IRAN. Rohani e il nuovo corso. Una buona mossa?

rohaniTutto è stato rimandato al 20 novembre. I negoziati ginevrini dello scorso fine settimana fra l’Iran del neoeletto premier Hassan Rohani e il blocco del 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) non hanno infatti prodotto nessun risultato concreto, ma solo qualche “passo in avanti” verso i termini definitivi cui la trattativa dovrebbe condurre: una riduzione del programma nucleare iraniano in cambio di un sostanzioso allentamento delle sanzioni economiche imposte alla Repubblica Islamica.

Ad essersi messa di traverso, complicando l’evolvere del negoziato, è stata la Francia che, per bocca del suo ministro degli esteri Laurent Fabius, ha energicamente richiamato l’assemblea tutta a contemplare anche le “preoccupazioni di Israele” e a “non fidarsi dell’Iran”. Citando così implicitamente le parole del premier Netanyahu che aveva dipinto Rohani, ispiratore del nuovo corso insieme alla Guida Suprema Khamenei, come un “lupo travestito da agnello”. Una vicinanza, questa fra Parigi e Tel Aviv, che si era già palesata in occasione del paventato attacco alla Siria che Hollande aveva caldeggiato, scontentando gli alti gradi dell’esercito francese e rimanendo, quando gli americani hanno fatto dietrofront, lui unico e solo, con il cerino in mano. Insomma, la Francia socialista è, al momento, il più volenteroso alleato di Israele o forse l’unico disposto a farsi megafono delle sue più aggressive intemperanze.

È questo un profilo che Obama ha dismesso da tempo. Desideroso di concentrare i propri sforzi sull’accerchiamento del gigante cinese (il celebre pivot to Asia) e ben consapevole dell’impossibilità americana di combattere a tutto campo e in ogni zolla del mondo, il Presidente sta da mesi attuando una progressiva opera di decongestione dell’area mediorientale. Che, tradotto in termini operativi, non significa affatto una mesta rinuncia al tradizionale ruolo egemonico degli Stati Uniti, quanto piuttosto un esercizio dello stesso basato su guerre per interposta persona, esattamente come accaduto con i ribelli in Siria. Il punto debole di tale strategia, oltre alla inaffidabilità dell’alleato sul campo (nella fattispecie wahabiti e salafiti), è il rischio che la situazione imponga ugualmente una discesa in campo per la spallata finale. E qui sorge il problema: Obama non può e non vuole, mentre Israele scalpita e utilizza ogni mezzo di pressione possibile (e sono tanti) sulla Casa Bianca e, soprattutto, sul Congresso americano.

In uno strano gioco dei paradossi, è presumibile ritenere che Obama sia stato profondamente grato al tandem “nemico” Putin-Assad per aver imposto a tutte le parti in causa, con furbizia, una exit strategy diplomatica che lo ha messo nell’angolo e sottratto dall’incubo di dover attaccare. Apparentemente una sconfitta, in realtà una vittoria. Allo stesso modo, il volto disteso e più conciliante dell’Iran di Rohani offre il destro ad un percorso negoziale e lega le mani ad Israele. Le uscite aggressive di Netanyahu appaiono, ora, sempre più fuori luogo, e forse gli israeliani iniziano a rimpiangere i bei tempi in cui Ahmadinejad forniva loro, ogni settimana, un nuovo e diverso motivo per suonare le fanfare della guerra.

Ciò detto, si potrebbe pensare che la nuova politica iraniana preluda ad un grande cambiamento interno. Non è così. È semplicemente una tattica per sopravvivere e disinnescare un conflitto da cui Teheran non uscirebbe comunque illesa e che i russi – gran consiglieri dell’operazione – non desiderano far detonare. Se Rohani non è un lupo, è probabilmente una “volpe travestita da agnello”, ma non è affatto sicuro che tanta astuzia diplomatica conduca al risultato sperato.

La Storia insegna che, in linea di massima, chi (come Mubarak o Saddam) è disposto a dialogare, anche solo per un attimo, con l’Occidente quasi mai sopravvive, mentre coloro che si arroccano nel proprio fortino, senza alcuna volontà di apertura, resistono e riescono a reiterare nel tempo la propria azione. Certo, questi ultimi (ad esempio la Corea del Nord) patiscono intimidazioni giornaliere, scomuniche in sede internazionale, isolamento economico e politico, ma di fatto restano sempre in piedi. Nonostante la scelta isolazionista apparentemente suicida.

