LA DECRESCITA INFELICE di Grillo&Co.

grilloLa “scommessa della decrescita” aveva fatto timida irruzione nell’arena della politica italiana, per la prima volta, durante la campagna elettorale del 2006. Un’apparizione marginale, affidata alle esternazioni di pochi e sicuramente non paragonabile al recente clamore suscitato, nel merito, dalle esternazioni di Beppe Grillo. Spalancate le porte della polemica, sulla decrescita si sono espressi in tanti, spesso a sproposito, rappresentandola alternativamente come una feconda suggestione o uno spauracchio sovversivo.

Per orientarsi lontano dalle avvelenate contingenze, la strategia più saggia rimane probabilmente quella di affidarsi ai ragionamenti del “padre nobile” della decrescita: Serge Latouche – professore emerito di Scienze economiche all’Univerisità di Paris-Sud e specialista dei rapporti Nord-Sud – cui va riconosciuto l’indubbio merito di aver sistematizzato e divulgato un corpus di idee con radici antiche, salde nella sociologia di Emile Durkheim e Marcell Mauss, nell’antropologia di Karl Polanyi e Marshall Sahalins, nella filosofia di Cornelius Castoriadis e Ivan Illich. La ricorsa, insomma, è lunga se è vero che anche i luddisti, gli anarchici situazionisti, i conservatori alle De Maistre e i primi socialisti, intrisi di utopia, trovano spesso cittadinanza nel ricco pantheon della decrescita. Il cui cammino ha beneficiato, più recentemente, dell’apporto del parigino M.a.u.s.s.. (Movimento Anti Utilitarista delle Scienze Sociali) e delle numerose istanze partorite da un ampio dibattito internazionale cui, dalla Puglia, hanno contribuito, fra gli altri, i sociologi baresi Franco Cassano, Franca Papa e Onofrio Romano. Non trascurabile è stato anche il contributo fornito dal pensiero antimoderno che, da Alain de Benoist a Massimo Fini, ha stimolato il confronto da destra.

Evasa così dall’esilio della marginalità, la decrescita ha ispirato nel tempo la nascita di associazioni, comunità e gruppi come il Movimento per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante, per un breve tratto compagno di strada di Grillo. E in Francia, è addirittura sorto un piccolo partito, il Parti pour la Décroissance, inchiodato però all’1% di preferenze.

Al di là delle fortune dei diversi contenitori il punto più rilevante e delicato rimane comunque quello legato ai contenuti: “La decrescita – scrive Latouche nel suo Breve Trattato sulla Decrescita Serena (Bollati Boringhieri, 2008) – è uno slogan politico con implicazioni teoriche, un parola bomba che vuole fare esplodere l’ipocrisia dei drogati del produttivismo”. Si tratta, semplificando, di una “inversione di paradigma” che boccia l’idea della crescita economica infinita in un pianeta finito e promuove un diverso approccio alla gestione dell’esistente. Nel mirino dei “decrescenti” finisce un po’ di tutto: i ritmi frenetici della vita moderna, l’ossessione per il consumo, lo sviluppo tecnologico senza freni, la rimozione delle identità, l’accettazione acritica del mito del lavoro. A palle incatenate si spara anche contro lo Sviluppo Sostenibile, bollato come un “ossimoro” concepito per migliorare i meccanismi esistenti allo scopo di garantirne una sostanziale sopravvivenza. Di contro, viene definito uno schema per il cambiamento in otto punti, il circolo delle otto “R” della decrescita, da cui far germogliare un vero e proprio programma elettorale al di là della categorie di destra e sinistra (ne riferiamo di seguito).

Ma il programma non piace, di fatto, quasi a nessuno: né alla maggioranza delle categorie produttive, impaurite dal cambiamento strutturale, né alla sinistra post-marxista, impegnata in battaglie di conservazione, né alla destra liberista. Ed anche chi afferma di farlo proprio, come Grillo, è costretto ad andar cauto: cosa potrebbero mai pensare i tanti imprenditori veneti, elettori del M5S, di un contenimento “ideologico” di produzione e consumi? E gli attivisti, saprebbero digerire le provocazioni di Latouche sul “diritto a non possedere un computer”?

C’è poi un altro problema, più spinoso dei precedenti: “Nel migliore dei casi – spiega il pensatore francese – i governi possono soltanto rallentare i processi che non controllano. Esiste una cosmocrazia mondiale che svuota la politica della sua sostanza e impone le sue volontà attraverso la dittatura dei mercati finanziari. Che lo vogliano o no tutti i governi sono dei funzionari del capitale”. A dispetto della vulgata, la vera impresa non risiede tanto nel modificare la condotta del singolo suggerendogli di preferire la bicicletta all’automobile, quanto piuttosto nel riacquistare la sovranità perduta ed innescare una gigantesca trasformazione che odora tanto di rivoluzione.

