GLI ULTIMI VELENI DELL’ECO-MOSTRO

di Leonardo Petrocelli

È ufficialmente partita la caccia agli imbecilli 2.0. A dare lo start, il semiologo, saggista e romanziere Umberto Eco dal pulpito dell’Università di Torino, ove, una manciata di giorni fa, ha ritirato la laurea honoris causa in “Comunicazione e cultura dei media” dopo una lectio magistralis sulla sindrome del complotto. “I social danno diritto di parola a legioni di imbecilli – ha tuonato l’autore de Il nome della rosa – che in altri tempi invece parlavano solo al bar dopo tre o quattro bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società. Di solito, venivano messi a tacere dai compagni”.
Indubbiamente, i social tutti, senza distinzione, ospitano legioni di mentecatti in libera uscita. Ma non è contro le ragazzine che si sdilinquiscono per il cantante americano di turno né contro i vitelloni che chattano solo di donne&motori che Eco ha indirizzato la propria furia castigatrice. L’obiettivo è un altro e ben circostanziato: “Le bufale e le riletture storiche fantasiose”. Non saremo certo noi a negare che tra rettiliani, catastrofi di ogni tipo e improbabili invasioni galattiche, la rete metta sul tavolo una pletora di sciocchezze, accanto alle quali, però, si producono analisi preziose e ben circostanziate. Ma il gioco è proprio questo: gettare via il bambino con l’acqua sporca, far leva sulla parte (marcia) per rimuovere anche il resto (sano). Il web come sempiterna notte dell’informazione in cui tutte le vacche sono nere.
Dunque, cari signori, gli imbecilli siete anche voi. Voi che mettete in discussione l’ideologia gender svelando chi la finanzia, voi che argomentate sui massacri della tecnocrazia europea, voi che portate in emersione il deep state americano e le sue strategie geopolitiche. Voi che difendete Putin dall’influsso mortifero delle Ong prezzolate (o dai nazisti di piazza Maidan supportati dalla Nuland), voi che vi interrogate su chi o cosa permetta ai tagliagole dell’Is di continuare ad esistere, voi che non sottoscrivete i miti di plastica confezionati dai cantori ufficiali della Storia. Sì, proprio voi, complottisti maledetti, che pericolosamente studiate e approfondite, senza farvi tranciare la lingua dal rasoio di Occam secondo cui la prima evidenza, quella che vi raccontano, è sempre l’abito che meglio si attaglia alla verità.
Voi imbecilli, insomma, che oggi avete, è ancora Eco a sentenziare, “lo stesso diritto di parola di un premio Nobel”. Affermazione audace e forse pericolosa per gli stessi ultras dell’informazione mainstream se, per esempio, si considera che un blocco di ben sei Nobel – Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Milton Friedman, Christopher Pissarides e James Mirrleess – si è lanciato, seppur in modi e tempi diversi, nella contestazione del dogma dell’euro. E tuttavia quando si lambiscono tali sponde, i Nobel diventano un po’ meno Nobel e improvvisamente non li ascolta più nessuno. Casualità, senza dubbio, o può darsi questione di preferenze. Forse Eco amerebbe ascoltare solo alcuni Nobel, ben selezionati, come Barack Obama (2009) o l’Unione Europea (2012), silenziando tutti gli altri, soprattutto quelli le cui considerazioni si armonizzano – orrore, orrore – con le teorie degli imbecilli.
Di certo il Nostro, ormai inservibile alla causa politica (il grande regalo della postmodernità al mondo è stato quello di aver spodestato gli intellettuali organici), si è da tempo riciclato sul versante della difesa del conformismo narrativo e interpretativo. Aveva iniziato con il volume 11/9. La cospirazione impossibile, scritto in illustre compagnia (Odifreddi, Shermer, Attivissimo e altri campioni) e tutto votato al sostegno della Verità di Stato sull’attentato alle Torri Gemelle. Per poi proseguire l’opera con due romanzi in successione – Il cimitero di Praga (Bompiani, 2010) e Numero Zero (Bompiani, 2015)- dedicati rispettivamente alla creazione dei Protocolli dei Savi di Sion e alle ombre della Prima Repubblica, dalla P2 a Gladio. Con quale taglio argomentativo è forse superfluo precisarlo.
Ma, poiché i libri escono solitamente a grande distanza l’uno dall’altro, è principalmente la quotidianità a preoccupare Eco e quanti si sono accodati alla sua reprimenda, a cominciare da quel Papa Francesco tanto amico di “Repubblica”. Da cui l’idea di resuscitare il vecchio rito hegeliano della lettura mattutina del giornale. Anzi, meglio, di quei pochi giornali autorevoli che dovrebbero farsi carico anche di filtrare le informazioni del web. Una falange compatta e strapagata (anche da noi, oltre che, a seconda dei casi, dalla Fiat, dalla Confindustria, dalla finanzia, dalle grandi imprese e etc etc), armata per falciare via i blogger cattivi che uccidono il mondo dal buio delle loro camerette. Eccolo qui, dunque, l’Eco-pensiero oligarchico e accentratore: l’informazione nelle mani di pochi e ben selezionati “professionisti” (magari a libro paga come da confessione di Ulfkotte) e tutto il resto giù nella spazzatura, a meno che, precisa il semiologo, i blogger non si occupino di dar fiato alla dissidenza interna, possibilmente contro governi sgraditi al fronte occidentale. In tal caso, contrordine e indietro tutta: i social vanno benissimo e la loro funzione è positiva. Per il resto, l’umanità deve continuare a credere che quattro “cammellieri con l’asciugamano in testa” (la citazione è cinematografica) abbiano portato un attacco straordinario al cuore dell’impero più potente del mondo. Sia fatto silenzio e nessuna obiezione.
Miserie di un dinosauro del peggior Novecento. Le cui parole, però, richiamano alla mente quelle pronunciate nel 2010 dallo stratega Zbigniew Brzezinski al Forum Europeo per le Nuove (sic) Idee: “La presa di consapevolezza collettiva ed i social network sono una minaccia per lo sviluppo dell’agenda globale. Un movimento mondiale di resistenza populista sta minacciando di fare deragliare la transizione verso un nuovo ordine mondiale”. Il problema di chi ci governa e dei loro scrivani è tutto qui. Gli imbecilli fanno paura. Eccome.

