IL CONSAPEVOLE NO

di Marcello D’Addabbo


A poche ore dal voto e in piena sbornia mediatica referendaria La Daga intende dire la sua. Sgombriamo subito il campo da equivoci: la repubblichetta italiana nata istituzionalmente il 2 giugno ‘46 da un referendum probabilmente truccato – quasi 11 milioni di voti alla monarchia contro i quasi 13 milioni repubblicani non sarebbero stati comunque una gran legittimazione di partenza – non è uno stato sovrano. Si tratta di una colonia occupata militarmente da truppe straniere a cui è stato attribuito un margine risibile flessibile e volutamente ingannevole di autodeterminazione politica. Questo inganno nella sua forma cartacea si chiama Costituzione del 1948. Quando si perde una guerra e si viene occupati dalle truppe di una potenza straniera si perde la sovranità per un periodo di tempo la cui durata può essere più o meno lunga a seconda delle contingenze storiche ma mai brevissima. La modernità non fa eccezione a questa dura logica di guerra ed è inutile continuare a fingere di credere che l’occupante diventi un alleato alla pari, rispettoso della propria sfera di influenza nazionale. Di solito è difficile che una patria riprenda in mano il filo conduttore del proprio destino senza che il popolo si sporchi prima le mani di sangue in nuove trincee o nelle piazze con una rivoluzione. Dura lex ma la storia insegna e a meno che l’occupante non schiatti da solo non ci sono eccezioni. In barba a questa semplice realtà da paginetta del sussidiario delle elementari assistiamo dal ’48 alla soporifera retorica di un paese liberato, democratizzato, di una grande potenza economica autodeterminatasi per mezzo delle esaltate libertà costituzionali del dopoguerra. Il martellamento su laicità, stato sociale, lavoro, pace, eguaglianza ed associazionismo ha trasformato milioni di italiani in studenti, eterni minorenni, di un corso di rieducazione civica di massa durato quasi settant’anni. Per farlo sono partiti gonfiando il mito della liberazione “autoctona” compiuta al suono di “Bella ciao”, quasi che il canto partigiano potesse coprire il frastuono dei B29 che i nostri nonni ricordano molto più nitidamente del primo. E infatti la verità era ed è un’altra. Da quel dì dello sbarco delle truppe stellate è in vigore una “costituzione invisibile” sussurrante all’orecchio della coscienza ogni minuto della nostra vita che la sovranità appartiene al Pentagono che sposta da Washington i nostri soldati dove gli fa più comodo secondo la logica del Risiko in corso, alla Banca Centrale Europea che stabilisce arbitrariamente i tassi di interesse cui devono adeguarsi banche private e correntisti, la fluttuazione della moneta, le misure di austerity, il fiscal compact, il pareggio di bilancio  – quest’ultimo, beffa nella beffa, lo hanno addirittura inserito nella tanto decantata sacra carta coloniale. Quella che tutto il mondo invidiava a Benigni prima della folgorazione di quest’ultimo sulla via di Rignano sull’Arno. Già…il pareggio di bilancio, sembra quasi lo abbiano inserito affinché anche i più illusi ingenuotti capissero a cosa si riduce la libertà del popolo italiano.

Dinanzi a tanto oggettivo e crudo realismo ci chiediamo che senso possa avere dedicare un secondo della propria giornata ad ascoltare anche soltanto una percentuale infinitesima di tutte queste inutilità sul numero dei parlamentari, sul Cnel da abolire, sull’elettività del Senato e il titolo quinto. Tutte questioni sacrosante se non avessimo appena inviato soldati al confine con la Federazione Russa senza un dibattito di ugual portata, un passaggio parlamentare, un coinvolgimento anche minimo della popolazione e del suo vaglio a questa come ad altre scelte fondamentali. Pochi giornalisti hanno posto domande in merito a questa gravissima provocazione militare contro una nazione, quella sì degna di chiamarsi tale, armata fino ai denti e mai ostile verso di noi. Chi li ha inviati quei soldati? Perché e in nome di cosa? E, soprattutto, per conto di chi? Ma l’elenco delle iniziative dinanzi alle quali il popolo italiano è stato sistematicamente bypassato è tristemente nutrito. Sanzioni contro Siria, Iran e Russia imposte, guerra in Libia imposta, euro imposto, regole commerciali europee imposte, fiscal compact imposto, pareggio di bilancio imposto, vincoli alla spesa pubblica imposti, bail-in bancario imposto, il tutto mentre le tv cantano libertà, democrazia, e oggi, luce in fondo al tunnel…abolizione del Cnel, numero dei parlamentari e modifica del titolo quinto. Il più colossale insulto all’intelligenza di un popolo che si sia mai visto a memoria d’uomo. In queste ore assistiamo ad interminabili quanto insopportabili dibattiti sulla scelta tra due costituzioni che non saranno comunque mai in vigore! Almeno finché non cambierà il quadro internazionale o Trump non deciderà di fare le valigie e sloggiare le truppe di stanza nella penisola o mollare progressivamente la Nato. In mancanza di ciò parlare di costituzioni e governabilità è un flatus vocis. Più poteri al premier e legge elettorale che garantisca la governabilità per fare cosa? Se si volesse, ad esempio, uscire dall’euro lo si potrebbe decidere con o senza “doppia lettura delle leggi tra Camera e Senato”. Una simile decisione, affermano da sempre alcuni tra i maggiori economisti del mondo, porterebbe alle tanto citate tasche degli italiani vantaggi infinitamente maggiori dell’abolizione del Cnel o della riduzione del numero dei senatori. Quello a cui assistiamo da settimane nel dibattito pubblico italiano è il trionfo dell’antimateria e attenzione a maneggiarla perché si rischia di scomparire! Ma in qualche misura tocca purtroppo di doversene occupare…ne siamo intossicati ormai a causa dello zelo mediatico del premier e dal circo montato su tv e giornali al servizio della sopravvivenza politica del Governo.


