NELLA MENTE DI UN MONDIALISTA

di Gaetano Sebastiani

Se Macron non avesse vinto le presidenziali francesi, probabilmente il suo nome sarebbe ancora celato dietro le nebbie dell’insondabile élite mondialista. Parliamo di Jacques Attali, a più riprese auto-definitosi scopritore e mentore dell’enfant prodige della politica transalpina. Per quanto l’influenza esercitata su Monsieur le Président sia esplicita, non altrettanto palese risulta l’influsso che la visione di quest’uomo ha non solo sulle strategie delle forze globaliste, ma anche sui “valori” della società occidentale post-moderna. Cerchiamo di capirne di più.
Attali nasce ad Algeri nel 1943, in un’agiata famiglia di origini ebraiche. Dopo il trasferimento a Parigi, comincia una brillante carriera di studente nelle più prestigiose scuole di formazione politico-economica del Paese, tra cui l’Institut d’études politiques (Sciences-Po) e l’École nationale d’administration (Ena). Durante lo stage presso quest’ultima istituzione, incontra François Mitterrand con il quale avvia una lunga collaborazione culminante con l’elezione dell’esponente socialista a Presidente nel 1981. Nel corso del settennato, non casualmente, si guadagna l’appellativo di “eminenza grigia”. Nel 1991 presiede la BERD, la banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, un istituto finanziario sostenuto dagli esecutivi occidentali per orientare le economie dei Paesi appena usciti dall’esperienza comunista verso un sistema di tipo capitalistico. L’impegno politico di Attali non conosce confini di parte e dagli anni Duemila lo troviamo a lavorare per la “destra” transalpina. Nel 2007, infatti, è posto da Sarkozy a capo della “Commissione per la liberazione della crescita”, entità – a cui partecipa anche un certo Mario Monti – impregnata di liberismo oltranzista. Il resto degli ultimi impegni pubblici è noto ai più: è proprio Attali a suggerire ad Hollande il nome di Macron nell’ambito del suo esecutivo ed una volta liquidata l’infelice presidenza, impone il giovane banchiere dei Rothschild come argine all’avanzata sovranista della Le Pen, costruendo dal nulla il movimento “En Marche”.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad un abile manovratore politico? Ad un esperto di economia, alfiere indefesso dell’ultraliberismo? Ad un pontefice della globalizzazione, acerrimo nemico di qualsiasi forma di sovranità nazionale? Attali è sicuramente tutto questo, ma anche qualcos’altro. Non tutti sanno, infatti, che il nostro è uno tra i più prestigiosi membri del B’nai B’rith, loggia massonica riservata in via esclusiva agli ebrei. I “figli dell’Alleanza” (è la traduzione dall’ebraico di B’nai B’rith) hanno come scopo fondamentale quello di unire i confratelli per i loro interessi più elevati, difenderne il patrimonio religioso e spirituale, in special modo educando i giovani e lottando contro ogni forma di antisemitismo. Inoltre, gli esponenti della loggia avocano a sè una particolare responsabilità formativa, non solo nei confronti di tutti gli altri ebrei, ma anche verso i goym (cioè i non ebrei), i quali saranno illuminati dalla luce dei principi talmudici. Fatta questa necessaria premessa per comprendere la fonte culturale alla quale Attali si abbevera, cerchiamo di capire come questa si sposa con il mondo prossimo venturo da lui immaginato.
Innanzitutto, partiamo dalle sue visioni politiche desumibili da alcune interviste, o interventi pubblici facilmente reperibili in rete. Con l’avvento della mondializzazione, alcune istituzioni cambiano necessariamente forma e si svuotano del loro potere originario. La figura del Presidente in Francia, ad esempio, non avrà più poteri se non quelli consentiti dal mercato unico. Le ragioni di questo processo sono da ricercarsi nell’euro, che fa sì che gran parte dell’economia politica sia divenuta europea; nella decentralizzazione, visto che i grandi investimenti non partono più dallo Stato, come i progetti sulle grandi infrastrutture; nelle privatizzazioni: non c’è più politica industriale possibile; nella globalizzazione, in quanto il mercato ha ampiamente vinto. In tema di terrorismo e sicurezza, Attali sembra auspicare l’introduzione in pianta stabile di uno stato d’allerta (con conseguenti contrazioni della libertà dei cittadini) simile a quello generato dal Patriot Act in America. Naturalmente, su scala globale. Egli afferma spudoratamente: “Nessun governo oserà più oggi rinunciare allo stato d’eccezione. Non se ne uscirà mai più, perché ogni governo che uscisse dallo stato d’emergenza darebbe un segnale di debolezza”. Essendo stato tra i principali architetti dell’impalcatura europea, Attali non manca di farci sapere un particolare di estrema importanza, ma poco pubblicizzato, che dà pienamente ragione ai critici dell’UE i quali pensano che le istituzioni continentali siano una gabbia: “Tutti coloro, fra cui io, che hanno avuto il privilegio di tenere la penna per stilare le prime versioni del trattato di Maastricht, ci siamo impegnati a fare in modo che uscire [dalla UE] non sia possibile. Abbiamo avuto cura di dimenticare di scrivere l’articolo che permetta l’uscita”.