ALZI LA MANO CHI NON GLI ASSOMIGLIA

di Leonardo Petrocelli

Se non l’avete ancora visto lo vedrete presto, perché The Imitation Game (2014) di Morten Tyldum è uno di quei film (pre)destinati a fare incetta di Oscar e a diluirsi nella rete con migliaia di contributi interpretativi e storiografici. Dunque, non crediamo di ledere il legittimo diritto alla sorpresa facendo un po’ di spoiler sulla vicenda raccontata dalla pellicola. Ci troviamo in piena Seconda Guerra Mondiale, i nazisti spadroneggiano in tutta Europa e non sembra esserci modo di fermarli sul campo. Per assicurarsi un vantaggio sul nemico, gli alleati avrebbero bisogno di decriptare i codici segreti che i tedeschi utilizzano, grazie alla macchina Enigma, per coprire le proprie strategie. E qui entra in scena Alan Turing, geniale matematico e crittografo ebreo-britannico, arruolato dall’esercito di Sua Maestà in una unità di crittoanalisi con l’unico obiettivo di decifrare l’indecifrabile. L’impresa, come storicamente noto, andò a buon fine, accorciando – così ci raccontano – la guerra di quasi due anni e salvando la vita a milioni di persone.

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SANGIULIANO: “L’Italia? Paese di ‘partigiani’ con una Costituzione sovietica”

LIBRO FELTRI-SANGIULIANOUn paese frammentato, diviso, litigioso, senza una missione nella storia e privo di un collante identitario che distolga il cittadino dalla contemplazione dei fili d’erba del proprio orticello e lo proietti in una dimensione comunitaria. È questa l’Italia raccontata nel volume Un Repubblica senza Patria. Storie d’Italia dal 1943 ad oggi (Mondadori, pp. 300, euro 19), scritto a quattro mani dai giornalisti Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano. Un sodalizio di lunga data, il loro, che prevede nella fattispecie una ferma divisione dei ruoli: se a Feltri spetta la cronaca più recente, dagli anni Settanta ad oggi, a Sangiuliano – scrittore, docente universitario e vicedirettore del Tg1 – tocca invece raccontare quel significativo arco di tempo che muove dall’ 8 settembre e giunge fino alla fine dei Sessanta. Un lavoro di ricerca storica, dunque, per comprendere, fin dalle premesse, perché la parola Italia appartenga sempre più solo al lessico calcistico.