Quindi, al fine di evitare con cura l’insostenibile leggerezza del non-essere ovvero di finire intrappolati in questa gigantesca bolla di sapone che galleggia metri sopra la realtà, si offre la seguente soluzione. Come premessa un tranquillo, imperturbabile e ghignante ME NE FREGO! Per tutto quanto chiarito innanzi sarebbe giustificabile un sovrano distacco da istituzioni ridotte a vuoti simulacri di interessi collocabili fuori dai confini nazionali, cui fanno eco FT, NYT, The Economist e fondazioni bilderberghiane varie. Fatta tale premessa l’opzione sostenuta dalla Daga è quella di recarsi alle urne domenica 4 dicembre ma essa richiede una riflessione sul contingente, una piccola planata su quella che Nietzsche definiva le mosche al mercato. Non si tratta di votare NO turandosi montanellianamente il naso, scelta che presupporrebbe una sostanziale adesione al quadro istituzionale repubblicano conservando il solito moderato disprezzo per le opzioni politiche in campo, da cui la scelta del meno peggio (ragionano ancora così moltissimi italiani). Premesso, quindi, che questo appuntamento tutto è tranne che un referendum sulla costituzione di uno stato sovrano, l’opzione NO se assunta in modo appropriato deve avere il solo senso di un ulteriore colpo dato all’ordine mondiale occidentale. Quello che parla per bocca di JP Morgan cui fa eco da giorni Romano Prodi, per intenderci. Al di là del mucchio di frattaglie partitico-ideologiche che si batte per il NO, da Berlusconi, Grillo, Salvini, Meloni, alla minoranza dem, l’ANPI e i costituzionalisti, il proiettile referendario può essere certamente utile a provocare un sisma nell’edificio crepato dell’attuale maggioranza di governo voluta da Giorgio Napolitano – il Grande Architetto delle Larghe Intese che di quegli assetti è il supremo garante condominiale. Già perché Matteo Renzi preso singolarmente non è propriamente un essere reale, se lo osservi per più di un minuto hai sempre l’impressione di vederlo scomparire e tu di dimenticare il suo nome un secondo dopo, ma è certamente l’ultima carta giocata dal mondialismo per questo paese in risposta alla crisi della politica e dei partiti. Giova ricordare che nel 2013 il sistema stava mostrando segnali di crisi evidenti. Grillo, dopo aver radunato a Roma in Piazza S. Giovanni 800 mila persone per la chiusura della campagna elettorale otteneva il 25,56% dei voti (sfiorando gli 8 milioni e settecentomila voti) diventando il primo partito del paese al grido di “tutti a casa”. A quel punto ciò che è restato della classe politica degli ultimi venti anni si è coalizzato facendo appello al grande vecchio del Quirinale per trovare una soluzione che permettesse loro di prendere tempo confidando di logorare i 5 stelle, mediaticamente, sulle lunghe distanze. Ora, Grillo e i Cinque Stelle hanno soltanto il valore di un sintomo, che in Usa si chiama Trump, in Francia Le Pen, in Uk Brexit, in Austria Hofer e potremmo continuare abbracciando il pianeta intero fino alle Filippine di Duterte. Un risveglio collettivo della rabbia di cui gente come Zbigniew Brzezinski (fondatore della Trilaterale) ha perfettamente coscienza. Trasversale, popolare e ancora informe si muove sulla placca continentale tra gli oceani sconquassando il sistema occidentale con la forza dei recenti terremoti – si direbbe in suggestiva coerenza con questi ultimi – e viaggia attraversando città e campagne, fabbriche dismesse e periferie, uomini donne maggioranze minoranze (i neri hanno votato Trump, i detrattori devono farsene una ragione). Una quantità sufficientemente grande di persone sembra aver ingerito la pillola rossa di Matrix, quella che permette di emanciparsi dall’immaginario artificiale indotto dall’esterno e guardare la realtà con i propri veri occhi. Quella che non ti consente di tornare indietro. A questo risveglio collettivo una vittoria del NO darebbe ragione. Pertanto va sostenuto.