L’Iran non sfugge alla regola. L’integralista Ahmadinejad, duramente sanzionato e costantemente minacciato di guerra, ha guadato la propria stagione. Di là da ogni valutazione, è sopravvissuto. Riuscirà Rohani a non farsi travolgere?

Figli d’America

Aaron+Alexis+mug+better

Procedono con una lentezza spaventosa le indagini americane sulla strage di lunedì al Navy Yard di Washington. L’unico dato certo è il bilancio delle vittime: dodici, con otto feriti da aggiungere alla lista. E poi c’è il nome del colpevole, Aaron Alexis, un ragazzone di colore ex riservista della marina e assunto a contratto come tecnico informatico nel quartier generale, che ha fatto fuoco all’impazzata dopo aver incredibilmente (sic) superato, armi alla mano, tutti i controlli del caso.

Per il resto, i contorni della fotografia si dissolvono nella solita nebbia di contraddizioni. I sopravvissuti dicono di aver visto altri due uomini sparare. Poi uno solo, infine nessuno. Non ci sono complici. Ha fatto tutto Alexis, da solo, ed è il lui l’unico responsabile, il mostro in solitaria del Navy Yard crivellato di colpi dalla polizia (suicide by police, dicono eloquentemente gli americani in questi casi) e, dunque, ormai impossibilitato a spiegare il folle gesto. I morti non parlano, purtroppo o per fortuna.

Eppure la circostanziata confessione dello stragista, evento in America più raro dell’acqua nel deserto, avrebbe fatto comodo innanzitutto ai maggiori quotidiani, impegnati in una vorticosa gara di imprecisioni. La story line, faticosamente ricostruita, è la seguente. Alexis – prima di essere inviato quattro mesi fa a Washington e all’interno di una carriera spesa soprattutto a Fort Worth in Texas – aveva servito la marina fra il 2007 e il 2011 anche se nessuno riesce a capire se sia mai stato spedito sul campo di battaglia. Di certo, il nostro aveva partecipato ai soccorsi il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle, guadagnandosi una medaglia d’oro e un post traumatic disorder. Da qui in poi la vicenda si fa pittoresca: era buddista, studiava il thailandese, bramava una donna asiatica, aveva il pugno facile e gli era capitato di aprire il fuoco già due volte, in casa e all’aperto. Alexis era, insomma, un violento perseguitato dalle immancabili “voci nella testa” e da tremiti che coglievano improvvisamente il suo corpo.

In una parola, era un folle. Il che, però, non elude la domanda sulle ragioni della strage. Qualcuno, timidamente, ha provato a buttare sul tavolo il passepartout: terrorismo. Ma è stato silenziato all’istante. Come dimostra il basso profilo adottato nelle celebrazioni per l’11/9, non è il momento di aizzare l’opinione pubblica americana contro Al Qaeda, alleato prezioso in Siria. Quindi si passa al piano B: Alexis, nella sua lunga permanenza in Texas, ha assorbito e fatto proprio l’odio sudista contro Washington, cuore e cervello del potere sionista accentratore. Sarebbe, insomma, un neonazista con qualche problema di pelle. Ma, anche questa volta, la raffica è a salve.

Lo stesso Obama si è trincerato dietro un vago giudizio di circostanza, “è un atto di codardia”, premendo l’acceleratore solo in riferimento all’urgenza di aumentare i controlli sul passato di chi fa richiesta di armi. Se siete “pericolosi”, moralmente o, chissà, anche politicamente, nulla vi sarà dato. Un accorgimento che potrebbe rivelarsi prezioso in vista del crollo economico e finanziario che, a detta della maggioranza degli analisti, attende dietro l’angolo gli Stati Uniti e che porterà in piazza milioni di persone furenti. Da disarmare al più presto.

Dunque, cosa resta? Resta un ragazzo “ready to move out of the country” cioè pronto a scappare da una società in cui non si ritrovava più. E in cui sbatteva da un muro all’altro come una trottola impazzita: meditava, faceva a pugni, sognava l’Oriente, sparava al camion del vicino. Alexis è un figlio dell’America e dalla sua anima nera, un anonimo topolino partorito dalla montagna della follia. Se l’hanno usato o ha pianificato tutto da solo, se il suo è stato un gesto solitario o da inserire, ad esempio, nella più ampia “rivolta dei militari” stravolti da un decennio orribile, è troppo presto per dirlo. Serviranno altri elementi che, però, non rovesceranno il quadro d’insieme. Benvenuti in America, ancora una volta.

