicino al Cremlino e i compagni dell’Arci non approverebbero. Morale della favola: la condanna è al silenzio o alle speculazioni fuori tema, giusto per dare un cenno di vita fuori dal problema cruciale.
Si dirà, però, che questo è un ragionamento fuorviante, imbastito ad arte, e che altre sono le vere arene dello scontro. La sinistra, ci raccontano, è lì dove si combattono le battaglie per la casa (ai rom?), per la scuola (cioè la fabbrica dei bravi cittadini eurodemocratici), per l’università (vedi accanto, al doppio), per la cultura (idem, al cubo). La sinistra, ci raccontano ancora, è lì dove c’è il lavoro. La prima considerazione – fingendo di dimenticarci che il precariato in Italia l’ha introdotto proprio la sinistra col Pacchetto Treu – è che il lavoro non c’è più da un pezzo e non tanto per la crisi ma perché la meccanizzazione dei processi produttivi, organizzativi, cognitivi e gestionali ha progressivamente spazzato via la componente umana dalla filiera. È un dato che meriterebbe una analisi robusta ma apprestiamoci subito oltre perché l’obiezione è già dietro l’angolo: di là da tutti gli stravolgimenti in atto, qualcuno ancora lavora e la sinistra è lì dove si combatte per la difesa e/o l’aumento dei salari.
E qui ci tocca annoiarvi con una verità economica lapalissiana, difesa e sostenuta da qualunque economista non abbia preso la varicella il giorno in cui insegnavano i rudimenti macroeconomici all’università: a fronte di uno shock negativo proveniente dall’esterno si reagisce svalutando per aggiustare il valore della propria valuta in armonia con le mutate condizioni di mercato. E se non si può svalutare la moneta, perché magari il cambio è fisso, allora si svaluta il lavoro. La traduzione del concetto con le coordinate contemporanee non dovrebbe essere troppo difficile: la gabbia d’acciaio dell’euro ha dirottato il processo svalutativo sui salari. In altre parole, il tema della contrazione dei salari è legato a quello della moneta unica. E quali sono le posizioni in campo sull’argomento? Pronti al dejavu. Da una parte c’è la guardia pretoriana del potere usuraio, ci sono i difensori dell’euro per fede o sul campo, i governatori delle colonie mandati da Bruxelles. Dall’altra il solito fronte sovranista che dell’euro farebbe volentieri un ricco falò. Se ci pensate è la medesima contrapposizione dell’esempio precedente: Monti o Rajoy o Hollande o Renzi contro la Le Pen come prima avevamo la schiera euro-americana contro Putin. I fronti s’approssimano e, volendo, anche qui tutti de’ destra come sottolineerebbero i compagni veri, quelli tosti, che dal socialismo europeo prendono ogni giorno le distanze. Ma questi ultimi cosa pensano? Ancora una volta ci lasciano interdetti: blaterano di disuguaglianze (che sono l’effetto e non la causa), aggrediscono l’austerity e salvano l’euro, poi ci ripensano (come Fassina) e capovolgono la posizione. Ma mai fino in fondo. Insomma, o la sinistra gioca a fare la destra neoliberista o la confusione è totale. Per fortuna ci sono i migranti e la Tav su cui si può sempre dirottare la conversazione per scantonare da magre figure alla Tsipras, su cui abbiamo ampiamente ragionato altrove, o alla Podemos che aspettiamo al varo (e al varco) dell’ennesima, finta rivoluzione.