Quanto agli scenari post vittoria del NO, sembra abbastanza probabile la conclusione della parabola politica del premier. Magari non subito ma Renzi non accetterà, come ha detto, di galleggiare in mezzo agli Alfano, Verdini e minoranze dem di spettri spiriticamente resuscitati, quelli che pensava di aver rottamato. Non è certo il ritorno di questi portatori di peste che si vuole agevolare, ipotesi da incubo che al contrario oggi sta portando alcuni sulla sponda del SI. Tuttavia loro non torneranno comunque perché si è rotto ormai qualcosa nella connessione emotiva tra la politica e i votanti, le tasche della gente continuano a svuotarsi senza fine a seguito della crisi e, in una nave che affonda, non ti affezioni agli ufficiali che si intrattenevano in sala da ballo quando si doveva stare al timone e virare con decisione. Renzi ha giocato finora su questo sentimento che la sua eventuale caduta non estingue e che probabilmente porterà al governo il Movimento Cinque Stelle. In tutto il mondo i popoli appena votano sfasciano ciò che c’era prima e indicano chiaramente chi afferma di rappresentarli, sia esso un fenomeno da avanspettacolo come Grillo o un leader con il peso di una Le Pen. Non importa per ora. Importa che la scossa ci sia anche da noi come nel resto del mondo e per averla, l’unica soluzione è un consapevole NO.

LA SINISTRA EUROPEA È MORTA. RESTANO LE LARVE

di Leonardo Petrocelli

La sinistra europea è il grande malato immaginario del tempo presente. Immaginario non perché sia forte e in salute, vittima di una qualche nevrosi incapacitante che la confina scioccamente a letto, ma perché, in realtà, essa è defunta, esanime, stecchita. Si ingegna per rivendicare un ruolo e un destino che non le appartengono, blatera su un proprio ritorno in grande stile sulla scena, millanta praterie e galoppate future alla conquista della menti e dei cuori d’Europa, ma sono solo chili di trucco, quintali di fard scadente spalmati sulle gote esangui del cadavere. La sinistra s’immagina malata ma è morta.
Si prenda ad esempio il conflitto mediorientale nelle sue ultime declinazioni storiche e le relative forze in campo. Da una parte ci sono le orde dell’Isis, l’agente collettivo, mediatico e sanguinario del Caos. Poi c’è l’equivoco (eufemismo) blocco occidentale, con le petromonarchie del Golfo fiancheggiatrici dei jihadisti, il sempre serpeggiante Israele dietro le quinte, i turchi della nuova buffonata ottomana, gli europei servili e gli americani in testa, a fare da frontman alla farsa. E, infine, ci sono i russi, con Assad e gli iraniani, arroccati nell’unico fronte che l’Isis lo combatte davvero. Ora, a ben pensare, il conflitto è tutto interno a quelle che, novecentescamente, si potrebbero definire posizioni “di destra”: difficile immaginare la sinistra con i tagliagole e – se un barlume di ragione è ancora sopravvissuto nelle menti dei furono compagni – anche la pattuglia dell’imperialismo occidentale, degli americani produttori di armi e sganciatori di bombe intelligenti, non dovrebbe essere in cima alle preferenze. Rimane Putin che, sia detto per inciso, sarebbe la scelta giusta. Ma anche qui i rossi si defilano: lo Zar caccia le Ong, vieta la propaganda omosessuale, appoggia l’Iran teocratico che bandisce le calze a rete. E dunque? Dunque la sinistra traballa, viaggia senza un centro, senza un appiglio operativo, si liquefa e si disperde senza nemmeno poter più spendere la carta evergreen della pace e del dialogo (con chi? Con l’Isis?). In una parola, non c’è. Nello scontro fra fallaciani e putiniani, tra ultras dell’Occidente più bieco e sovranisti consapevoli, tra la propaganda della Santanchè e la controinformazione ragionata, il compagno fa tappezzeria. Vorrebbe aggrapparsi a Giulietto Chiesa, l’unico nome per lui spendibile, ma non può, perché il baffuto cronista è uomo troppo vicino al Cremlino e i compagni dell’Arci non approverebbero. Morale della favola: la condanna è al silenzio o alle speculazioni fuori tema, giusto per dare un cenno di vita fuori dal problema cruciale.
