PENSA PIù FORTE CHE PUOI

di Leonardo Petrocelli

Dopo anni di chiacchiericcio sistemico, complice la crisi e quel senso generale di bivacco sull’orlo dell’abisso, il radicalismo è tornato di moda. L’abbiamo notato anche noi, nel nostro piccolo. Se postiamo un qualche ragionamento su un problema economico o su un passaggio di politica interna, magari anche stringente, l’attenzione è modesta. Se invece spariamo una bordata su una questione dilatata all’estremo, come nel caso della “razza bianca” evocata da Fontana, l’interesse cresce esponenzialmente. È la cifra dei social, certo, ma anche il segno dei tempi. Ed è un bene, sia chiaro, perché segnala uno scuotimento nell’animo profondo di un popolo divenuto indolente e sostanzialmente vile come quello italiano.
Ma questo ritrovato massimalismo ha anche un lato negativo: offre a quello che un tempo si chiamava il “sistema” la possibilità di rimettere in campo la strategia della tensione. Cioè fomentare l’odio e, soprattutto, la violenza degli opposti estremismi per spingere la popolazione a convergere al centro. Nel calderone della tattica ci finiscono tutti: Pamela e Traini, il militante di Forza Nuova, legato e pestato a Palermo, e quello di Potere al Popolo vittima di una presunta e molto poco chiara “aggressione fascista”. Potere al Popolo che, sia detto per inciso, lungi dal rappresentare il riscatto, morale e politico, della sinistra in declino (quello è il Partito Comunista di Rizzo) è un altro mostro messo piedi ed armato per marciare nella direzione desiderata.
Ciò detto, sappiamo perfettamente che non c’è “uguaglianza” fra le parti in causa. Innanzitutto nei numeri. A febbraio s’è verificata una aggressione “rossa” ogni due giorni. Quelle fasciste, Traini escluso, si devono cercare col lanternino. E qui interviene la stampa, sempre solerte nei riequilibrare la faccenda, edulcorando, nascondendo, mitigando, giustificando le razzie dei compagni, quasi sempre dipinte come atti senza colore: se una violenza viene da destra è terrorismo nero, squadrismo fascista, rigurgito xenofobo. Se viene da sinistra è violenza e basta. Senza nome né identità, come i criminali quando sono immigrati (“un uomo”, “un ragazzo”…). Il risultato di questa operazione è che 15 aggressioni dei centri sociali sì e no ne fanno una nella percezione collettiva. Ed il bilancio è sempre in pari. Falsato il calcolo, si può partire con la reprimenda tirando dentro i neri direttamente e i rossi a rimorchio: non vedete quanta ferocia, quanto odio, quanti pericoli per la vostra bella (?) vita? Ricordatevene quando andrete a votare, ma soprattutto quando, ogni giorno, ragionate di politica e dei fatti di attualità. Lo slogan elettorale di CasaPound recita: “Vota più forte che puoi”. Ecco, il sistema ti dice: vota e pensa più debole che puoi.
Bella trovata per uscire dal pantano, non c’è dubbio. Ma ci sono almeno due problemi. Il primo è che la vita non è più “bella” come negli anni Sessanta e Settanta quando questa furbata andava per la maggiore. Oggi c’è molto poco da difendere e ancor meno da guadagnare. Secondo, ed è la cosa più importante, ad aspettare gli italiani al “centro” non ci sono più Fanfani e Moro ma Renzi, Gentiloni, Berlusconi, Maroni, Grasso e compagnia bella. I quali, sorvolando sulla loro endemica mediocrità e al netto delle ormai impercettibili sfumature, non sono espressione di alcun moderatismo ma, al contrario, di un radicalismo violentissimo imperniato su liberismo selvaggio, cultura – o forse culto – del debito, europeismo fanatico ed accoglienza senza limiti. Il mostro vi aspetta lì, non fra le pieghe del sovranismo. Per cui il consiglio è il seguente: non fatevi trascinare nel gorgo della violenza funzionale, ma continuate a pensare più forte che potete.