Epperò, per quanto osteggiati e ripudiati dai compagni tosti, gli Hollande e i Renzi sono comunque colonne dell’attuale centro-sinistra europeo. Che dunque, si obietterà, è ancora vivo ed al governo. Potremmo far quadrare il teorema semplicemente ricordando, come già fatto poche righe fa, la natura dell’azione politica di questi illustri signori, ma s’impone qui una digressione storica cui non desideriamo rinunciare. Da sempre, infatti, la sinistra è stata il motore ideale della modernità trionfante. Tutti i suoi dogmi ed i suoi miti di riferimento le appartengono di diritto: il progresso, lo sviluppo, l’uguaglianza, la centralità del lavoro, il contratto sociale, la laicità, le costituzioni, la democrazia rappresentativa e compagnia cantando. Ognuno di questi elementi ha contribuito alla distruzione dell’immaginario e delle strutture del mondo premoderno, per la gioia delle milizie imprenditoriali borghesi e del grande capitale che, finalmente, hanno potuto dilagare nelle selvagge praterie immanenti del mondo laico ed intellettualoide. Con grande stile, naturalmente, e con le vergogne ben protette della foglia di fico dei valori di cui sopra, quella che, in estrema sintesi, serviva a contrabbandare il nascente mondo dei banchieri come mondo delle democrazie e delle opportunità.
Il problema, ora, è che la foglia è volata via. Sono circa quarant’anni, infatti, che gli studiosi più avveduti – da Lyotard in poi – denunciano la “morte del moderno” cioè di tutto quel sistema ideale, culturale e politico che ne aveva mascherato l’azione attraverso le grandi narrazioni degli ultimi secoli e che oggi sopravvive, appunto, solo in quei “necrologi degli intellettuali” (Maffesoli), rimasti aggrappati alle vestigia del tempo che fu. Banalizzando, la sinistra ha servito la marcia della Storia e delle sue forze sovversive, presumendo di cavalcarla, ma è stata disarcionata dalla torsione repentina di un Potere che ormai declina il dominio oligarchico, usuraio e finanziario in un senso tutto post-moderno, senza veli ideologici né corpi intermedi, senza maschere democratiche né inni repubblicani, e lasciandosi dietro a marcire il cadavere della modernità. E con esso quello della sinistra, novecentescamente invecchiata, che ne aveva agevolato l’ascesa.
E, dunque, cosa sono i Renzi e gli Hollande? Sono le larve, l’ultimo parto del socialismo che fu, prima del sospiro finale. In costante omaggio alla vecchia massima di Spengler (“la sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza volerlo”), mai venuta meno, il patto col demone è stato reiterato, ma questa volta l’accordo è al ribasso cioè senza nemmeno la grancassa dei valori e dei princìpi a mimetizzare la livrea della servitù. Qui il servilismo si estrinseca allo stato puro: il socialismo europeo come prima colonna dell’oligarchia finanziaria e dell’imperialismo americano. Per soprammercato, la versione italica ha una marcia in più rispetto alle consorelle europee. Come ha acutamente notato il sociologo Marco Revelli quello di Renzi è un vero e proprio populismo ma più pericoloso degli altri in virtù di una malcelata logica di scambio: “Renzi raccoglie consensi con il suo illusionismo e li riversa sulle politiche gradite all’Europa come il Jobs Act, lo Sblocca Italia e le privatizzazioni. È la ‘Troika interiorizzata’, forse l’unico caso al mondo di populismo che solidarizza a pieno con il potere e lo aiuta”. L’Italia, si sa, è sempre un fertile laboratorio politico e chissà che, ancora una volta, non abbia tirato fuori dal cilindro l’ennesimo brand pronto all’esportazione su larga scala.
Non è finita qui, comunque. Poiché le disgrazie non vengono mai sole, c’è infatti una seconda larva a dimenarsi sul palcoscenico, se possibile più ributtante della prima. È quella della sinistra dei diritti individuali, dei pelosi pietismi umanitari, delle emergenze solidali a comando, dei Vendola e delle Boldrini, che fa lo stesso gioco della precedente, ma in maniera diversa. Questa volta l’aiuto non giunge tanto sul piano delle politiche neoliberiste e monetarie, quanto piuttosto esso si dipana sul versante della disgregazione delle identità. Il mondialismo, come noto, altro non è che una gigantesca macchina organizzata per livellare scientificamente ogni specificità spirituale, etnica, culturale, di genere, politica, artigiana, gastronomica, linguistica. Si tende al governo unico, al sistema di non-valori unico, alla lingua unica, alla religione unica (e il vago umanesimo del Bergoglio, si badi, è perfetto allo scopo). In sostanza, all’Uomo Unico, cioè un essere totalmente sradicato e culturalmente componibile, imbrigliato in una complessa articolazione di protesi digitali e, cosa più importante, integralmente controllabile.
