La cena delle beffe

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C’è un leggenda che si aggira per il continente. E suona più o meno così: in virtù delle disposizioni del Trattato di Lisbona, il futuro Presidente della Commissione Europea sarà espressione della coalizione vincitrice nel turno elettorale di maggio. Dunque, tutte le principali liste hanno indicato un candidato: i demo-prog puntano sul tedesco Schulz, la sinistra radicale (sic) sul greco Tsipras, i popolari sul lussemburghese Juncker. I sovranisti dell’Alleanza Europea per la Libertà (Eaf), che inizialmente sembravano decisi, come logico, ad affidare a Marine Le Pen la testa della propria armata, hanno invece operato una scelta diversa. Nessun leader è stato indicato perché, quella dell’elezione democratica e diretta del Presidente della Commissione Europea, sarebbe in realtà solo una farsa.
Così ha motivato la decisione l’austriaco Franz Obermayr della FPÖ: “Noi non vogliamo indurre gli elettori in errore, ovvero non vogliamo far credere che sia possibile eleggere un presidente della Commissione. Non c’è alcuna garanzia che il Consiglio europeo selezionerà il vincitore”. È vero? Sembrerebbe proprio di sì. Ecco cosa si legge nel Trattato di Lisbona (Titolo III, articolo 9 D, paragrafo 7): “Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal Parlamento europeo secondo la stessa procedura”.
Chiaro? Quella del Parlamento è soltanto una indicazione. Sarà il Consiglio Europeo, cioè quello che raccoglie i capi di Stato dei diversi paesi, richiamati all’ordine dal presidente Herman Van Rompuy, a tirar fuori il nome dal cilindro dopo le “consultazioni appropriate” con Mario Draghi et similia. E non è un esercizio di immaginazione troppo azzardato ritenere che i vari Renzi, Merkel e Hollande, innanzi a una vittoria del fronte sovranista e in nome del “sogno europeo”, possano varare le “larghe intese” e indicare al Parlamento uno fra Schulz e Juncker. Intimando a democratici e popolari di votare compattamente il prescelto, e costringendo così chiunque altro all’impotenza.
È uno schema che ben conosciamo e vediamo consolidarsi da anni nei singoli paesi. Questa volta però la morsa non sarà stretta in qualche stanza dei bottoni, ma con giovialità nel corso di una cena convocata da Van Rompuy per il 27 maggio, due giorni dopo il voto. Gozzovigliando e brindando, il Consiglio Europeo indicherà la strada. Che, poi, è sempre la solita. Vi eravate davvero illusi di poter decidere qualcosa?

Ps. Tutto ciò non toglie che sia stato un tragico errore, da parte dell’Eaf, non indicare Marine Le Pen come leader della coalizione. Più che a un senso di giustizia e trasparenza, l’origine della decisione pare ascrivibile alla solita bega da pollaio che avrebbe spinto austriaci ed olandesi, che non si riconoscono del tutto nelle posizioni del Front National, a fare saltare l’operazione. Peccato. Perché i consensi che la Le Pen raccoglie in tutta Europa sono notevoli e il caso-Italia lo dimostra. Se ai nastri di partenza pochissimi voterebbero la Lega, unico partito “italiano” in coalizione (i Fratellini d’Italia non si sono ancora desti), tantissimi si turerebbero volentieri il naso pur di incoronare Marine. Ci risiamo. Ecco a voi i soliti errori di un mondo che non sa vincere.

*Pubblicato su barbadillo.it

E il selvaggio disse: “Vai e incontralo”

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Winston Smith, il protagonista di 1984 di Orwell, ripeteva spesso: “Se c’è una speranza, risiede fra i prolet”. Cioè nella massa informe di uomini e donne estranei alla vita del Partito, apparentemente persi nella banalità triste del loro quotidiano epperò unica arma per abbattere il potere con la forza soverchiante dei numeri. Un po’ come il 99% che schiaccia l’ 1%, secondo uno slogan recente dei movimenti di protesta americani. In realtà non c’è nulla di più sbagliato. Secondo l’italianissima lezione di Mosca e Pareto sono sempre le élites, nel bene e nel male, a condurre il gioco, narcotizzando o infiammando il popolo alla bisogna, perché mille persone organizzate sono sempre più decisive di milioni di monadi che possono soltanto offrire un supporto passivo e malleabile alle altrui volontà.