SIAMO ALLE SOLITE…

 

di Marcello D’Addabbo

Volevamo stupirvi con effetti speciali, invece…siamo alle solite. Purtroppo. Mentre scriviamo Luigi Di Maio è in Usa, in realtà è lì già da qualche giorno il che ci permette di analizzare le circostanze di questa ennesima sodomia coloniale italiota. Certo, direte voi, il rito del “viaggetto a Washington” del possibile futuro titolare di Palazzo Chigi è un rito consolidato dal ’47 (lo inaugurò De Gasperi con il famoso cappotto prestato dall’amico Dc Attilio Piccioni), e proseguito con una sequela di trasvolate che vanno da Occhetto e Fini – i pericoli rossi e neri che andavano sventati – fino a Napolitano, quest’ultimo quasi uno stalliere della Casa Bianca. Ma se quelle visite potevano destare un certo imbarazzo a democristiani, comunisti e postfascisti degli anni ’90, Di Maio, al contrario, in Usa ci è andato con il piglio di uno scolaretto entusiasta con lo zainetto pieno di compitini da far vedere al maestro. Lo stile è sempre quello da primino della classe perfettamente sbarbato e non cambierà mai – è Di Maio che ci volete fare mica uno statista – ma ciò che rileva è il contenuto delle dichiarazioni e incontri sin qui trapelati. Già nelle riunioni preliminari traspare l’intento della gita scolastica: «Basta con questa storia della Russia e che siamo alla mercé di Putin – ha dichiarato – non sta in piedi e ci fa solo del male». Segue una cena con l’ambasciatore Armando Varricchio (quello nella foto-ricordo), accompagnato dal capo della comunicazione Rocco Casalino e dal consigliere politico Vincenzo Spadafora, a cui si deve molto della ribalta internazionale del candidato premier del M5S. E si passa al piatto forte del viaggio: oltre un’ora di colloquio con Conrad Tribble, vice assistente segretario di Stato per l’Europa occidentale (il nostro cane da guardia insomma), meeting del quale trapelano stralci e indiscrezioni che lasciano ben poco spazio alla fantasia. La prima precisazione è sulla Nato: «Non vogliamo uscire», tuona Di Maio. A settembre aveva quantomeno detto no all’innalzamento al 2% del Pil come contributo italiano all’Alleanza Atlantica (come richiesto da Trump). Ora sembra aver cambiato idea: «Non diciamo no ma abbiamo perplessità che si utilizzino 14 miliardi in più solo in armamenti. Spendiamoli in intelligence e tecnologie…». Della serie cambiamo la voce di spesa e il gioco è fatto. Stessa solfa sulla missione afgana dove Di Maio sembrava per un istante folgorato da un impeto craxiano…quasi una folata dello spirito di Sigonella: «Se andremo al governo ritireremo il contingente!!». E qui non facciamo in tempo a fargli la ola, che siamo subito raggelati dall’immediato e immancabile “ma”…«Ma confermiamo la nostra partecipazione alle missioni di pace(!!)». Cioè, basta cambiare la ragiona sociale, il “brand” della missione, e il M5S si rimangia l’impegno del ritiro dei contingenti militari italiani all’estero, voluti lì dagli Usa. Sarebbe stato più serio sostenere di credere fermamente nell’opportunità delle guerre Usa, come in passato fecero Oriana Fallaci, la Bonino e Ferrara che nascondersi ignobilmente dietro regole di ingaggio, cornici internazionali e presunti umanitarismi. Forse un personaggio mediamente scolarizzato che colloca senza tentennamenti Augusto Pinochet in Venezuela non sa che dall’intervento in Vietnam gli Usa non hanno mai più definito “guerra” una loro missione militare. Gli interventi americani sono sempre umanitari, operazioni anti terrorismo o sostegno alle opposizioni democratiche, se si cerca un pretesto semantico per mantenere i soldatini italiani in Afghanistan non c’è che l’imbarazzo della scelta, la sinistra italiana di lotta e di governo può dargli lezioni. Poi si giunge alla questione elettorale: «Ma se non fate alleanze come pensate di governare?», chiede l’interlocutore americano, arcigno e diffidente. E qui viene tradito un altro dogma del movimento – zero alleati. «Se non avremo la maggioranza assoluta – risponde allusivo – ci assumeremo la responsabilità di non lasciare il Paese nel caos». Già si vede all’orizzonte la faccia compiaciuta di Bersani nell’inedita e insperata veste di garante degli equilibri atlantici in un governo 2018 zeppo di tecnici con il movimento di Grillo posto sotto tutela, fuori dai ministeri chiave ad occuparsi solo di pale eoliche, startup, auto elettriche e cantieri da aprire con Renzo Piano. Con tanti prati verdi a circondare la bandiera americana. La proposta di eliminare le sanzioni contro Mosca è stata nel frattempo derubricata a mera questione commerciale per favorire l’export italiano e il ragazzo di Pomigliano nella medesima sessione di incontri ha anche ribadito che non desidera un’Italia fuori dall’Ue ma solo rivedere i trattati europei (con il permesso della Merkel magari?).