Questo scenario orwelliano, lo sappiamo, è ancora parecchi passi più in là delle cronache contemporanee, ma il processo di transizione procede a tappe forzate tra meticciato imposto, dilagare del gender e delirio tecnologico travestito da residuo di progresso. Ciò nonostante, il compito è arduo, perfino per chi sta al volante, e ogni forma di aiuto si rivela ben accetta. E così, scorto un posto vuoto nell’orchestra mondialista, la sinistra boldriniana s’è accomodata da tempo per suonare i violini del Potere con grande perizia. Sa quando accelerare e quando fermarsi. Sa che deve aggredire i russi e gli iraniani sulla questione femminile ed omosessuale, ma sa, altrettanto bene, di non dover sfiorare i ben peggiori sauditi, alleati del padrone. Sa che può dileggiare l’austerity, ma senza discutere l’euro. Sa che può armeggiare con le leve della cultura, così come si fa con le fronde degli alberi, ma a patto che esse non conducano al disvelamento delle radici del problema.
Come in ogni performance che si rispetti, non c’è spazio per improvvisazioni. Il direttore dirige con la sua bacchetta lorda di sangue e la larva suona. Anzi, le larve suonano, felici di esserci ancora. Ed ogni cosa sarebbe al suo posto nel teatro degli orrori se non fosse per un unico, piccolo problema: il pubblico in sala sta iniziando a fischiare. Un lento brusio, sorto dal coraggio e dalla consapevolezza di pochi, che però rischia di tramutarsi in un controcanto soverchiante. Forse non oggi, forse non domani, ma dopodomani sì. E allora, guardateli bene quelli che sono sul palco: il direttore d’orchestra, i musicisti, le larve. Suonano e sorridono, è vero. Ma tremano. Eccome se tremano.

L’INTIFADA DEI COLTELLI. UN’ALTRA GRANDE OCCASIONE PER PUTIN

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di Gaetano Sebastiani

“Non c’è due senza tre” recita un famoso adagio. E così, dopo la rivolta delle pietre del 1987, passando per la ribellione del 2000 a seguito della provocatoria passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee, assistiamo in questi giorni all’Intifada dei coltelli. Cambiano le denominazioni, cambiano le date, ma rimangono immutati due elementi fondamentali nella questione israelo-palestinese: la sproporzione dei mezzi bellici a disposizione dei contendenti e la colpevole miopia della comunità internazionale nella visione di questo annoso conflitto.
Il primo aspetto citato rende sempre più intollerabile l’atteggiamento della quasi totalità della stampa occidentale che sottolinea puntualmente la violenza usata dagli arabi, ma mai così minuziosamente ci informa del perchè di una tale reazione. Le pietre, i coltelli, i razzi Qassam per quanto non siano oggettivamente degli strumenti di pace costituiscono la sola risposta di un popolo martoriato, frustrato, inascoltato, indebitamente occupato da decenni, incarcerato a cielo aperto nella propria terra, costretto a fronteggiare quotidianamente uno degli eserciti meglio equipaggiati al mondo, con mezzi tecnologici impensabili per chi vi si rivolta contro.
Qui non si tratta di partecipare al solito gioco delle parti tra vittima e carnefice, o di impelagarsi nella penosa questione di chi abbia attaccato per primo, ma di riconoscere che di fronte a Davide si impone un gigantesco Golia e che un coltello dinanzi al fucile (e ad altre armi non ammesse da importanti trattati internazionali…) è ben poca cosa. Ma, forse, lo scoppio di questa terza Intifada, proprio in questa fase di grandi tensioni nell’area mediorientale, non avviene casualmente. La ribellione dei palestinesi contro l’oppressione di Tsahal (l’esercito ebraico), contro la colonizzazione selvaggia – soprattutto a Gerusalemme Est – perseguita scientemente dal premier ebraico Netanyahu per proseguire la costruzione di “Eretz Israel” si inserisce in un contesto internazionale che per la prima volta da decenni potrebbe aprire qualche spiraglio alla causa araba. Perché, diciamolo chiaramente, se fino ad oggi la questione palestinese ha avuto un peso effimero nei consessi diplomatici che contano è dovuto al fatto che una delle due parti in causa – Israele – ha sempre potuto contare sull’appoggio incondizionato di un altro gigante, gli Stati Uniti.
