LA FINE DEL COLONNELLO e l’inizio del disastro

gheddafiChiunque abbia un minimo di competenze cantieristiche sa bene che se la colonna portante di uno stabile già pericolante si incrina, o peggio crolla, tutta la struttura viene giù. Ed è esattamente quanto successo nel Sahel, la “costa” sud del Sahara, che si appresta a divenire il pantano (stile Vietnam o Afghanistan) degli Anni Dieci. Gli stati coinvolti – Mali, Niger, Ciad – oltre alla vicinanza geografica, condividevano infatti un denominatore politico: la dipendenza dalla Libia di Gheddafi, spazzata via dal più feroce, drammatico e farsesco episodio della già di per sé inquietante “primavera araba”. La quale, lungi dal decongestionare l’Africa Sahariana, l’ha precipitata in un caos senza ritorno trasformando la zona in oggetto in uno “stato fallito”, definizione che si applica a quelle terre prive di forme minime di coesione e controllo.

In ossequio ad una personale volontà egemonica ed al sogno panafricano di una progressiva coesione continentale, Gheddafi aveva tentato di legare a sé gli stati limitrofi, economicamente deboli perché privi di sbocchi sul mare, intervenendo in loco con la costruzione di infrastrutture finanziate dai proventi del petrolio. Strade, ponti, scuole, cittadelle governative tutt’ora esistenti in Mali, Niger e Ciad sono figlie dell’iniziativa libica. Inoltre, Tripoli assorbiva corpose ondate migratorie provenienti dal Sahel, attivando il virtuoso meccanismo della rimesse ed evitando così che migliaia di persone declinassero in altro modo la propria disperazione.

Ma, oltre che partner economico, la Libia era soprattutto il garante della stabilità nell’area. Gheddafi, riuscendo a contenere le intemperanze dei Tuareg, antica tribù berbera dalle velleità indipendentiste di cui si era autoproclamato “padrino politico”, mediava costantemente fra le ragioni degli insorti e le istanze degli stati ospitanti, Mali e Niger in primis. Gli accordi dell’ottobre del 2009, firmati nella città libica di Sabha e ultima traccia di un costruttivo confronto, portano in calce la firma del Colonnello.

Come facilmente intuibile, caduto il regime di Gheddafi, la situazione è precipitata. I Tuareg, dopo aver combattuto in Libia, come volontari, nell’esercito lealista, sono ritornati nelle rispettive patrie e, ormai privi di un interlocutore politico capace di governarli, hanno aperto le ostilità nell’Azawad, la parte settentrionale del Mali, proclamandone l’indipendenza. Dall’altra parte, wahabiti e salafiti, convocati dall’Occidente per concorrere alla caduta del Colonnello, si sono ritrovati, a guerra finita, nelle medesime condizioni: armati fino ai denti e liberi di imperversare fra le macerie di un territorio sfuggito al controllo di chiunque. Da qui, l’idea di affiancarsi alla rivoluzione dei Tuareg, inquinandola e deviandola, fino ad assumere gradualmente il controllo ed il governo di un’area ora ufficialmente divenuta il “secondo fronte” della guerra al terrorismo.

*Pubblicato su barbadillo.it

DAL TEXAS AI TUAREG: la globalizzazione è in frantumi

globalIl grande racconto della globalizzazione felice, tessuto da mercanti e politologi con instancabile perizia, ha un antipatico nemico che non si rassegna a dileguarsi: la realtà.  Ciò che succede effettivamente è null’altro che l’inevitabile reazione ai deliri di un processo sintetico e plastificato, buono per la virtualità delle piazze finanziarie e pessimo per i popoli. Che, coerentemente, hanno deciso di rifiutarlo.  

“La globalizzazione è un processo irreversibile”. L’affermazione, uno dei tanti mantra in circolo nell’etere del pensiero unico, è stata esternata e sottoscritta nel tempo da un numero incalcolabile di personalità della più varia estrazione: dal “cattivo maestro” (leggi diligente scolaro) Toni Negri all’economista Giovanni Vigo, passando per Romano Prodi, Bill Clinton e Fidel Castro che, nel 1998, ebbe a dire: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. L’unanime coro non rende solo ossequio allo status quo, ma partecipa attivamente alla sua difesa, dipingendo i processi in corso come “stati naturali” al pari delle Alpi o dei Pirenei: un qualcosa che è lì per volontà divina e con cui bisogna necessariamente imparare a fare i conti, piaccia o meno. In questo modo si toglie ossigeno a quella che gli indù (ma non solo) definirebbero l’immaginazione divinizzante, cioè la capacità di dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili. Invece ogni cosa è etichettata come irreversibile: la globalizzazione, il libero mercato, l’Alleanza Atlantica, l’euro. Ma sarà poi vero? I fatti sembrano suggerire il contrario.

Per rendersene conto, però, è necessario incastrare tasselli che, in apparenza, appartengono a mosaici differenti. Il Texas necessitava di rastrellare almeno 25mila firme per sottoporre all’attenzione del presidente Obama la questione della propria indipendenza dagli Stati Uniti: ne ha raccolte oltre 116mila. La Catalogna è diventata universalmente sinonimo di aspirazione alla secessione, la Scozia corre verso uno storico referendum, il Belgio sembra destinato a spaccarsi in due come una mela. Perfino i Tuareg, apprendiamo in queste settimane, si battono per consolidare uno stato sovrano. Se stringiamo le telecamere sull’Italia la situazione non cambia: in Alto Adige, ci informa Maurilio Barozzi su “Limes”, ha ripreso fiato il partito dell’autodeterminazione Sudtiroler Freiheit, mentre in Veneto si lavora per fare della locomotiva produttiva nazionale una repubblica indipendente. E non in qualche scantinato di periferia, ma nel cuore delle istituzioni. In testa all’armata separatista c’è infatti il governatore Luca Zaia che sta esplorando la pista di un referendum consultivo, peraltro graditissimo alla popolazione. Anche l’aumento dei consensi raccolti dall’estrema destra e la riscossa dei sovranismi sono parte del gioco: il pensiero corre alla Serbia che non riconosce il Kosovo, all’Ungheria ove la “marea nera” rivendica la Transilvania, al Giappone impegnato a duellare con la Cina per le isole Senkaku/Diaoyutai. Alla Russia sovrana di Putin, al Venezuela orgoglioso di Chavez, all’Ecuador eretico di Correa, alla Grecia disperata che, se potesse, invaderebbe la Germania domani, in omaggio all’unico effetto positivo di una unione forzata: ricordarci che siamo tutti diversi.

Aggiungendo, a questo ribollir di sangue&terra, il globale disprezzo per i porti franchi della finanza e delle oligarchie non elette, l’astio istintivo verso le espressioni esterofone (tipo spending review), l’adozione di forme sempre più marcate di autoproduzione e autoconsumo (in vent’anni siamo passati dai McDonald’s all’orto sul terrazzo), il quadro può definirsi rivelatore. Se l’identità fosse un titolo in borsa sarebbe il miglior investimento possibile, diversamente dalla globalizzazione cui non resta altro che tentare di immobilizzare i popoli con le catene del debito e dell’usura. Dalla tenuta di tale morsa coercitiva dipende la sopravvivenza di un gigante in frantumi con un grande futuro alle spalle.

* Pubblicato su barbadillo.it