UN COLPO SOLO. Per due bersagli

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Una premessa essenziale. Lo spettacolo desolante offerto dall’attuale scenario politico nazionale ed europeo suggerirebbe di volgere lo sguardo altrove. Le forze dominanti hanno prodotto un tale deserto ideologico da indurre ad un legittimo ritiro nei boschi. Apparentemente, alcuni tasselli di quel complesso puzzle chiamato mondo moderno, come l’Unione Europea, il liberismo economico, la globalizzazione, costituirebbero pezzi inamovibili senza i quali il quadro generale risulterebbe incomprensibile. Ma ad un occhio più allenato non sfuggirà che tale processo – considerato dai più inarrestabile – sta mostrando segni inequivocabili di cedimento e le falle che pian piano si stanno aprendo offrono caute speranze e margini più ampi di manovra.

La conferma di questo cambiamento è data soprattutto dalle reazioni scomposte dei sacerdoti dell’alternativa unica. Istituzioni sempre meno super partes si lanciano in appelli al voto per l’Europa, rivelando insita debolezza e forte preoccupazione per l’affermazione delle forze “avverse”. Le promesse di prosperità economica si stanno sfaldando sotto il peso di una crisi interminabile e soffocante, mentre la retorica dei valori comuni propugnata dall’intellighenzia continentale è una scatola vuota, priva di contenuti entusiasmanti.

L’appuntamento elettorale del 25 maggio, dunque, costituisce il primo, vero banco di prova per la tenuta del progetto europeo. In altri momenti, avremmo osservato lo svolgersi degli eventi con ragionato distacco, persuasi che radici marce non possono che generare alberi morenti e che dunque il sistema sarebbe imploso da sé. Oggi, però, l’occasione è troppo ghiotta per non impugnare la clava e assestare un colpo deciso contro la cappa di presunta infallibilità del “sogno europeo”.

Prima di svelare la nostra scelta, è importante sottolineare che attualmente non è possibile riconoscerci in alcuna forza politica del panorama italiano. Il nostro approccio, quindi, è meramente strategico e funzionale allo scopo fondamentale. Quasi superfluo, esprimere il nostro totale disconoscimento verso quell’arco europeista che predica differenze nel suo seno, ma razzola da partito unico. Dunque, la nostra attenzione si sposta inevitabilmente verso quei movimenti che, bene o male, stanno portando avanti una battaglia critica verso lo status quo.

Tra questi, l’unica forza che ci consente di dare un forte scossone al sistema è il Movimento 5 Stelle. Questa preferenza è dettata da due ragioni. Innanzitutto, dalla volontà di interpretare il voto europeo come mezzo per attaccare frontalmente quel “partito unico” italiano prima citato. Né la Lega, né tantomeno Fratelli d’Italia, se anche riuscissero a superare lo sbarramento, avrebbero i numeri per mettere all’angolo quell’esperienza di governo che da Monti, passando per Letta e arrivando a Renzi rappresenta l’applicazione più pedante della visione politico-economica della Troika. In secondo luogo, al Movimento 5 Stelle va attribuito il merito incontestabile di aver aperto anche ai sordi ed ai ciechi le segrete dei palazzi svelando attraverso la rete il malaffare e le dubbie pratiche parlamentari nel nostro paese. Per chi intende ridurre drasticamente la credibilità del sistema e accelerarne l’affossamento, questa è un’attività certamente encomiabile. Non abbiamo dubbi circa il fatto che tale metodo verrà applicato anche per le istituzioni europee, dunque la presenza massiva dei pentastellati nell’emiciclo di Strasburgo sarà sicuramente un utile elemento di disturbo, oltre a rappresentare un potente megafono delle malefatte e delle contraddizioni delle elite europeiste.

Noi non siamo degli sprovveduti o degli ingenui. Siamo ben consapevoli che la probabile vittoria del M5S non porterà ad un totale ribaltamento dello situazione attuale e che la reazione delle forze ora al potere sarà pervicace. Ma la peculiarità di questa scelta si basa sulla sua naturale azione bidirezionale. È di vitale importanza, in un sol colpo, lanciare un attacco contro quest’Italia e questa Europa!