Si dirà, però, che questo è un ragionamento fuorviante, imbastito ad arte, e che altre sono le vere arene dello scontro. La sinistra, ci raccontano, è lì dove si combattono le battaglie per la casa (ai rom?), per la scuola (cioè la fabbrica dei bravi cittadini eurodemocratici), per l’università (vedi accanto, al doppio), per la cultura (idem, al cubo). La sinistra, ci raccontano ancora, è lì dove c’è il lavoro. La prima considerazione – fingendo di dimenticarci che il precariato in Italia l’ha introdotto proprio la sinistra col Pacchetto Treu – è che il lavoro non c’è più da un pezzo e non tanto per la crisi ma perché la meccanizzazione dei processi produttivi, organizzativi, cognitivi e gestionali ha progressivamente spazzato via la componente umana dalla filiera. È un dato che meriterebbe una analisi robusta ma apprestiamoci subito oltre perché l’obiezione è già dietro l’angolo: di là da tutti gli stravolgimenti in atto, qualcuno ancora lavora e la sinistra è lì dove si combatte per la difesa e/o l’aumento dei salari.
E qui ci tocca annoiarvi con una verità economica lapalissiana, difesa e sostenuta da qualunque economista non abbia preso la varicella il giorno in cui insegnavano i rudimenti macroeconomici all’università: a fronte di uno shock negativo proveniente dall’esterno si reagisce svalutando per aggiustare il valore della propria valuta in armonia con le mutate condizioni di mercato. E se non si può svalutare la moneta, perché magari il cambio è fisso, allora si svaluta il lavoro. La traduzione del concetto con le coordinate contemporanee non dovrebbe essere troppo difficile: la gabbia d’acciaio dell’euro ha dirottato il processo svalutativo sui salari. In altre parole, il tema della contrazione dei salari è legato a quello della moneta unica. E quali sono le posizioni in campo sull’argomento? Pronti al dejavu. Da una parte c’è la guardia pretoriana del potere usuraio, ci sono i difensori dell’euro per fede o sul campo, i governatori delle colonie mandati da Bruxelles. Dall’altra il solito fronte sovranista che dell’euro farebbe volentieri un ricco falò. Se ci pensate è la medesima contrapposizione dell’esempio precedente: Monti o Rajoy o Hollande o Renzi contro la Le Pen come prima avevamo la schiera euro-americana contro Putin. I fronti s’approssimano e, volendo, anche qui tutti de’ destra come sottolineerebbero i compagni veri, quelli tosti, che dal socialismo europeo prendono ogni giorno le distanze. Ma questi ultimi cosa pensano? Ancora una volta ci lasciano interdetti: blaterano di disuguaglianze (che sono l’effetto e non la causa), aggrediscono l’austerity e salvano l’euro, poi ci ripensano (come Fassina) e capovolgono la posizione. Ma mai fino in fondo. Insomma, o la sinistra gioca a fare la destra neoliberista o la confusione è totale. Per fortuna ci sono i migranti e la Tav su cui si può sempre dirottare la conversazione per scantonare da magre figure alla Tsipras, su cui abbiamo ampiamente ragionato altrove, o alla Podemos che aspettiamo al varo (e al varco) dell’ennesima, finta rivoluzione.
Epperò, per quanto osteggiati e ripudiati dai compagni tosti, gli Hollande e i Renzi sono comunque colonne dell’attuale centro-sinistra europeo. Che dunque, si obietterà, è ancora vivo ed al governo. Potremmo far quadrare il teorema semplicemente ricordando, come già fatto poche righe fa, la natura dell’azione politica di questi illustri signori, ma s’impone qui una digressione storica cui non desideriamo rinunciare. Da sempre, infatti, la sinistra è stata il motore ideale della modernità trionfante. Tutti i suoi dogmi ed i suoi miti di riferimento le appartengono di diritto: il progresso, lo sviluppo, l’uguaglianza, la centralità del lavoro, il contratto sociale, la laicità, le costituzioni, la democrazia rappresentativa e compagnia cantando. Ognuno di questi elementi ha contribuito alla distruzione dell’immaginario e delle strutture del mondo premoderno, per la gioia delle milizie imprenditoriali borghesi e del grande capitale che, finalmente, hanno potuto dilagare nelle selvagge praterie immanenti del mondo laico ed intellettualoide. Con grande stile, naturalmente, e con le vergogne ben protette della foglia di fico dei valori di cui sopra, quella che, in estrema sintesi, serviva a contrabbandare il nascente mondo dei banchieri come mondo delle democrazie e delle opportunità.
