IL CONSAPEVOLE NO

di Marcello D’Addabbo


A poche ore dal voto e in piena sbornia mediatica referendaria La Daga intende dire la sua. Sgombriamo subito il campo da equivoci: la repubblichetta italiana nata istituzionalmente il 2 giugno ‘46 da un referendum probabilmente truccato – quasi 11 milioni di voti alla monarchia contro i quasi 13 milioni repubblicani non sarebbero stati comunque una gran legittimazione di partenza – non è uno stato sovrano. Si tratta di una colonia occupata militarmente da truppe straniere a cui è stato attribuito un margine risibile flessibile e volutamente ingannevole di autodeterminazione politica. Questo inganno nella sua forma cartacea si chiama Costituzione del 1948. Quando si perde una guerra e si viene occupati dalle truppe di una potenza straniera si perde la sovranità per un periodo di tempo la cui durata può essere più o meno lunga a seconda delle contingenze storiche ma mai brevissima. La modernità non fa eccezione a questa dura logica di guerra ed è inutile continuare a fingere di credere che l’occupante diventi un alleato alla pari, rispettoso della propria sfera di influenza nazionale. Di solito è difficile che una patria riprenda in mano il filo conduttore del proprio destino senza che il popolo si sporchi prima le mani di sangue in nuove trincee o nelle piazze con una rivoluzione. Dura lex ma la storia insegna e a meno che l’occupante non schiatti da solo non ci sono eccezioni. In barba a questa semplice realtà da paginetta del sussidiario delle elementari assistiamo dal ’48 alla soporifera retorica di un paese liberato, democratizzato, di una grande potenza economica autodeterminatasi per mezzo delle esaltate libertà costituzionali del dopoguerra. Il martellamento su laicità, stato sociale, lavoro, pace, eguaglianza ed associazionismo ha trasformato milioni di italiani in studenti, eterni minorenni, di un corso di rieducazione civica di massa durato quasi settant’anni. Per farlo sono partiti gonfiando il mito della liberazione “autoctona” compiuta al suono di “Bella ciao”, quasi che il canto partigiano potesse coprire il frastuono dei B29 che i nostri nonni ricordano molto più nitidamente del primo. E infatti la verità era ed è un’altra. Da quel dì dello sbarco delle truppe stellate è in vigore una “costituzione invisibile” sussurrante all’orecchio della coscienza ogni minuto della nostra vita che la sovranità appartiene al Pentagono che sposta da Washington i nostri soldati dove gli fa più comodo secondo la logica del Risiko in corso, alla Banca Centrale Europea che stabilisce arbitrariamente i tassi di interesse cui devono adeguarsi banche private e correntisti, la fluttuazione della moneta, le misure di austerity, il fiscal compact, il pareggio di bilancio  – quest’ultimo, beffa nella beffa, lo hanno addirittura inserito nella tanto decantata sacra carta coloniale. Quella che tutto il mondo invidiava a Benigni prima della folgorazione di quest’ultimo sulla via di Rignano sull’Arno. Già…il pareggio di bilancio, sembra quasi lo abbiano inserito affinché anche i più illusi ingenuotti capissero a cosa si riduce la libertà del popolo italiano.

Dinanzi a tanto oggettivo e crudo realismo ci chiediamo che senso possa avere dedicare un secondo della propria giornata ad ascoltare anche soltanto una percentuale infinitesima di tutte queste inutilità sul numero dei parlamentari, sul Cnel da abolire, sull’elettività del Senato e il titolo quinto. Tutte questioni sacrosante se non avessimo appena inviato soldati al confine con la Federazione Russa senza un dibattito di ugual portata, un passaggio parlamentare, un coinvolgimento anche minimo della popolazione e del suo vaglio a questa come ad altre scelte fondamentali. Pochi giornalisti hanno posto domande in merito a questa gravissima provocazione militare contro una nazione, quella sì degna di chiamarsi tale, armata fino ai denti e mai ostile verso di noi. Chi li ha inviati quei soldati? Perché e in nome di cosa? E, soprattutto, per conto di chi? Ma l’elenco delle iniziative dinanzi alle quali il popolo italiano è stato sistematicamente bypassato è tristemente nutrito. Sanzioni contro Siria, Iran e Russia imposte, guerra in Libia imposta, euro imposto, regole commerciali europee imposte, fiscal compact imposto, pareggio di bilancio imposto, vincoli alla spesa pubblica imposti, bail-in bancario imposto, il tutto mentre le tv cantano libertà, democrazia, e oggi, luce in fondo al tunnel…abolizione del Cnel, numero dei parlamentari e modifica del titolo quinto. Il più colossale insulto all’intelligenza di un popolo che si sia mai visto a memoria d’uomo. In queste ore assistiamo ad interminabili quanto insopportabili dibattiti sulla scelta tra due costituzioni che non saranno comunque mai in vigore! Almeno finché non cambierà il quadro internazionale o Trump non deciderà di fare le valigie e sloggiare le truppe di stanza nella penisola o mollare progressivamente la Nato. In mancanza di ciò parlare di costituzioni e governabilità è un flatus vocis. Più poteri al premier e legge elettorale che garantisca la governabilità per fare cosa? Se si volesse, ad esempio, uscire dall’euro lo si potrebbe decidere con o senza “doppia lettura delle leggi tra Camera e Senato”. Una simile decisione, affermano da sempre alcuni tra i maggiori economisti del mondo, porterebbe alle tanto citate tasche degli italiani vantaggi infinitamente maggiori dell’abolizione del Cnel o della riduzione del numero dei senatori. Quello a cui assistiamo da settimane nel dibattito pubblico italiano è il trionfo dell’antimateria e attenzione a maneggiarla perché si rischia di scomparire! Ma in qualche misura tocca purtroppo di doversene occupare…ne siamo intossicati ormai a causa dello zelo mediatico del premier e dal circo montato su tv e giornali al servizio della sopravvivenza politica del Governo.