E questo è tanto più vero se il prolet in questione è l’italiano del Terzo Millennio, il “selvaggio col telefonino” per usare una magnifica espressione di Maurizio Blondet. Quello che nulla sa, nulla legge, nulla studia, nulla capisce – indipendentemente dalla sua alfabetizzazione -, ma si esprime come democrazia comanda. E spedisce Beppe Grillo a parlare con Matteo Renzi, a consultarsi con lui in vista del governo del cambiamento. Per carità, sappiamo benissimo che tanti si saranno infiltrati nella votazione, inquinandola in malafede, e che molti simpatizzanti del M5S sono in realtà piddini travestiti, incavolati sì ma pur sempre infatuati dell’“Italia migliore”(sic). Però il dato rimane quello ed anche il comando: che si parli con Renzi e si risolvano i problemi del Paese.

Al selvaggio pentastellato, applaudito dalla tribù italiota, è dunque sfuggito tutto quello che è successo in questi giorni. Non ha colto che non ci sarà alcun cambiamento radicale perché subito dopo aver incassato il sì del partito, Renzi ha telefonato a Draghi (fonte Repubblica) per farsi consigliare il ministro dell’economia. Un po’ come se Robespierre chiedesse un parere al Re di Francia all’alba della Rivoluzione. Non ha colto che dietro tutto questo (fonti Dagospia e la banale logica) ci sono poteri d’oltreoceano che hanno morso alla gola Napolitano – attraverso le rivelazioni di Friedman con sponda “Financial Times” – appena il Presidente si è messo di traverso per riconfermare Letta. Non ha colto la reazione entusiastica delle borse alla nomina di Renzi e il coinvolgimento diretto di finanzieri alla De Benedetti nell’operazione. Non sa chi siano Davide Serra e Yoram Gutgeld. Ignora che lo scopo è dare momentaneo ossigeno al sistema e toglierlo ai populismi che Letta rischiava di alimentare con la sua incapacità. Non ha colto nulla. E anche se avesse colto, il selvaggio non avrebbe saputo che farsene di queste informazioni perché lui arriva fino all’evasione fiscale e lì muore tutto.

E così Grillo si è dovuto sottoporre al rito consultivo, giocandosi la carta dell’attacco frontale e isterico: “La nostra stima non ce l’hai”, “Copri un potere marcio”, “Vuoi svendere l’Italia”, “Rappresenti le banche e i poteri forti”, “A me non interessa colloquiare con un sistema che voglio cambiare”, “Ti do un minuto, anzi nemmeno quello” e compagnia cantando (sugli americani e certa finanza nulla perché, insomma, tra dialoghi atlantici e processioni da Soros nemmeno i 5Stelle sono messi meglio). Uno show pianificato, a cui il comico si è sentito costretto dal selvaggio votante, finendo per sbugiardarlo tradendone il mandato che era quello di dialogare, non di aggredire. E finendo anche per fare la parte di colui che non sa sedersi al tavolo se non per rovesciarlo dopo dieci secondi. Quando i 5Stelle si esibirono nelle consultazioni di febbraio tutti dissero: “Hanno umiliato Bersani”. Stavolta è andata diversamente con Renzi a sorridere in conferenza stampa con l’aria di chi liquida l’inconveniente: “Scusatelo – sembrava dire – è il comico che deve fare lo spettacolino”.

L’errore è a monte. Grillo non avrebbe dovuto accomodarsi a quel tavolo, l’indicazione del vertice era corretta. Il selvaggio col telefonino l’ha rovesciata, sbagliando. E torniamo ad Orwell, citazione completa: “Eppure, se una speranza c’era, questa risiedeva fra i prolet. Quando lo si metteva per iscritto, sembrava ragionevole: era quando guardavate quegli esseri umani che vi passavano davanti sul marciapiede, che si trasformava in un atto di fede”.