Insomma il quadro è completo, la cornice anche. Le contraddizioni interne al movimento però sono tutt’altro che risolte. Di Maio di fatto è l’atlantista del gruppo ma sa benissimo che tra i grillini a giocare con la sponda russa sono stati in diversi. Alessandro Di Battista, il senatore Vito Petrocelli e soprattutto Manlio Di Stefano, responsabile Esteri del movimento, di fatto oggi esautorato, un sovranista che parla chiaro. Il viaggio di Di Maio manda anche in soffitta le dichiarazioni amichevoli sul Venezuela di Maduro della senatrice Ornella Bertorotta e dello stesso Di Battista. Una svolta che però non convince molto la Casa Bianca, tanto che gli spifferi della Sala Ovale riportano come l’establishment della politica estera di Washington veda un’Italia meglio servita (per servire) da un governo di centrosinistra o centrodestra, piuttosto che dal Movimento 5 Stelle. E’ Charles Kupchan a rivelare l’indiscrezione, globalista incaricato già da Obama di elaborare piani di contrasto al populismo, soprattutto europeo. Nell’amministrazione Trump, poi, dopo i risultati delle elezioni in Sicilia si è solidificata la corrente che spera nel ritorno a Palazzo Chigi della coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Forse neanche sotto Bush Berlusconi ha avuto a Washington una sponda così. Deve essere frustrante per Di Maio aver fatto per giorni il “Balilla” della causa americana per essere poi surclassato da Berlusconi. «M5S – spiega Kupchan – rappresenta un partito allineato con il sentimento populista, potenzialmente pericoloso per il processo di integrazione europea, e dannoso per la solidarietà transatlantica». In realtà, purtroppo per molti elettori grillini, Kupchan e i suoi amici globalisti non hanno nulla da temere da uno come Di Maio. Ma in rete le reazioni della base grillina non mancano e proprio sotto il racconto di viaggio pubblicato dal Balilla-yankee sul blog di Grillo, si leggono commenti molto eloquenti nei quali si ricorda a Di Maio che gli Usa rappresentano quasi tutto il contrario di ciò che viene praticato dal movimento: liberismo sfrenato, guerrafondai, tra i primi tre paesi più inquinanti del mondo, colonialisti etc etc. “Non siamo filorussi – scrive un iscritto – ma, dovremmo esserlo!”. “Forse – caro Di Maio – non ha presente chiaramente il ruolo fondamentale che sta avendo la RUSSIA in questo periodo storico, unico vero argine al totalitarismo liberale partorito e finanziato dalle lobbies americane”. Non sono pochi i commenti di questo tenore, contro il processo di evidente democristianizzazione del movimento. Ma la normalizzazione va avanti e alcuni giornali segnalano un fatto curioso, soprattutto per le tempistiche: da diversi giorni e con regolarità inquietante stanno sparendo, dai siti della rete pro M5S (a volte siti ufficiali della Casaleggio, altre volte siti non ufficiali simpatizzanti) pagine, post, video che hanno rappresentato contenuti fondamentali della propaganda pro Putin, o no vax, apparsa nel mondo grillino nel biennio cruciale 2015-2017. Risulta inaccessibile, da “La Fucina”, un link storico sul volo MH17 della Malaysia airline che si schiantò in Ucraina il 17 luglio 2014, che rivelava coinvolgimenti ucraini in quella tragedia. Altro esempio, un video apologetico di Putin titolato «vogliono incatenare l’orso russo», accompagnato da un testo di Manlio Di Stefano, reca da settimane il messaggio: «Error loading player: No playable sources found». Si trattava di un video de La Cosa (la tv ufficiale del blog di Grillo). Sono solo alcune delle decine di segnalazioni che stanno insospettendo la base grillina e i social network, convinti che su questa mirata e occulta depurazione del web grillino vi sia la mano di Casaleggio e del suo clan di esperti informatici. Sarebbe interessante vedere i tessitori della rete restare impigliati tra le maglie della creatura che essi stessi hanno creato, nell’atto di volerla censurare. Una rete che potrebbe essere molto più vivace e reattiva di quanto questi guru del web avevano previsto. Gli effetti speciali potremmo forse vederli soltanto qui nel web, per la politica del movimento, al contrario, stiamo assistendo a riti istituzionali che si ripetono seguendo un copione consolidato negli anni. Siamo alle solite. Purtroppo.