E poi, il fulcro fondamentale del pensiero dell’ex consigliere di Mitterand, la sua vera ossessione: il Mercato, le sue “vittorie” e come la sua espansione sconfinata modificherà non solo i diritti dell’uomo, ma anche la sua più intima concezione della vita e dei valori. Secondo Attali, “il mercato si estenderà a settori dove fino ad oggi non ha accesso: per esempio la sanità, l’istruzione, la polizia, la giustizia, gli affari esteri – e contemporaneamente, nella misura in cui non ci sono regole di diritto, il mercato si estenderà a settori oggi considerati illegali, criminali: come la prostituzione, il commercio degli organi, delle armi, il racket, eccetera”. Senza limitazioni, esso produrrà persino la “commercializzazione della cosa più importante: ossia la vita, la trasformazione dell’essere umano in una merce di scambio: lui stesso divenuto un clone e un robot di se stesso”. Una visione così cinica della vita non può non influenzare anche le idee sul suo opposto, cioè la morte e le innovative modalità a cui giungervi nel mondo di domani, dominato dal mercato. Nel libro L’avenir de la vie, Attali dichiara: “Quando si sorpassano i 60-65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e costa caro alla società… L’Eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali delle nostre società future, in tutti i casi che si configurano. In una logica socialista la libertà, e la libertà fondamentale, è il suicidio… Macchine per sopprimere permetteranno di eliminare la vita allorchè sarà troppo insopportabile, o economicamente troppo costosa”. Scenari inquietanti sul tema vengono delineati anche in un’altra opera, Dizionario del XXI secolo: “Si arriverà, un giorno, persino a vendere dei “ticket di morte”, che daranno il diritto di scegliere far vari tipi di fine possibili: eutanasia a scelta, morte a sorpresa nel sonno, morte sontuosa o tragica, suicidio su commissione, eccetera la propria morte come la morte di un altro”.
E nel solco delle nuove teorie sulla sessualità, non poteva mancare il suo contributo distopico sull’argomento: il “poliamore”. Nel mondo futuro immaginato dal globalista, il concetto stesso di fedeltà verrà ribaltato e soppiantato da una infedeltà comunemente accettata. In una intervista al quotidiano La Repubblica dichiara: “In analogia con il networking ci sarà il netloving, un circuito sentimentale con più individui. A che titolo si dovrebbero avere due case e due cellulari, e non più relazioni?”. Anche qui, la logica mercatista prende il sopravvento ed i sentimenti vengono tramutati in mero desiderio di possesso. Afferma Attali: “Nella libertà moderna si rivendica il diritto di non scegliere. Meglio: di scegliere un congiunto nell’istante, senza che ciò pregiudichi la scelta di un altro poco dopo. Quest’attitudine si farà sempre più accentuata, e la trasparenza porterà all’affermazione del diritto ad avere molti amori, omosessuali o eterosessuali, ma più spesso dettati dalla bisessualità”. Neanche la famiglia è risparmiata da questo processo di frammentazione, in quanto la tendenza individuata da Attali conduce verso la “poligenitorialità”. Essa sarà fondata: “sull’avvicendarsi di madri e padri, un po’ come già accade parzialmente nelle odierne famiglie allargate. I figli saranno allevati da un unico genitore o da altre coppie, e i genitori biologici potranno condividere le responsabilità educative con i nuovi compagni e con gli ex, con gli ex degli ex e con estranei. Tutto si muove in tale direzione, comprese la pratiche di procreazione assistita, che condurranno a separare sempre più la riproduzione dalla sessualità e dall’amore”.
Per quanto alcune teorie fin qui esposte possano sembrare assurde o impensabili, il solo fatto che vengano espresse da uno degli alfieri della globalizzazione ne certificano l’applicabilità, in un futuro più o meno lontano. Penetrare la mente di un mondialista, dunque, serve a comprendere innanzitutto a cosa gli architetti di questa società impazzita ci stanno preparando ed in secondo luogo, a scoprire a quali abissi di nichilismo gli stessi attingono per elaborare questi progetti. Resta solo da scoprire che tipo di opposizione tali prospettive incontreranno. Ci si augura che non tutta l’umanità del futuro venga addomesticata sulla base delle visioni di Jacques Attali.