Marcello D’Addabbo, Leonardo Petrocelli, Gaetano Sebastiani

E il selvaggio disse: “Vai e incontralo”

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Winston Smith, il protagonista di 1984 di Orwell, ripeteva spesso: “Se c’è una speranza, risiede fra i prolet”. Cioè nella massa informe di uomini e donne estranei alla vita del Partito, apparentemente persi nella banalità triste del loro quotidiano epperò unica arma per abbattere il potere con la forza soverchiante dei numeri. Un po’ come il 99% che schiaccia l’ 1%, secondo uno slogan recente dei movimenti di protesta americani. In realtà non c’è nulla di più sbagliato. Secondo l’italianissima lezione di Mosca e Pareto sono sempre le élites, nel bene e nel male, a condurre il gioco, narcotizzando o infiammando il popolo alla bisogna, perché mille persone organizzate sono sempre più decisive di milioni di monadi che possono soltanto offrire un supporto passivo e malleabile alle altrui volontà.

E questo è tanto più vero se il prolet in questione è l’italiano del Terzo Millennio, il “selvaggio col telefonino” per usare una magnifica espressione di Maurizio Blondet. Quello che nulla sa, nulla legge, nulla studia, nulla capisce – indipendentemente dalla sua alfabetizzazione -, ma si esprime come democrazia comanda. E spedisce Beppe Grillo a parlare con Matteo Renzi, a consultarsi con lui in vista del governo del cambiamento. Per carità, sappiamo benissimo che tanti si saranno infiltrati nella votazione, inquinandola in malafede, e che molti simpatizzanti del M5S sono in realtà piddini travestiti, incavolati sì ma pur sempre infatuati dell’“Italia migliore”(sic). Però il dato rimane quello ed anche il comando: che si parli con Renzi e si risolvano i problemi del Paese.

Al selvaggio pentastellato, applaudito dalla tribù italiota, è dunque sfuggito tutto quello che è successo in questi giorni. Non ha colto che non ci sarà alcun cambiamento radicale perché subito dopo aver incassato il sì del partito, Renzi ha telefonato a Draghi (fonte Repubblica) per farsi consigliare il ministro dell’economia. Un po’ come se Robespierre chiedesse un parere al Re di Francia all’alba della Rivoluzione. Non ha colto che dietro tutto questo (fonti Dagospia e la banale logica) ci sono poteri d’oltreoceano che hanno morso alla gola Napolitano – attraverso le rivelazioni di Friedman con sponda “Financial Times” – appena il Presidente si è messo di traverso per riconfermare Letta. Non ha colto la reazione entusiastica delle borse alla nomina di Renzi e il coinvolgimento diretto di finanzieri alla De Benedetti nell’operazione. Non sa chi siano Davide Serra e Yoram Gutgeld. Ignora che lo scopo è dare momentaneo ossigeno al sistema e toglierlo ai populismi che Letta rischiava di alimentare con la sua incapacità. Non ha colto nulla. E anche se avesse colto, il selvaggio non avrebbe saputo che farsene di queste informazioni perché lui arriva fino all’evasione fiscale e lì muore tutto.

E così Grillo si è dovuto sottoporre al rito consultivo, giocandosi la carta dell’attacco frontale e isterico: “La nostra stima non ce l’hai”, “Copri un potere marcio”, “Vuoi svendere l’Italia”, “Rappresenti le banche e i poteri forti”, “A me non interessa colloquiare con un sistema che voglio cambiare”, “Ti do un minuto, anzi nemmeno quello” e compagnia cantando (sugli americani e certa finanza nulla perché, insomma, tra dialoghi atlantici e processioni da Soros nemmeno i 5Stelle sono messi meglio). Uno show pianificato, a cui il comico si è sentito costretto dal selvaggio votante, finendo per sbugiardarlo tradendone il mandato che era quello di dialogare, non di aggredire. E finendo anche per fare la parte di colui che non sa sedersi al tavolo se non per rovesciarlo dopo dieci secondi. Quando i 5Stelle si esibirono nelle consultazioni di febbraio tutti dissero: “Hanno umiliato Bersani”. Stavolta è andata diversamente con Renzi a sorridere in conferenza stampa con l’aria di chi liquida l’inconveniente: “Scusatelo – sembrava dire – è il comico che deve fare lo spettacolino”.