TIRA ARIA DI SOCIAL-FOBIA

di Marcello D’Addabbo

Non la smettono. Non vogliono accettare di essere contestati. Politici, gente delle istituzioni, opinion makers dei talk show televisivi “generalisti”, un agguerrito convento di moralisti sceso in campo per contrastare gli “haters”, gli odiatori di professione. Ne abbiam già discusso quando a tirare la cima di rapa erano gli Andrea Scanzi (omen nomen), i Marco Travaglio – “sono ormai incapace, confessa, di gestire la mia pagina Facebook” e dulcis in fundo…Enrico Mentana, l’odiatore di odiatori per eccellenza, che tuttavia ha almeno la faccia di (far)rispondere colpo su colpo a tutti i post ostili che riceve. Ma la vicenda sembra non avere fine, perennemente rinnovata da chi non accetta di coniugare la propria fichissima notorietà pubblica con qualche vaffanculo ben assestato dal lettore di turno. Di recente Myrta Merlino, conduttrice di “L’Aria che tira” su La7 ha ingaggiato nel suo spazio pomeridiano una campagna contro l’odio sui social. Prima ospitata inaugurale di questo splendido sceneggiato tv, ovviamente, riservata “honoris causa” a Laura Boldrini – poteva mancare il bersaglio universale di tutti gli haters d’Italia? – beatificata martire di questi nuovi unni del web…i soliti sessisti ignoranti e vigliacchi. Insomma, la vecchia storia dei leoni da tastiera che si nascondono nell’anonimato di un nickname per scagliare impunemente tonnellate di improperi. “Bisogna reagire! Devono assumersi le loro responsabilità nei tribunali, vogliamo i nomi!” – strilla la vippaglia politicoide dei sinistrorsi che non hanno fatto in tempo a rifluire dai cortei del ’68 – dove intonavano “vietato vietare” – per invocare la più dura repressione da scatenare contro chiunque li contesti, ora che in parlamento e nei ministeri ci sono finalmente loro. Insomma siamo alle solite, dalla rivoluzione al regime il passo è durato quanto il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. 