Al netto della sfortuna di essere vittime delle vittime per eccellenza, delle difficoltà della propria leadeship di creare le condizioni per una forte unità politica da sfruttare nelle sedi opportune, dell’incapacità dei paesi arabi limitrofi nel sostenere costantemente e coerentemente la causa, i palestinesi hanno da sempre sofferto la mancanza di un forte sostegno internazionale. Tale lacuna è stata sperimentata in più occasioni durante il corso degli eventi del conflitto: dalla nascita dello Stato ebraico con conseguente cacciata dei palestinesi (la “Nakba”, secondo la storiografia araba), alle risoluzioni ONU mai rispettate (una tra tutte la famosa 242, oggetto tutt’ora di grandi diatribe interpretative); dagli accordi di pace traditi nonostante la presenza di leader carismatici come Arafat, alle “Road Map” ideate da chi falsamente svolgeva il ruolo di garante super partes.
Ma oggi il contesto internazionale sta mutando ed i riflessi di tale cambiamento si stanno manifestando concretamente con gli avvenimenti nella vicina Siria e le strategie interventiste della Russia. Finalmente, la trama del film mediorientale si arricchisce di un nuovo protagonista e le battute che ascolteremo potrebbero non arrivare più soltanto da quegli attori che da sempre occupano la scena indisturbati.
Qualora Putin dovesse piegare l’ISIS e contemporaneamente garantire la permanenza di Assad alla testa del suo Paese per la prima volta, dopo decenni, assisteremmo ad un ribaltamento dello stantìo status quo: Stati Uniti ed Israele saranno ridotti a comprimari ed il loro ruolo di assoluti padroni del medioriente subirà una drastisca riduzione, con riflessi benefici anche sulla causa palestinese. Infatti, se il presidente russo vorrà davvero giocare un ruolo storico, da grande stratega, quale fino ad ora si è dimostrato, capirà bene che per affermare la propria politica sovranista nell’area dovrà necessariamente appoggiare l’unico popolo che di quel principio non conosce neanche il significato, garantendo finalmente ai palestinesi il giusto sostegno sia a livello locale, sia nell’ambito delle istituzioni diplomatiche.
L’Intifada dei coltelli, dunque, rappresenta l’ennesimo urlo di protesta lanciato verso la comunità internazionale, ma anche una grande occasione per Putin. Se l’unico leader in grado oggi di ascoltare quella voce disperata che invoca sovranità ne decifrasse i significati profondi, allora avremmo un più equilibrato processo di pace e forse, una definitiva risoluzione della questione palestinese.

LA GUERRA DELLO YOM KIPPUR. UN BOOMERANG CONTRO GLI ARABI

di Gaetano Sebastiani

Esistono ricorrenze la cui valenza religiosa si intreccia con quella politica. A volte, tali ricorrenze sono foriere di così tanti eventi significativi, forse non sempre rilevati con la giusta attenzione, che le conseguenze sono tangibili ancora oggi. Parliamo dello Yom Kippur, la più importante festività ebraica, giorno della penitenza, che quest’anno – secondo il calendario gregoriano – cade il 23 settembre. Durante questa ricorrenza si suole dire che Israele si ferma: non è consentito mangiare, bere, ci si astiene dai rapporti sessuali, si recitano preghiere al fine di assolvere le proprie colpe dinanzi a Dio.