L’errore è a monte. Grillo non avrebbe dovuto accomodarsi a quel tavolo, l’indicazione del vertice era corretta. Il selvaggio col telefonino l’ha rovesciata, sbagliando. E torniamo ad Orwell, citazione completa: “Eppure, se una speranza c’era, questa risiedeva fra i prolet. Quando lo si metteva per iscritto, sembrava ragionevole: era quando guardavate quegli esseri umani che vi passavano davanti sul marciapiede, che si trasformava in un atto di fede”.

*Pubblicato su barbadillo.it

LA DECRESCITA INFELICE di Grillo&Co.

grilloLa “scommessa della decrescita” aveva fatto timida irruzione nell’arena della politica italiana, per la prima volta, durante la campagna elettorale del 2006. Un’apparizione marginale, affidata alle esternazioni di pochi e sicuramente non paragonabile al recente clamore suscitato, nel merito, dalle esternazioni di Beppe Grillo. Spalancate le porte della polemica, sulla decrescita si sono espressi in tanti, spesso a sproposito, rappresentandola alternativamente come una feconda suggestione o uno spauracchio sovversivo.

Per orientarsi lontano dalle avvelenate contingenze, la strategia più saggia rimane probabilmente quella di affidarsi ai ragionamenti del “padre nobile” della decrescita: Serge Latouche – professore emerito di Scienze economiche all’Univerisità di Paris-Sud e specialista dei rapporti Nord-Sud – cui va riconosciuto l’indubbio merito di aver sistematizzato e divulgato un corpus di idee con radici antiche, salde nella sociologia di Emile Durkheim e Marcell Mauss, nell’antropologia di Karl Polanyi e Marshall Sahalins, nella filosofia di Cornelius Castoriadis e Ivan Illich. La ricorsa, insomma, è lunga se è vero che anche i luddisti, gli anarchici situazionisti, i conservatori alle De Maistre e i primi socialisti, intrisi di utopia, trovano spesso cittadinanza nel ricco pantheon della decrescita. Il cui cammino ha beneficiato, più recentemente, dell’apporto del parigino M.a.u.s.s.. (Movimento Anti Utilitarista delle Scienze Sociali) e delle numerose istanze partorite da un ampio dibattito internazionale cui, dalla Puglia, hanno contribuito, fra gli altri, i sociologi baresi Franco Cassano, Franca Papa e Onofrio Romano. Non trascurabile è stato anche il contributo fornito dal pensiero antimoderno che, da Alain de Benoist a Massimo Fini, ha stimolato il confronto da destra.

Evasa così dall’esilio della marginalità, la decrescita ha ispirato nel tempo la nascita di associazioni, comunità e gruppi come il Movimento per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante, per un breve tratto compagno di strada di Grillo. E in Francia, è addirittura sorto un piccolo partito, il Parti pour la Décroissance, inchiodato però all’1% di preferenze.

Al di là delle fortune dei diversi contenitori il punto più rilevante e delicato rimane comunque quello legato ai contenuti: “La decrescita – scrive Latouche nel suo Breve Trattato sulla Decrescita Serena (Bollati Boringhieri, 2008) – è uno slogan politico con implicazioni teoriche, un parola bomba che vuole fare esplodere l’ipocrisia dei drogati del produttivismo”. Si tratta, semplificando, di una “inversione di paradigma” che boccia l’idea della crescita economica infinita in un pianeta finito e promuove un diverso approccio alla gestione dell’esistente. Nel mirino dei “decrescenti” finisce un po’ di tutto: i ritmi frenetici della vita moderna, l’ossessione per il consumo, lo sviluppo tecnologico senza freni, la rimozione delle identità, l’accettazione acritica del mito del lavoro. A palle incatenate si spara anche contro lo Sviluppo Sostenibile, bollato come un “ossimoro” concepito per migliorare i meccanismi esistenti allo scopo di garantirne una sostanziale sopravvivenza. Di contro, viene definito uno schema per il cambiamento in otto punti, il circolo delle otto “R” della decrescita, da cui far germogliare un vero e proprio programma elettorale al di là della categorie di destra e sinistra (ne riferiamo di seguito).