Il problema, ora, è che la foglia è volata via. Sono circa quarant’anni, infatti, che gli studiosi più avveduti – da Lyotard in poi – denunciano la “morte del moderno” cioè di tutto quel sistema ideale, culturale e politico che ne aveva mascherato l’azione attraverso le grandi narrazioni degli ultimi secoli e che oggi sopravvive, appunto, solo in quei “necrologi degli intellettuali” (Maffesoli), rimasti aggrappati alle vestigia del tempo che fu. Banalizzando, la sinistra ha servito la marcia della Storia e delle sue forze sovversive, presumendo di cavalcarla, ma è stata disarcionata dalla torsione repentina di un Potere che ormai declina il dominio oligarchico, usuraio e finanziario in un senso tutto post-moderno, senza veli ideologici né corpi intermedi, senza maschere democratiche né inni repubblicani, e lasciandosi dietro a marcire il cadavere della modernità. E con esso quello della sinistra, novecentescamente invecchiata, che ne aveva agevolato l’ascesa.
E, dunque, cosa sono i Renzi e gli Hollande? Sono le larve, l’ultimo parto del socialismo che fu, prima del sospiro finale. In costante omaggio alla vecchia massima di Spengler (“la sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza volerlo”), mai venuta meno, il patto col demone è stato reiterato, ma questa volta l’accordo è al ribasso cioè senza nemmeno la grancassa dei valori e dei princìpi a mimetizzare la livrea della servitù. Qui il servilismo si estrinseca allo stato puro: il socialismo europeo come prima colonna dell’oligarchia finanziaria e dell’imperialismo americano. Per soprammercato, la versione italica ha una marcia in più rispetto alle consorelle europee. Come ha acutamente notato il sociologo Marco Revelli quello di Renzi è un vero e proprio populismo ma più pericoloso degli altri in virtù di una malcelata logica di scambio: “Renzi raccoglie consensi con il suo illusionismo e li riversa sulle politiche gradite all’Europa come il Jobs Act, lo Sblocca Italia e le privatizzazioni. È la ‘Troika interiorizzata’, forse l’unico caso al mondo di populismo che solidarizza a pieno con il potere e lo aiuta”. L’Italia, si sa, è sempre un fertile laboratorio politico e chissà che, ancora una volta, non abbia tirato fuori dal cilindro l’ennesimo brand pronto all’esportazione su larga scala.
Non è finita qui, comunque. Poiché le disgrazie non vengono mai sole, c’è infatti una seconda larva a dimenarsi sul palcoscenico, se possibile più ributtante della prima. È quella della sinistra dei diritti individuali, dei pelosi pietismi umanitari, delle emergenze solidali a comando, dei Vendola e delle Boldrini, che fa lo stesso gioco della precedente, ma in maniera diversa. Questa volta l’aiuto non giunge tanto sul piano delle politiche neoliberiste e monetarie, quanto piuttosto esso si dipana sul versante della disgregazione delle identità. Il mondialismo, come noto, altro non è che una gigantesca macchina organizzata per livellare scientificamente ogni specificità spirituale, etnica, culturale, di genere, politica, artigiana, gastronomica, linguistica. Si tende al governo unico, al sistema di non-valori unico, alla lingua unica, alla religione unica (e il vago umanesimo del Bergoglio, si badi, è perfetto allo scopo). In sostanza, all’Uomo Unico, cioè un essere totalmente sradicato e culturalmente componibile, imbrigliato in una complessa articolazione di protesi digitali e, cosa più importante, integralmente controllabile.
Questo scenario orwelliano, lo sappiamo, è ancora parecchi passi più in là delle cronache contemporanee, ma il processo di transizione procede a tappe forzate tra meticciato imposto, dilagare del gender e delirio tecnologico travestito da residuo di progresso. Ciò nonostante, il compito è arduo, perfino per chi sta al volante, e ogni forma di aiuto si rivela ben accetta. E così, scorto un posto vuoto nell’orchestra mondialista, la sinistra boldriniana s’è accomodata da tempo per suonare i violini del Potere con grande perizia. Sa quando accelerare e quando fermarsi. Sa che deve aggredire i russi e gli iraniani sulla questione femminile ed omosessuale, ma sa, altrettanto bene, di non dover sfiorare i ben peggiori sauditi, alleati del padrone. Sa che può dileggiare l’austerity, ma senza discutere l’euro. Sa che può armeggiare con le leve della cultura, così come si fa con le fronde degli alberi, ma a patto che esse non conducano al disvelamento delle radici del problema.