La nuova stagione televisiva del programma della Merlino vede al centro di ogni puntata(!) la campagna di sensibilizzazione sul problema della violenza verbale e dell’offesa gratuita sui social – una campagna virale con il patetico hashtag #odiolodio e l’impegno a inviare i propri giornalisti a “cercare gli haters”. Laura Boldrini, che in agosto ha fatto sapere che denuncerà chi la fa oggetto di “quotidiane sconcezze, minacce e messaggi violenti”, quasi tutti a sfondo sessuale, ovviamente è la madrina dell’iniziativa. E qui urge una riflessione: possibile che non si rendano conto di quanto siano diventati comici?? E’ una reazione a dir poco divertente, tutta da ridere, da zitelle isteriche, bizzoche moraliste della parrocchia di un paesello, che denota tutta l’impotenza dell’insultato/a di turno a contrastare l’attacco ricevuto. Certo, molto più conveniente puntare l’indice sulla volgarità e gratuità dell’insulto della rete che porsi, mettendosi in discussione, la più semplice delle domande…PERCHE’? Perché sono tanto odiati e insultati dalla rete? Troppo arduo indagare sulla natura di questa rabbia smisurata, forse ancora più autentica proprio quando è priva di argomentazioni, pura nella sua violenza, marinettianamente igienica, futurista e un po’ alla Fight Club, che scaturisce, inutile nasconderlo, dal profondo senso della giustizia umana, da quell’armonia negata e sfregiata ogni giorno da queste insulse comparse del dibattito pubblico, da questa gente pagata per calmierare con i talk show la schiuma rabbiosa del popolo che altri, più in alto di questi figuranti, intanto saccheggiano e umiliano senza sosta e ritegno. Già perché basterebbe possedere un minimo di residuale intuito per la lettura degli eventi per comprendere la natura di certi moti popolari, anche quando si esprimono – come oggi – attraverso il web. La natura dell’intimo legame retributivo che unisce i torti subiti con la rabbia che inevitabilmente ne scaturisce, talvolta persino ad insaputa dell’agente, il rabbioso di turno, che apparentemente non è che un semplice teppista verbale privo di bon ton. Insomma saper leggere tra le righe e gettare lo sguardo nel profondo “maelstrom” della coscienza collettiva, è una facoltà che queste comparse da avanspettacolo dimostrano di non possedere nel dna.  