Ma 42 anni fa, Israele non rimase immobile. Fu, piuttosto, tra gli attori principali di uno degli eventi storici più importanti del conflitto mediorientale: la guerra, appunto, dello Yom Kippur o guerra di ottobre, secondo la storiografia araba. Dopo il conflitto del 1967, sfavorevole agli arabi, la situazione nel Medioriente si era fatta ancor più incandescente per via di alcuni cambiamenti in seno ai principali Stati dell’area. La morte improvvisa di Nasser nel 1970 spianò la strada per l’avvento al potere in Egitto di Sadat, uno degli ufficiali protagonisti del golpe del 1952. In Iraq ed in Siria, ci fu la vittoria del partito Baath rispettivamente con Saddam Hussein ed Al-Assad; mentre in Libia, l’ascesa di Gheddafi restituiva un quadro mediorientale fortemente anti-israeliano.
La volontà araba di rivalsa fu incarnata dall’egiziano Sadat (con l’incerto appoggio sovietico) che, pressato da un’opinione pubblica interna insofferente all’umiliazione militare subita nel conflitto precedente e da una situazione economica molto precaria, decise di attaccare Israele sulla sponda orientale del Sinai, proprio durante la festa dello Yom Kippur, mentre l’alleato siriano lanciava l’offensiva verso le Alture del Golan. L’attacco provocò la morte di circa 2500 soldati israeliani, ma il colpo inferto non fu sufficientemente potente da mettere in seria difficoltà le truppe con la stella di David che, in pochi giorni, sotto la guida di Ariel Sharon, si riorganizzarono, bloccarono l’avanzata nemica e penetrarono in territorio egiziano, a occidente del canale di Suez, a cui seguì una incursione in territorio siriano.
La guerra aveva raggiunto il suo apice: se da un lato, gli egiziani potevano ritenersi soddisfatti per aver infranto il mito dell’imbattibilità dello storico avversario, dall’altra rischiavano di subire un’avanzata nemica poco congeniale ai propri progetti di riscossa. Intanto, in campo internazionale, Stati Uniti ed URSS si affrettavano a fornire il proprio supporto rispettivamente ad Israele ed all’Egitto. E’ opinione diffusa quella secondo cui gli ebrei, in questo conflitto, sarebbero stati colti di sorpresa. Ma come per altri importanti eventi del passato, uno fra i tanti l’ingresso degli USA nella seconda guerra mondiale a seguito dell’attacco nipponico di Pearl Harbor, anche in questa circostanza il comportamento dei leader politici risulta ambiguo ed improntato a ragioni di convenienza.
La caratteristica fondamentale della strategia militare israeliana era (e forse lo è ancora) basata sul principio dell’attacco preventivo, potendo contare sull’estrema affidabilità dei propri servizi di intelligence, i quali potevano stabilire la certezza di un attacco nemico non più tardi di 48 ore prima dell’offensiva stessa. Solo 6 ore prima dell’inizio del conflitto, il premier Golda Meir, il ministro della Difesa Moshe Dayan ed il generale David Elazar si riunirono per decidere il da farsi. L’iniziale distanza tra le diverse posizioni fu risolta a favore di una decisione netta, caldeggiata soprattutto dal primo ministro: non ci sarebbe stato alcun attacco preventivo, in quanto era prioritario garantirsi il pieno appoggio degli Stati Uniti, i quali, nel caso di una prima mossa israeliana, avrebbero avuto maggiori difficoltà nell’approvigionamento dell’alleato. Il sacrificio dei soldati caduti allo scoppio della guerra fu, dunque, il viatico per un deciso aiuto militare statunitense e sancì una volta di più l’amicizia tra i due Paesi, propagando i suoi effetti non solo fino ai nostri giorni, ma anche sugli esiti della guerra di cui ci stiamo occupando.
Il 22 ottobre 1973, con l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le ostilità furono congelate e l’iniziativa diplomatica si sostituì alle armi. In questa circostanza di stallo emerse chiaramente l’abilità di Henry Kissinger nel prendere in mano le redini della situazione e condurre la crisi verso una soluzione pacifica ed al contempo favorevole agli interessi statunitensi nell’area. Il lavorio del segretario di Stato fu per certi versi facilitato dall’atteggiamento sovietico che, se da un lato non voleva mostrarsi troppo morbido in un simile quadro di tensione, dall’altra si dimostrò riluttante a sostenere sino in fondo le ambizioni revansciste dell’Egitto. Questa ambiguità allontanò Sadat dai russi, indebolendone il potere di contrattazione sul piano internazionale e di conseguenza spianò la strada per il rafforzamento dell’influenza diplomatica statunitense sulla risoluzione della crisi. Kissinger, inoltre, poteva contare su ulteriori elementi a proprio vantaggio: la possibilità di negoziare sia con l’Egitto che con Israele – con cui i sovietici avevano interrotto le relazioni dal 1967 – e la quasi totale immunità degli USA dal blocco petrolifero degli arabi.