 

DAL TEXAS AI TUAREG: la globalizzazione è in frantumi

globalIl grande racconto della globalizzazione felice, tessuto da mercanti e politologi con instancabile perizia, ha un antipatico nemico che non si rassegna a dileguarsi: la realtà.  Ciò che succede effettivamente è null’altro che l’inevitabile reazione ai deliri di un processo sintetico e plastificato, buono per la virtualità delle piazze finanziarie e pessimo per i popoli. Che, coerentemente, hanno deciso di rifiutarlo.  

“La globalizzazione è un processo irreversibile”. L’affermazione, uno dei tanti mantra in circolo nell’etere del pensiero unico, è stata esternata e sottoscritta nel tempo da un numero incalcolabile di personalità della più varia estrazione: dal “cattivo maestro” (leggi diligente scolaro) Toni Negri all’economista Giovanni Vigo, passando per Romano Prodi, Bill Clinton e Fidel Castro che, nel 1998, ebbe a dire: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. L’unanime coro non rende solo ossequio allo status quo, ma partecipa attivamente alla sua difesa, dipingendo i processi in corso come “stati naturali” al pari delle Alpi o dei Pirenei: un qualcosa che è lì per volontà divina e con cui bisogna necessariamente imparare a fare i conti, piaccia o meno. In questo modo si toglie ossigeno a quella che gli indù (ma non solo) definirebbero l’immaginazione divinizzante, cioè la capacità di dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili. Invece ogni cosa è etichettata come irreversibile: la globalizzazione, il libero mercato, l’Alleanza Atlantica, l’euro. Ma sarà poi vero? I fatti sembrano suggerire il contrario.

Per rendersene conto, però, è necessario incastrare tasselli che, in apparenza, appartengono a mosaici differenti. Il Texas necessitava di rastrellare almeno 25mila firme per sottoporre all’attenzione del presidente Obama la questione della propria indipendenza dagli Stati Uniti: ne ha raccolte oltre 116mila. La Catalogna è diventata universalmente sinonimo di aspirazione alla secessione, la Scozia corre verso uno storico referendum, il Belgio sembra destinato a spaccarsi in due come una mela. Perfino i Tuareg, apprendiamo in queste settimane, si battono per consolidare uno stato sovrano. Se stringiamo le telecamere sull’Italia la situazione non cambia: in Alto Adige, ci informa Maurilio Barozzi su “Limes”, ha ripreso fiato il partito dell’autodeterminazione Sudtiroler Freiheit, mentre in Veneto si lavora per fare della locomotiva produttiva nazionale una repubblica indipendente. E non in qualche scantinato di periferia, ma nel cuore delle istituzioni. In testa all’armata separatista c’è infatti il governatore Luca Zaia che sta esplorando la pista di un referendum consultivo, peraltro graditissimo alla popolazione. Anche l’aumento dei consensi raccolti dall’estrema destra e la riscossa dei sovranismi sono parte del gioco: il pensiero corre alla Serbia che non riconosce il Kosovo, all’Ungheria ove la “marea nera” rivendica la Transilvania, al Giappone impegnato a duellare con la Cina per le isole Senkaku/Diaoyutai. Alla Russia sovrana di Putin, al Venezuela orgoglioso di Chavez, all’Ecuador eretico di Correa, alla Grecia disperata che, se potesse, invaderebbe la Germania domani, in omaggio all’unico effetto positivo di una unione forzata: ricordarci che siamo tutti diversi.

Aggiungendo, a questo ribollir di sangue&terra, il globale disprezzo per i porti franchi della finanza e delle oligarchie non elette, l’astio istintivo verso le espressioni esterofone (tipo spending review), l’adozione di forme sempre più marcate di autoproduzione e autoconsumo (in vent’anni siamo passati dai McDonald’s all’orto sul terrazzo), il quadro può definirsi rivelatore. Se l’identità fosse un titolo in borsa sarebbe il miglior investimento possibile, diversamente dalla globalizzazione cui non resta altro che tentare di immobilizzare i popoli con le catene del debito e dell’usura. Dalla tenuta di tale morsa coercitiva dipende la sopravvivenza di un gigante in frantumi con un grande futuro alle spalle.

* Pubblicato su barbadillo.it