Ma il programma non piace, di fatto, quasi a nessuno: né alla maggioranza delle categorie produttive, impaurite dal cambiamento strutturale, né alla sinistra post-marxista, impegnata in battaglie di conservazione, né alla destra liberista. Ed anche chi afferma di farlo proprio, come Grillo, è costretto ad andar cauto: cosa potrebbero mai pensare i tanti imprenditori veneti, elettori del M5S, di un contenimento “ideologico” di produzione e consumi? E gli attivisti, saprebbero digerire le provocazioni di Latouche sul “diritto a non possedere un computer”?

C’è poi un altro problema, più spinoso dei precedenti: “Nel migliore dei casi – spiega il pensatore francese – i governi possono soltanto rallentare i processi che non controllano. Esiste una cosmocrazia mondiale che svuota la politica della sua sostanza e impone le sue volontà attraverso la dittatura dei mercati finanziari. Che lo vogliano o no tutti i governi sono dei funzionari del capitale”. A dispetto della vulgata, la vera impresa non risiede tanto nel modificare la condotta del singolo suggerendogli di preferire la bicicletta all’automobile, quanto piuttosto nel riacquistare la sovranità perduta ed innescare una gigantesca trasformazione che odora tanto di rivoluzione.

Il nodo è tutto qui: a patto di volerla affrontare seriamente, la sfida è titanica. E rimane il sospetto che gli eventuali movimenti politici interessati alla decrescita, come il 5 Stelle, preferiscano – per esigenze di voto – offrirne una versione depotenziata, annacquata e destinata a convivere pacificamente con parte degli schemi, economici e culturali, esistenti. Finendo, così, per farla assomigliare al tanto deprecato sviluppo sostenibile. “D’altronde – ha ripetuto spesso Latouche – se il movimento della decrescita riuscisse a raggiungere i vertici e si dichiarasse seriamente intenzionato a combattere un certo tipo di battaglie, il suo leader sarebbe immediatamente assassinato. Non ho alcun dubbio”.

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LE 8 “R”. Programmi e carte d’intenti fondati sulla “scommessa della decrescita” sviluppano, nella maggior parte dei casi, uno scheletro di indicazioni sistematizzato da Latouche in otto punti – le otto “R” – che, di seguito, elenchiamo. Condizione per l’effettiva applicazione di ognuno di essi è il poter disporre, da parte della comunità nazionale o locale, di autonomia di scelta in materia economica ed energetica. Nella gestione politica, l’accento cade invece sui meccanismi della democrazia diretta.

Rivalutare. Dismettere le antiche virtù borghesi e promuovere di un nuovo sistema di valori antieconomici. “Il locale dovrebbe prevalere sul globale, la collaborazione sulla competizione, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro”.

Riconcettualizzare. Assumere una diversa prospettiva su concetti ritenuti acquisiti come quelli di abbondanza, rarità, ricchezza e povertà. Da valutare, qui, non in base agli standard della società dei consumi ma alla luce di un ritrovato equilibrio.

Ristrutturare. Orientare i meccanismi materiali in base alla nuova rivoluzione dei valori con particolare riferimento ai rapporti sociali e all’apparato produttivo.

Ridistribuire. Secondo la definizione di Latouche “organizzare la ripartizione delle ricchezze e dell’accesso al patrimonio naturale tanto fra il Nord e il Sud quanto all’interno di ciascuna società, tra le classi e gli individui”. Lo scopo è quello di diminuire il potere di consumo.

Rilocalizzare. Produrre in massima parte localmente i beni destinati ai bisogni della popolazione, attraverso l’opera di imprese del luogo sostenute dal risparmio della comunità.

Ridurre. Limitare il sovraconsumo e lo sfruttamento delle risorse, riducendo l’impatto sulla biosfera. È ritenuta indispensabile anche la disintossicazione dalla dipendenza da lavoro.

Riutilizzare/ Ricilare. Le ultime due R sono abbinabili. Entrambe si riferiscono alla necessità di combattere l’obsolescenza programmata delle attrezzature e dei materiali per disinnescare l’ansia da iperproduzione.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”