Come in ogni performance che si rispetti, non c’è spazio per improvvisazioni. Il direttore dirige con la sua bacchetta lorda di sangue e la larva suona. Anzi, le larve suonano, felici di esserci ancora. Ed ogni cosa sarebbe al suo posto nel teatro degli orrori se non fosse per un unico, piccolo problema: il pubblico in sala sta iniziando a fischiare. Un lento brusio, sorto dal coraggio e dalla consapevolezza di pochi, che però rischia di tramutarsi in un controcanto soverchiante. Forse non oggi, forse non domani, ma dopodomani sì. E allora, guardateli bene quelli che sono sul palco: il direttore d’orchestra, i musicisti, le larve. Suonano e sorridono, è vero. Ma tremano. Eccome se tremano.

Giù il sipario. La farsa non funziona più

di Marcello D’Addabbo

La vittoria elettorale degli indipendentisti catalani non offre di certo nuova polvere ai cannoni della rivolta contro l’eurocrazia. Ma al netto delle professioni di europeismo venute dalla coalizione secessionista guidata da Artur Mas durante la campagna elettorale di queste infuocate elezioni per il rinnovo del parlamento regionale catalano, non si può certo affermare che questa scossa sismica non sia sottilmente legata al vento che tira in molti paesi dell’Ue. L’eccezione della Candidatura d’Unità Popolare (Cup), formazione catalana antieuropeista e contraria alla Nato che ha ottenuto l’8.2% dei voti vale a ricordarlo. Per quanto la questione catalana venga da lontano e si accompagni a ragioni economiche ed istituzionali interne alla realtà spagnola, questa spinta elettorale oggi è rinvigorita dall’inerzia del governo di Madrid di fronte ai vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. Le ricette eurocratiche di austerity pedissequamente eseguite da Mariano Rajoy ovviamente impediscono, come accade in Italia e in altri stati Ue “sorvegliati speciali”, di effettuare manovre keynesiane di spesa pubblica, di avere la mano libera nei trasferimenti finanziari agli enti locali o in eventuali riduzioni della pressione fiscale.
In questo opprimente clima di sudditanza e di autocensura dei governi nazionali ormai desovranizzati e dopo il crollo delle speranze greche di riscossa maturate con Syriza, perché dunque continuare ad illudersi inutilmente in un recupero della sovranità nazionale quando si può, in tempi più rapidi, strapparne una locale? Il progetto è meno molto ambizioso, certo, ma anche meno utopistico se si ha presente la tenuta dei politici al momento sulla scena. Il sospetto che il giovane e imberbe Pablo Iglesias e il suo fresco movimento popolare Podemos, dopo roboanti campagne di autodeterminazione nazionale militate in primavera a fianco dei greci, una volta vinte le elezioni il prossimo dicembre offra lo stesso miserevole spettacolo del governo di Alexis Tsipras ha probabilmente rinforzato l’adesione popolare ai partiti catalani che caldeggiano una rapida secessione di Barcellona dal Regno di Spagna.
Il piccolo episodio catalano sembra inquadrarsi nel contesto più vasto della grande ondata di sfiducia degli elettori europei negli stati nazionali e, soprattutto, nella politica dei partiti tradizionali che hanno dominato la scena a partire dal secondo dopoguerra. Proprio le ultime elezioni greche hanno mostrato una diserzione di massa delle urne (ha votato un greco su due). Risultato che, al di là della risicata prevalenza di Syriza (ora salutata da entusiastici tweet degli eurofalchi Dijsselbloem e Shulz!), costretta comunque a ribadire l’alleanza con i conservatori di Anel, si è caratterizzato per l’inedita scomparsa dallo scenario politico greco del Pasok. Il partito socialista che ha governato il paese per quarant’anni in alternanza con il centrodestra, alle ultime elezioni di settembre ha ottenuto poco più del 6%. Non è sparito del tutto soltanto grazie ad un accordo elettorale con Dimar, la Sinistra democratica, nata dalla scissione di Synaspismos, partito da cui si è originata Syriza. La storica colonna del socialismo europeo in Grecia si è sgretolata. In questo scenario di sfiducia e astensionismo Alba Dorata, la cui dirigenza è letteralmente dietro le sbarre, è diventato il terzo movimento politico ellenico con oltre il 7%. In Inghilterra si assiste all’elezione di Jeremy Corbyn alla guida del Labour, da sempre l’anti-Blair, un militante anti-Nato che ha affermato “la Nato doveva essere sciolta con la caduta del muro di Berlino e la fine del patto di Varsavia”. Un’altra colonna del socialismo europeo che stavolta, però, affronta una metamorfosi interna per non scomparire, dopo l’impopolare cura euro-atlantica imposta negli anni di Tony Blair e dell’intervento militare inglese in Iraq. Soltanto