Il nodo è tutto qui: a patto di volerla affrontare seriamente, la sfida è titanica. E rimane il sospetto che gli eventuali movimenti politici interessati alla decrescita, come il 5 Stelle, preferiscano – per esigenze di voto – offrirne una versione depotenziata, annacquata e destinata a convivere pacificamente con parte degli schemi, economici e culturali, esistenti. Finendo, così, per farla assomigliare al tanto deprecato sviluppo sostenibile. “D’altronde – ha ripetuto spesso Latouche – se il movimento della decrescita riuscisse a raggiungere i vertici e si dichiarasse seriamente intenzionato a combattere un certo tipo di battaglie, il suo leader sarebbe immediatamente assassinato. Non ho alcun dubbio”.

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LE 8 “R”. Programmi e carte d’intenti fondati sulla “scommessa della decrescita” sviluppano, nella maggior parte dei casi, uno scheletro di indicazioni sistematizzato da Latouche in otto punti – le otto “R” – che, di seguito, elenchiamo. Condizione per l’effettiva applicazione di ognuno di essi è il poter disporre, da parte della comunità nazionale o locale, di autonomia di scelta in materia economica ed energetica. Nella gestione politica, l’accento cade invece sui meccanismi della democrazia diretta.

Rivalutare. Dismettere le antiche virtù borghesi e promuovere di un nuovo sistema di valori antieconomici. “Il locale dovrebbe prevalere sul globale, la collaborazione sulla competizione, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro”.

Riconcettualizzare. Assumere una diversa prospettiva su concetti ritenuti acquisiti come quelli di abbondanza, rarità, ricchezza e povertà. Da valutare, qui, non in base agli standard della società dei consumi ma alla luce di un ritrovato equilibrio.

Ristrutturare. Orientare i meccanismi materiali in base alla nuova rivoluzione dei valori con particolare riferimento ai rapporti sociali e all’apparato produttivo.

Ridistribuire. Secondo la definizione di Latouche “organizzare la ripartizione delle ricchezze e dell’accesso al patrimonio naturale tanto fra il Nord e il Sud quanto all’interno di ciascuna società, tra le classi e gli individui”. Lo scopo è quello di diminuire il potere di consumo.

Rilocalizzare. Produrre in massima parte localmente i beni destinati ai bisogni della popolazione, attraverso l’opera di imprese del luogo sostenute dal risparmio della comunità.

Ridurre. Limitare il sovraconsumo e lo sfruttamento delle risorse, riducendo l’impatto sulla biosfera. È ritenuta indispensabile anche la disintossicazione dalla dipendenza da lavoro.

Riutilizzare/ Ricilare. Le ultime due R sono abbinabili. Entrambe si riferiscono alla necessità di combattere l’obsolescenza programmata delle attrezzature e dei materiali per disinnescare l’ansia da iperproduzione.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

BUTTAFUOCO in conferenza a Bari: “Non finirà così!”

buttafuoco3Divampano fra le nebbie di un conformismo “idiota, beota e tirannico” e incendiano un cammino del pensiero che unisce la Sicilia alla Madre Russia. Sono, evocati da un volontario gioco di parole, i Fuochi (Vallecchi, pp. 234, euro 14,50) di Pietrangelo Buttafuoco, giornalista, romanziere e saggista che – nella sua ultima raccolta di scritti – affronta, senza concessioni al dettato ufficiale, l’analisi a tutto campo di “Tipi, spazi e tempi moderni”.

È questo il sottotitolo dell’incontro, promosso dalla Fondazione “Giuseppe Tatarella”, che ha visto l’altra sera, negli spazi della Sala Consiliare del Comune di Bari, lo scrittore catanese dialogare con il docente Giuseppe Incardona ed il giornalista Michele De Feudis. “In un’epoca in cui la terra è rimpicciolita dalla velocità – osserva quest’ultimo – Buttafuoco guarda all’Oriente, all’Eurasia ed afferma il ruolo del mare nostrum quale bacino d’armonia e ci riconnette alla riflessione sui tempi lunghi”. E poiché il fuoco, come chiarisce Incardona, “è creatore ma anche distruttore”, in pochi escono indenni dall’incendio polemico del cuntastorie siciliano.

L’Italia è divenuta un luogo ridicolo – riflette Buttafuoco – dove nessuno possiede la fantasia necessaria per immaginare la grandezza. Lo sguardo è tragicamente corto. E continua a mietere vittime la più pericolosa fra le armi di distruzione di massa: la menzogna”. La lama affonda subito nel cuore del Risorgimento italiano: “Nessuno – riprende – potrebbe figurarsi la conquista di Parigi da parte di un’altra città della Francia. Eppure, è quanto ha fatto Torino con Napoli, stuprandola e trasformando la sua magnificenza in una farsa carnevalesca”. Dal passato al presente il passo è breve: “Il disprezzo è lo stesso mostrato dai marines in Iraq: dopo aver demolito, hanno preteso di ricostruire la dignità di quel popolo impiantando dei bancomat. È, infondo, la leggerezza del war game che spinge a cancellare dalla faccia della terra chiunque si ritenga diverso”.