SANGIULIANO, perché parlate di una Repubblica senza patria?

“L’Italia è uno Stato solo in termini amministrativi e giuridici, è un apparato a tenerci uniti. Ma non siamo certamente una patria cementata da quell’idem sentire di cui parlarono Vico, Fichte e le Avanguardie del Novecento. Di fatto, siamo rimasti tutti profondamente partigiani, attaccati al nostro piccolo particulare come direbbe Guicciardini. Ed è una maledizione che attraversa anche la storia contemporanea, dove non ci sono avversari politici ma solo nemici. In realtà, la guerra civile non è mai finita, ma è proseguita, a bassa intensità, fino ad oggi”.

Quando si parla di unità nazionale c’è sempre chi si richiama immediatamente alla Costituzione cui lei, però, non risparmia accuse…

“Lungi dall’essere la più bella del mondo, la nostra Costituzione è buona solo nella prima parte. Poi si avverte il peso di quella contrattazione dalla quale sorse il testo definitivo. Il Partito Comunista ebbe buon gioco nell’inserire, nel segmento economico-sociale della Carta, interi stralci della costituzione sovietica del 1936. Un ‘copia e incolla’ di cui Togliatti si vantò a lungo. Il risultato è che, diversamente da ogni altra costituzione europea, in quella italiana non compare mai la parola impresa, segno di una prospettiva ideologica anti-liberale e nemica dell’iniziativa economica privata”.

Dalla sua analisi emergono, poi, due vizi oscuri del nostro Paese. Il primo è quello del “conformismo nazionale”. A cosa si riferisce?

“Quando parlo di conformismo nazionale o dittatura del politicamente corretto mi riferisco a quel doppio piano di lettura della realtà onnipresente nel nostro dibattito. Dal circuito politico e mediatico rimbalza sempre una visione convenzionale, ipocrita, ammorbante che, poi, gli stessi personaggi stravolgono quando dialogano fra loro nelle segrete stanze.”

A questo proposito, il caso più eclatante è quello dell’Europa…

“Negli ultimi vent’anni da ogni parte è stata esibita una continua retorica dell’Europa, ma nessuno ha osato dire che l’unione continentale si è rivelata un fattore penalizzante per il nostro sviluppo. Con i 53 miliardi del fondo salva stati, in realtà, sono state salvate le banche indebitate tedesche e spagnole che, poi, sono venute qui a fare acquisti”.

Il secondo problema è la schizofrenia che affiggerebbe l’Italia.

“Il nostro è il paese del pendolo. Per anni si è tollerata una sfrenata evasione fiscale, oggi siamo oppressi da una valanga inarrestabile di tasse e balzelli. Per anni il territorio è stato devastato impunemente, oggi ci vogliono quintali di scartoffie per poter piantare un chiodo nel muro. Si passa, insomma, da un eccesso all’altro senza soluzione di continuità”

Nonostante tutto, nel dopoguerra sono emerse figure di primo piano, esempi positivi su cui lei si sofferma a lungo nel testo. Due nomi: Enrico Mattei e Adriano Olivetti.

“Erano gli alfieri dell’Italia del fare che cresceva al 4-6% e ci ha fatto conquistare quel benessere dei cui residui cui godiamo ancora oggi. All’epoca, tutti comprendevano la nostra geografia economica: siamo un paese piccolo, sovrappopolato e senza materie prime. La sola via percorribile era ed è quella di lanciare un’economia di trasformazione, cioè utilizzare il genio italico per trasformare in prodotti innovativi le materie prime che non abbiamo. Mattei inaugurò una strategia vincente per l’approvvigionamento energetico, Olivetti inventò il primo calcolatore super veloce e Giulio Natta, unico italiano vincitore del Nobel per la chimica, aprì la strada ad un settore che diede lavoro a 300mila persone. Di tutto questo non è rimasto più nulla”.

È possibile individuare un colpevole?

“Le colpe sono diffuse. Ma io ritengo che un ruolo centrale, in negativo, l’abbia giocato la progressiva scomparsa del principio di autorità. Siamo un Paese con troppe regole scritte e poca voglia, da parte di ognuno, di fare ciò che dovrebbe. Ora ci troviamo difronte ad un bivio decisivo: o inauguriamo un cambiamento radicale o andremo avanti in quel declino che, alla fine, ci consumerà”.

* Pubblicato, in versione ridotta, su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e, in versione integrale, su barbadillo.it