In un tale contesto, il segretario di Stato ebbe gioco facile a condurre Sadat nella sfera d’interesse americana. Ben presto, infatti, il leader egiziano allontanò i consiglieri militari sovietici dal paese e la definitiva uscita di scena della superpotenza russa gettò definitivamente Sadat tra le braccia degli Stati Uniti, determinando un cambio di rotta persino con Israele, verso il quale fu aperto un canale di comunicazione foriero di ulteriori sviluppi. Nel novembre del 1977, infatti, Sadat tenne uno storico discorso alla Knesset dinanzi al premier ebraico Begin, tutto incentrato sulla questione palestinese, il cui andamento era legato a doppio filo con gli esiti delle guerre mediorientali. Il presidente egiziano sollecitava Israele ad abbandonare tutti i territori occupati ed a riconoscere ai palestinesi il diritto di autodeterminazione, inclusa la possibilità di istituire un proprio Stato.
Era il principio di una definitiva, quanto clamorosa svolta tra gli ex belligeranti. Ma erano, soprattutto, le ultime parole di sostegno di quello che da sempre era considerato dai palestinesi il paese guida nella propria lotta di liberazione. Con gli accordi di Camp David del 1978, infatti, Egitto ed Israele raggiunsero un’intesa finalizzata a dirimere i nodi più spinosi del conflitto del ’73, come ad esempio il ritorno della Penisola del Sinai sotto il controllo del Cairo, ma il problema palestinese fu solo sfiorato e nessuna decisione sostanziale fu presa circa le occupazioni di Gaza e Cisgiordania.
La tensione tra i paesi arabi e l’Egitto provocata dagli accordi tra questo e lo storico nemico israeliano degenerò ben presto in una dolorosa rottura. La pace del 1979 sanciva contemporaneamente la fine delle ostilità e l’inizio dello sfaldamento del mondo arabo che fino ad allora aveva mostrato un certo spirito unitario sia nella battaglia contro Israele, sia nel sostegno alla causa palestinese. L’Egitto fu considerato alla stregua di un traditore ed espulso dalla Lega Araba: i rapporti diplomatici ed economici furono ridotti o addirittura azzerati ed alcune fazioni radicali palestinesi condussero attacchi terroristici in territorio egiziano.
Partito come conflitto finalizzato a ridare dignità al valore militare dei paesi arabi ed in particolare dell’Egitto, la guerra dello Yom Kippur si trasformò in un boomerang che favorì Israele ed i suoi progetti di espansione e rafforzamento dei propri confini. Il tiepido supporto fornito dall’URSS ed il suo progressivo sfilarsi dalla scena nella fase post-bellica della crisi consentì agli Stati Uniti, nella figura di Kissinger, di piazzare la propria bandiera nel cuore dell’area mediorientale e rinsaldare i propri legami di amicizia e supporto all’alleato ebraico. Gli accordi di pace, avvicinando l’Egitto a Washington e Gerusalemme, privarono i palestinesi del paese più forte ed attrezzato per la propria causa, riducendo la portata della lotta di liberazione ed indebolirono l’unità dei paesi arabi.
Di lì a qualche anno, precisamente nel 1987, un’altra ondata di tensione avrebbe sconvolto l’area. Questa volta non guidata da spirito revanscista, nè dall’organizzazione militare, ma da pura disperazione: scoppiava la prima Intifada, la rivolta delle pietre contro le armi automatiche.

*In foto: Militari israeliani su autoblindo, 1973 (GABRIEL DUVAL/AFP/Getty Images)