Buttafuoco ne ha per tutti: per i veleni storici che la politica italiana alimenta, per la gestione del caso marò (“consegnarsi all’ambasciata indiana sarebbe, a questo punto, un gesto d’onore”), per quell’eterno vizio italiota di gettare tutto in “perenne commedia”. Ma è il tema dell’impoverimento culturale a prendersi la scena con particolare riferimento, ancora una volta, al Meridione: “Potreste immaginare – si chiede – la Germania senza Goethe o la Francia senza Balzac? Non credo. Invece il Sud senza Pirandello lo si riesce a immaginare benissimo”. Nonostante tutto, però, è troppo presto per gettare la spugna: “Abbiamo bisogno di fuochi – conclude – e, in primis, di quel fuoco che brucia dentro. Per questo ho voluto dedicare il libro ai miei figli. Non può finire così”.

* Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

BERTO RICCI, “poeta armato” sepolto a Bari

Berto-RicciIn pieni Anni Sessanta, il Colonnello Gheddafi rispedì al mittente le spoglie dei soldati italiani caduti in Libia nel corso del secondo conflitto mondiale. Fra quelle che trovarono riposo presso il Sacrario Militare dei Caduti d’Oltremare, alla periferia di Bari, una recava il nome di Roberto (Berto) Ricci, docente, scrittore, raffinato poeta e giornalista toscano, ucciso dagli inglesi a Bir Gandula, in Cirenaica, nel febbraio 1941. Conosciuto dai più come il maestro di Indro Montanelli, Ricci fu innanzitutto un “poeta armato”, “un tipo di figura intellettuale tipica del Novecento, il secolo delle rivoluzioni animate non da pensatori salottieri barricati in una torre d’avorio, ma da intellettuali impegnati concretamente nell’azione in coerenza con le proprie idee”.

Muove da qui l’esposizione del docente e saggista Alessandro Barbera, scopritore nel 1978 della lapide “barese” di Ricci e relatore della conferenza a lui dedicata – “Berto Ricci, il poeta armato de L’Universale”-, introdotta dal giornalista Michele De Feudis e svoltasi l’altra sera nei locali della libreria “La Terra di Thule” di Bari. Un’occasione per ripercorrere il pensiero, la vita e l’opera di una delle figure più originali ed eretiche del panorama culturale italiano negli anni del Fascismo, cui Ricci aderì, sposandone lo spirito rivoluzionario, dopo un breve trascorso da anarchico. Senza fare mai mistero delle proprie libere intuizioni, tradotte su carta negli scritti per “L’Universale”, rivista da lui fondata nel 1931, e per i molti fogli, come “Il Popolo d’Italia”, cui nel tempo fu chiamato a collaborare. “Ricci – argomenta Barbera – promosse l’idea di impero, da declinarsi qui non all’americana o all’inglese, cioè come una aggressione economica destinata alla sottomissione dei popoli, ma come una fecondazione positiva ispirata dal genio italiano”. Coerentemente, non risparmiò attacchi al nazionalismo sciovinista, al capitalismo materialista, al vuoto formalismo religioso, al razzismo nazista di cui non fu mai latore. Non mancarono nemmeno aperture al comunismo sovietico, apprezzato non certo nei contenuti bensì nella trascinante spinta rivoluzionaria. A far da sfondo a tale vocazione da “bastian contrario”, la dignità di un vita spartana e la preghiera, rivolta insistentemente a Mussolini, nel 1938 e nel 1941, di farsi inviare a combattere in prima linea per allineare, con rigore, pensiero ed azione.

“Berto Ricci – conclude De Feudis – è uno dei pochissimi scrittori e poeti di rilievo nazionale sepolti a Bari, nel silenzio collettivo. È arrivato il momento affinché una figura di tale livello venga ricordata attraverso un atto tangibile: una targa, l’intitolazione di una strada o un convegno di studi”

* Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

 Ps. Qualche ulteriore notazione in calce all’articolo.  In queste settimane si è parlato moltissimo delle leggi razziali introdotte in Italia dal governo fascista nel 1938. Ebbene, Berto Ricci – per quanto favorevole ad una alleanza strategica con la Germania nazista – non fu mai un sostenitore dei concetti di razzismo biologico e di superiorità morfologica. Al contrario, li avversò decisamente. Non c’è quindi traccia del Nostro su quelle riviste, come “La Difesa della razza”, che si fecero megafono del nuovo corso. Ben altre furono le firme che, felicemente, sposarono la causa razziale ingaggiano una vera e propria battaglia intellettuale in sua difesa. Qualche nome? Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giorgio Bocca. Cioè tutti i futuri maestri della tolleranza, del moderatismo e dell’antifascismo cui, obiettivamente, bisogna riconoscere il merito di aver saputo ricostruire la propria verginità con grande destrezza e disinvoltura. Le posizioni di Ricci, oltre a dimostrare la falsità dell’idea di un regime idealmente “monolitico” in cui tutti, dai soldati ai giornalisti, obbedivano agli input governativi, rilanciano la necessità di riesaminare, con mente libera e aperta, la storia di quegli anni. Senza cedere alla tentazione del comodo silenzio, lo stesso cui è stato condannato Ricci anche e soprattutto da coloro che avrebbero dovuto promuoverne le idee e l’opera.