in Italia il blairismo è ancora di moda e infatti Renzi non ha mancato di bollare pubblicamente la vittoria di Corbyn come atto si autolesionismo di un partito che si vota alla sconfitta.Corbyn-800x500Per Renzi bisogna vincere le elezioni e non fare politica, l’immediato profitto elettorale viene prima di qualità, contenuti, strategia e visione di lungo periodo della società che si intende governare. È la mentalità borsistica applicata alla politica, quella dei dati sui profitti trimestrali delle società quotate che orientano i mercati finanziari in continue oscillazioni come fossero branchi di pesci impazziti. Che la “volatilità elettorale”, per utilizzare un termine mutuato dai mercati, sia dovuta proprio ad anni di moderatismo inetto e non al radicalismo politico, che al contrario del primo in questa fase paga enormemente di più in termini di crescita dei consensi, non sfiora la mente di Renzi neanche per un istante. Il ragionamento che ha portato l’ex rottamatore a questa pubblica boutade, ripresa da tutti i quotidiani britannici, oltre a finalità interne al partito è legato ad uno schema vecchio. Le elezioni, infatti, si “vincevano al centro” negli anni Novanta, quando le tasche erano piene, la classe media godeva di un discreto benessere, l’austerità era un proposito per l’anno nuovo e i popoli del Sud del mondo, anche quelli più disgraziati, tendevano per lo più a restare nel proprio paese. Capire il momento storico attuale, lo spengleriano zeitgeist, è uno sforzo che va al di là alle sue capacità.  Così, appena i sondaggi mostrano l’inevitabile incrinatura, deve promettere il taglio dell’imposta sugli immobili, esagerare una ripresa economica che nei fatti nessuno ancora vede, bacchettare televisioni e giornali quando forniscono dati diversi da quelli vagheggiati dal governo e bollare come pessimisti e gufi gli avversari dello storytelling. Poco importa che il jobs act porti il timbro di vidimazione della Cancelleria tedesca, perché tanto l’incessante marketing mediatico e i battiti di ciglia delle ministre carine riusciranno a coprire la realtà con la fiction. Ma la realtà continua a ricordare a chi ha memoria che Renzi non è stato neanche eletto ed è alleato con Alfano, sostenuto da una maggioranza che si regge su ex montiani, ex berlusconiani di Verdini, nel terzo governo italiano di “larghe intese” costruito per volontà di Napolitano al fine di arginare l’ascesa del movimento di Beppe Grillo. É utile ricordarlo perché tutti in Italia fanno finta di esserselo dimenticato.
Una sveglia dal torpore potrebbe venire da un rapporto del Parlamento europeo pubblicato da “Limes” che stila una classifica dei paesi dove l’euroscetticismo è stato più presente negli ultimi due anni confrontando le percentuali dei voti ottenuti da movimenti e partiti nemici dell’euro in consultazioni nazionali o europee. Medaglia d’oro: l’Italia con il 37,6% dei consensi, dati complessivamente a M5S e Lega Nord alle scorse elezioni europee. Segue la Polonia con il 34,76 % dei consensi ottenuti dal partito Diritto e Giustizia di Andrzej Duda eletto poi Presidente al secondo turno. Di seguito è menzionata la Grecia di Syriza che ora faticheremmo a definire antieuropeista, mentre al quarto posto si pone la Francia con il Fn della Le Pen al 22.2%. Infine seguono in ordine Danimarca, Austria e Finlandia. Diverte constatare che il paese che ha ospitato la firma del Trattato di Roma, istitutivo della CEE nel 1957 sia anche quello che oggi più di tutti gli altri vorrebbe liberarsi della morsa eurocratica. Siamo i primi antieuropeisti d’Europa e nessuno lo dice. Secondi solo all’Ungheria di Orban che però nella moneta unica non è mai entrata e anzi se ne guarda bene. Se questo semplice dato fosse ripetuto ogni giorno su tutti i telegiornali con la stessa forsennata costanza con la quale il renzismo fa i suoi gargarismi quotidiani, dell’Ue non ci sarebbe più traccia. Comandare è far credere, aveva ragione Niccolò Machiavelli, motivo per cui gli italiani probabilmente continueranno a votare Lega e Cinque Stelle facendosi però convincere da Riotta e Lilli Gruber di essere lo stesso grandi tifosi dell’Ue. Anzi, il popolo più europeista d’Europa! È il muro di gomma dei mass media a generare questa ipnosi collettiva. Complessivamente il calo di consensi ai partiti delle due famiglie politiche europee che reggono la farsa del finto bipolarismo (Ppe-Pse) è vistoso e apparentemente irreversibile. Se la sinistra inglese per non morire si radicalizza, Cameron tallonato elettoralmente da Farage ha dovuto concedere agli inglesi un referendum per rimettere in discussione l’adesione del Regno Unito all’Ue.