Esiste un istinto nel popolo, autentico e primordiale, che gli consente di percepire la differenza di massima tra verità e menzogna. E’ quell’istinto che fece votare in massa gli italiani per Berlusconi proprio quando era maggiormente aggredito, per via giudiziaria, da poteri anti-italiani e manine straniere – Eni/Gazprom aveva fatto perdere la pazienza agli stessi che fecero fuori Enrico Mattei. Quel senso di giustizia che si trasforma in rabbia non appena la giustizia è negata. Metti una Boldrini, nel ruolo di portavoce dell’agenzia mondialista UNHRC già agitava una campagna contro i respingimenti degli immigrati operati dall’allora ministro Maroni (il migliore responsabile degli Interni fino ad ora), e oggi continua a sviolinare il verbo Onu-sorosiano dell’”accogliamoli tutti” in un Paese uscito da dieci anni di devastazione economica (peggio del 29’) dove il 60% dei giovani del Sud è privo di lavoro e prospettive, senza contare i nostri emigrati che sono già all’estero e quelli che continuano a fuggire – migranti economici italiani, no!? Per comprendere la rabbia contro la Boldrini bisogna far parlare quei fiumi di ragazzi (e adulti) che si mettono in coda per accedere ai concorsi pubblici nazionali presso i padiglioni della Fiera di Roma. Un rito collettivo che accomuna sogni, disperazioni, aspettative e frustrazioni di migliaia di italiani che non hanno ancora preso il fatidico biglietto aereo verso i dorati regni della meritocrazia germanica ed anglosassone. Quelli che non hanno ancora deciso “di andarsene” e ne pagano le conseguenze. Per 800 posti di Cancelliere nei Tribunali italiani si sono iscritti online in 25 mila. Per un centinaio di posti da infermiere a Genova si sono presentati in 12 mila. Ma la signora della Camera è comunque intenta a menarci mezza Africa nel cortile di casa. E’ una rabbia, quindi, appena proporzionata a ciò che si subisce tutti i giorni e che in linea di principio non avrebbe bisogno di essere accompagnata da argomentazioni e chiacchiere da salotto. La Boldrini non è presa di mira in quanto donna come si sente spesso ridicolmente affermare (lo era la signora Nilde Iotti nei tanti anni di presidenza della Camera per caso??), ma in quanto capolavoro di doppiezza e insensibilità, un mostro di falsità finto-moralista al servizio dei piani alti del potere, quelli interessati a oliare di retorica il processo della “grande sostituzione” voluta dalle multinazionali e banche per abbassare il costo del lavoro, come spiega ormai da mesi l’instancabile Diego Fusaro. Una retorica che viene, oltretutto, somministrata alle plebi democratiche da gente che di solito si sposta in auto e aerei di Stato, scortata da buttafuori di Stato, che manda i propri figli nelle università private e conduce uno stile di vita lontano anni luce da quegli immigrati che in televisione e nelle compiaciute apparizioni ai convegni universitari pontifica di voler accogliere fraternamente. Da qui nasce il grido populista “ospitateli a casa vostra”, falsamente scambiato per irrazionale xenofobia. Il popolo comprende queste dinamiche più di quanto non credano lorsignori. E di conseguenza ruggisce. E loro cosa fanno? Reprimono! Perché non sopportano sentire rimbombare le urla della gente nel vuoto pneumatico delle loro non risposte. Pertanto, era ovvio, la marea oggi monta e tanto Renzi quanto Berlusconi devono vedersela rispettivamente con Grillo e Salvini che si ingrossano elettoralmente come baobab nel deserto. Già perché questi due hanno semplicemente capito che la marea montante della furia popolare non va contrastata ma al contrario compresa e interpretata, utilizzata eventualmente come vettore di cambiamenti epocali nel cuore dell’Occidente, se mai ne saranno capaci. Quando un corpo reagisce vuol dire che è ancora vivo e non accetta di decomporsi. Se questa realtà di disagio profondo che cova, viene negata e repressa mediante la promulgazione di leggi che sanciscono reati d’opinione o mediante l’attività di polizia postale finalizzata a chiudere decine di pagine Facebook agli ordini di questa casta di “infastiditi” è il segno che un sistema è al collasso. Cosa potranno ancora imputare a Putin adesso? Di essere un dittatore? Un Duce? Esiste la legge Fiano in Russia? Le opinioni lì sono perseguite fino ai gesti e ai simboli grafici riportati sui gadget? A chi appartengono i canali di informazione in Occidente? Come mai è presa tanto di mira proprio la rete, e il web dei social network, dove esiste un padrone – certo…mica crediamo alla fata turchina qui – ma non ci sono direttori prezzolati che ti dicono cosa puoi o non puoi scrivere? La libertà di opinione come espediente costituzionale creato con il presupposto di controllare i principali giornali e televisioni, screditando poi moralmente tutto ciò che si colloca fuori da quei circuiti patinati quanto blindati, ai piani inferiori, nella fogna del populismo e dove cova la “pancia del Paese” – ennesimo “ghetto semantico” ideato del regime dei media – ormai non funziona più. Si sono invertite le proporzioni numeriche. E la repressione in rete, tanto invocata in questi giorni, non farà che muovere la brace ardente e attizzare il fuoco. A quel punto, con buona pace della signora Merlino, sarà un’altra…l’aria che tira.