*Pubblicato su barbadillo.it

L’ITALIA con la valigia

delocDifficile non dar ragione a Beppe Grillo quando sostiene che, stante queste regole di mercato, o meglio stante l’assenza delle stesse, dovremmo iniziare a slegare il reddito dal lavoro. Cioè trovare un modo e una copertura per permettere ai cittadini di ritirare un assegno mensile senza aver prestato un’opera corrispondente. Senza aver fatto nulla. Un tot al mese, piovuto dal cielo, per non morire di fame. Perché, cari italiani – nonostante le illuministiche fanfare che ancora tromboneggiano di un mai esistito diritto al lavoro – il lavoro non c’è più. E se qualcosa ancora rimane ha già la valigia chiusa e il biglietto in tasca, pronta a congedarci e sbarcare altrove.

Dove? Da un’inchiesta de “Il Fatto Quotidiano” emerge chiaramente che la destinazione preferita è l’Europa dell’Est: la Fiat sposta in Serbia, la Brembo in Slovacchia e Repubblica Ceca, Telecom in Romania e Albania, Geox in Romania e Slovacchia. La modenese Firem, in agosto, ha chiuso baracca per spostarsi in Polonia, all’insaputa dei quaranta dipendenti che, rientrati dalle vacanze, hanno trovato il deserto dei Tartari.

Le motivazioni di questa fuga non sono ignote. C’è un primo livello di atavici problemi che attiene ad una dimensione squisitamente nazionale: burocrazia elefantiaca, legislazione contraddittoria, giustizia dalle tempistiche bibliche, corruzione e clientelismo che minano l’efficienza e la leale concorrenza, un sistema di controllo e di riscossione fiscale ispirato dalle memorie di Torquemada.

Ma, ed è questo il punto nodale, tali storture c’erano anche prima e per giunta amplificate al cubo. Quando l’Italia sedeva a pieno titolo nel G7 e nei fatti possedeva lo status di tigre economica, cioè fino alla prima metà degli Anni Novanta, i guasti di cui sopra erano già tutti lì e lavoravano a pieno regime per rallentarci, ma la barca reggeva e volava a vele spiegate. Come mai negli anni della massima espansione della mafia, delle tangenti quotidiane prese e date praticamente da tutti, delle truffe colossali, dell’evasione fiscale centuplicata da alcuni fenomeni ora estinti (come il contrabbando di sigarette), l’impresa Italia aveva le quotazioni in rialzo mentre, negli anni successivi, si è scesi in picchiata? Cosa è cambiato?

Semplificando per ragioni di brevità, sono arrivate tre macro-sciagure a rovinarci la festa. Dall’alto e senza che potessimo, come al solito, dire o fare nulla. La prima, quasi una premessa, ha una rincorsa lunga ed è il divorzio fra il Tesoro e la Banca d’Italia (1981), un capolavoro dell’ex ministro Andreatta (maestro di Letta) cui dobbiamo l’esplodere del debito. Le altre due sono più recenti: la globalizzazione, che, fra le altre cose, ci ha messo in sleale concorrenza con un esercito di paesi semi-schiavisti, e l’Europa che, oltre a privarci della leva strategica del cambio, ci ha regalato una moneta troppo forte per le nostre esportazioni. E ora, per soprammercato, ci massacra imponendo tasse e riforme insostenibili a tutto vantaggio della sola Germania, decisa a lasciar agonizzare il concorrente più temibile.

Piaccia o meno, l’unica possibilità di salvezza passa da questi nodi. Perché, purtroppo, non convince nemmeno la soluzione proposta da Grillo per quanto l’idea di una liberazione collettiva dal lavoro – da quella condizione di “schiavi salariati” (Nietzsche) felici di esserlo – sarebbe una rivoluzione copernicana auspicabile. Ma per distribuire soldi a pioggia devi stampare moneta e per stampare devi riprenderti la sovranità perduta. Anche così, però, il trucco non funzionerebbe: il denaro stampato non produce inflazione, e dunque risulta sostenibile, solo se ancorato a qualcosa di reale. Per esempio? La produzione in fuga….

*Pubblicato su barbadillo.it