*Pubblicato su barbadillo.it

ANDREOTTI, gli americani e quella verità che non si può raccontare

AndreottiBeppe Grillo sosteneva, divertito, che “quando morirà Andreotti gli toglieranno la scatola nera dalla gobba e finalmente sapremo la verità”. Sui misteri d’Italia e sui misteri di un uomo che non è mai uscito dalle inquadrature della storia: “A parte le guerre puniche – lamentava giustamente – mi viene attribuito veramente di tutto”. Ma non c’è bisogno di una autopsia di regime sul cadavere del Divo per raccontare quello che i documenti del Dipartimento di Stato americano, divulgati in Italia dal quotidiano “La Stampa”, spiegano con dovizia di particolari.

Nella prima parte della sua epopea politica, Andreotti si era fatto apprezzare senza riserve oltreoceano quale interlocutore affidabile e capace, di sicura fede filo-atlantica e di certa, inflessibile fermezza occidentalista. Washington non avrebbe potuto augurarsi di meglio per i futuri destini propri e del satellite-Italia. Poi qualcosa si inceppa e il soldatino cambia senso di marcia.

Sulla scena irrompe uno dei pochi “eroi civili” (ammesso che tale definizione abbia un senso) di questo Paese. È Enrico Mattei, ex-partigiano, democristiano, industriale, che osa sognare una politica energetica autonoma per l’Italia. Trivella la Val Padana in cerca di gas e petrolio, interloquisce con i produttori del terzo mondo, stringe accordi con lo Scià di Persia bypassando il cartello anglo-americano delle Sette Sorelle, oligarchia del settore. L’Italia entra senza chiedere permesso e pronuncia, nei fatti, la parola impronunciabile: “Sovranità”. Un peccato mortale, quello dell’emancipazione dei servi, condito da una ulteriore, ferale notizia: Andreotti lo sta aiutando.

Per Giulio è solo il primo passo del nuovo corso. In pochi anni serra i rapporti con il mondo arabo, apre al commercio con l’Urss, dialoga, o sembra voler dialogare, con Berlinguer e gli eurocomunisti. Dove è finito l’amico yankee? Non c’è risposta, in compenso la realtà parla chiaro: “L’Italia – scrive Maurizio Molinari – iniziava ad ondeggiare verso il terzomondismo”. E si continua così anche negli anni successivi. Andreotti è il regista della Dichiarazione di Venezia sul Medio Oriente (1980) che concede una apertura europea all’Olp di Arafat e supporta il governo Craxi, sui cui pure gli americani avevano puntato con fiducia, nella crisi di Sigonella del 1985, uno dei rari istanti in cui siamo stati una nazione.

Washington è in trappola: da una parte Andreotti e Craxi sono indispensabili per contenere il PCI, e quindi non è possibile disfarsene, dall’altro però la loro ostinazione nel tutelare l’interesse nazionale è divenuta insopportabilmente fastidiosa. Gli americani sono su tutte le furie e Andreotti, per giunta, ambisce al Quirinale. Ma si tratta solo di aspettare. Con il crollo del Muro nel 1989, autoestintosi il pericolo comunista, si accende il semaforo verde sulla decapitazione della Prima Repubblica. Dopo aver sorvolato per decenni su tangenti, mazzette, ruberie e clientele di ogni tipo, la magistratura italiana si desta improvvisamente, buttata giù dal letto dagli americani, e fa piazza pulita dei partiti in nome della moralità pubblica (sic). La globalizzazione monocolore può finalmente iniziare.

* Pubblicato su barbadillo.it

PS. E Andreotti? Per lui c’è stato molto di peggio, l’accusa di associazione mafiosa ed il processo che inizia, ufficialmente, il 27 marzo del 1993. Il primo a parlare di una “entità” alle spalle di tutti, un protettore occulto e potente, uno “zio” da cui i mafiosi ricevevano protezione, era stato il pentito Tommaso Buscetta in una conversazione con Falcone di quasi dieci anni prima. Scrive Gaetano Rizzo Nervo nel suo interessante saggio Il caso Lucky Luciano: “Un cordone ombelicale ha sempre legato la CIA alla mafia e non è mai stato reciso, secondo le prove esistenti. Perché meravigliarsi ora che la Cia possa aver pilotato Tommaso Buscetta in funzione […] anti-Andreotti cioè per l’eliminazione dalla scena politica di una persona invisa, in quel momento storico, ad una fascia ben individuabile della nomenklatura americana? Singolare il fatto che Buscetta risulterebbe arruolato nel 1966 , dopo appena cinque anni dalla morte, per cause naturali, di Lucky Luciano”. Cioè il boss “amico” che gli americani contattarono per organizzare lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943. Vendetta, tremenda vendetta.