2015-07-07t175558z_1737681379_gf10000151659_rtrmadp_3_eurozone-greece_6e3bea53ae7121875da86ccb4d533314.nbcnews-ux-2880-1000I socialisti di Hollande in Francia sono elettoralmente annichiliti quanto i loro colleghi greci, mentre dall’altra parte Nicolas Sarkozy cerca di accordarsi con loro sui candidati alle prossime elezioni politiche e in modo da arrivare al secondo turno delle presidenziali con in mano un accordo che impedisca a Marine Le Pen di diventare Presidente della Repubblica nel 2017. Si gioca di rimessa ormai, organizzando tattiche di contenimento per arginare l’avanzata del nemico esistenziale. Senza grandi idee. In Germania governa la grande coalizione, cioè le larghe intese, mentre in piazza raccolgono consensi crescenti Pegida e Alternative Für Deutschland. Il panorama è uniforme: nessun partito democristiano moderato, socialista riformista o liberale può tornare a governare da solo un paese europeo. La maggioranza degli europei non si fida più di loro e della loro finta contrapposizione. La rappresentazione teatrale su cui si è retta per anni l’Ue non regge più, non è credibile e gli spettatori un tempo inerti cominciano a fischiare gli attori. La crisi economica ha certamente influito su questo risultato, riducendo le capacità corruttivo-clientelari di questi grandi partiti di massa interclassisti, ma è anche diventato troppo evidente alla prova del governo nazionale che essi seguono direttive prefissate, rispondendo ad assetti geopolitici sovraordinati al di là di quello che possono promettere in campagna elettorale. Si tratta di un dato ormai storico.
Nel lontano 1981 Andreas Papandreou diete vita al primo governo socialista nella storia greca dal 1924. Aveva promesso in campagna elettorale il ritiro della Grecia dalla Nato e dalla Comunità Economica Europea. Una volta al potere cambiò posizione rispetto ad entrambe le istituzioni. Non vi ricorda il percorso di qualcuno nella recente trattativa sul debito affrontata con la Troika europea? Certo, almeno Papandreou ebbe la decenza di non indire un referendum sostenendolo con una campagna enfatica per poi rinnegare tutto e venire a patti con il nemico appena si chiudono le urne (la guerra fredda imponeva uno stile). Anche i socialisti spagnoli vinsero le elezioni pronunciandosi espressamente contro l’allora recente ingresso della Spagna nella Nato. Ingresso poi regolarmente confermato ad urne chiuse dal governo socialista di Felipe Gonzales. La sostanza non cambia, il gioco del prometti e subito dopo rinnega ormai è scoperto. E si meravigliano che la gente non li voti più? Una volta al governo e ovunque vi siano stati, socialisti e popolari europei erano e sono tutt’ora pronti: ad applicare le ricette di austerità della troika; a precarizzare il lavoro e deprimere le retribuzioni onde “cinesizzare” i lavoratori europei al fine di provocare un ritorno di capitali dai paesi emergenti (magari accelerando tale processo con una bella iniezione di lavoratori immigrati); dare maggiori poteri alle banche (partecipazione dei correntisti alle perdite della banca attraverso il meccanismo europeo del Bail-in); deregolamentare il mercato per esaudire ogni richiesta delle multinazionali (si veda il sostegno unanime al TTIP); partecipare alle sanzioni contro stati sovrani colpevoli di essere tali al contempo essendo anche possessori di materie prime, e, infine, sostenere le campagne militari del Pentagono sempre anticipate da incessanti campagne massmediatiche di mistificazione umanitaria (come nella migliore tradizione del “bipensiero orwelliano”). Berlusconi nel 2011 su pressione “anglo-franco-napolitana” ha dovuto pugnalare alla schiena in mondo visione l’amico Gheddafi, il leader berbero che un paio di anni prima di vedere Tripoli sommersa da una pioggia di missili Cruise aveva dormito in una tenda a Villa Pamphili tra amazzoni e felliniane parate di beduini. Sono traumi collettivi che restano nella memoria e sedimentano una sfiducia destinata ormai a diventare il fattore elettorale permanente.
Prepariamoci ad anni di astensionismo, secessionismo, populismo sempre più aggressivo ed efficace. In varie forme, assisteremo ad una lunga lotta per la sovranità dei popoli. L’inconsistente Europa degli Hollande, Rajoy e Renzi è troppo debole per resistere a questo costante sgretolamento politico ed elettorale. Non li ha salvati l’effetto emotivo generato dalla strage di “Charlie Hebdo”, non li salverà l’ottimismo forzato di Renzi né la campagna mondiale di denigrazione montata contro Victor Orban in occasione della costruzione del muro ungherese anti-immigrati, con tanto di riesumazione dai sarcofagi della storia della vecchia retorica antifascista da usare come estintore in caso di emergenza. Le fiamme stavolta sono tropo alte. Non funziona.