Quindi, al fine di evitare con cura l’insostenibile leggerezza del non-essere ovvero di finire intrappolati in questa gigantesca bolla di sapone che galleggia metri sopra la realtà, si offre la seguente soluzione. Come premessa un tranquillo, imperturbabile e ghignante ME NE FREGO! Per tutto quanto chiarito innanzi sarebbe giustificabile un sovrano distacco da istituzioni ridotte a vuoti simulacri di interessi collocabili fuori dai confini nazionali, cui fanno eco FT, NYT, The Economist e fondazioni bilderberghiane varie. Fatta tale premessa l’opzione sostenuta dalla Daga è quella di recarsi alle urne domenica 4 dicembre ma essa richiede una riflessione sul contingente, una piccola planata su quella che Nietzsche definiva le mosche al mercato. Non si tratta di votare NO turandosi montanellianamente il naso, scelta che presupporrebbe una sostanziale adesione al quadro istituzionale repubblicano conservando il solito moderato disprezzo per le opzioni politiche in campo, da cui la scelta del meno peggio (ragionano ancora così moltissimi italiani). Premesso, quindi, che questo appuntamento tutto è tranne che un referendum sulla costituzione di uno stato sovrano, l’opzione NO se assunta in modo appropriato deve avere il solo senso di un ulteriore colpo dato all’ordine mondiale occidentale. Quello che parla per bocca di JP Morgan cui fa eco da giorni Romano Prodi, per intenderci. Al di là del mucchio di frattaglie partitico-ideologiche che si batte per il NO, da Berlusconi, Grillo, Salvini, Meloni, alla minoranza dem, l’ANPI e i costituzionalisti, il proiettile referendario può essere certamente utile a provocare un sisma nell’edificio crepato dell’attuale maggioranza di governo voluta da Giorgio Napolitano – il Grande Architetto delle Larghe Intese che di quegli assetti è il supremo garante condominiale. Già perché Matteo Renzi preso singolarmente non è propriamente un essere reale, se lo osservi per più di un minuto hai sempre l’impressione di vederlo scomparire e tu di dimenticare il suo nome un secondo dopo, ma è certamente l’ultima carta giocata dal mondialismo per questo paese in risposta alla crisi della politica e dei partiti. Giova ricordare che nel 2013 il sistema stava mostrando segnali di crisi evidenti. Grillo, dopo aver radunato a Roma in Piazza S. Giovanni 800 mila persone per la chiusura della campagna elettorale otteneva il 25,56% dei voti (sfiorando gli 8 milioni e settecentomila voti) diventando il primo partito del paese al grido di “tutti a casa”. A quel punto ciò che è restato della classe politica degli ultimi venti anni si è coalizzato facendo appello al grande vecchio del Quirinale per trovare una soluzione che permettesse loro di prendere tempo confidando di logorare i 5 stelle, mediaticamente, sulle lunghe distanze. Ora, Grillo e i Cinque Stelle hanno soltanto il valore di un sintomo, che in Usa si chiama Trump, in Francia Le Pen, in Uk Brexit, in Austria Hofer e potremmo continuare abbracciando il pianeta intero fino alle Filippine di Duterte. Un risveglio collettivo della rabbia di cui gente come Zbigniew Brzezinski (fondatore della Trilaterale) ha perfettamente coscienza. Trasversale, popolare e ancora informe si muove sulla placca continentale tra gli oceani sconquassando il sistema occidentale con la forza dei recenti terremoti – si direbbe in suggestiva coerenza con questi ultimi – e viaggia attraversando città e campagne, fabbriche dismesse e periferie, uomini donne maggioranze minoranze (i neri hanno votato Trump, i detrattori devono farsene una ragione). Una quantità sufficientemente grande di persone sembra aver ingerito la pillola rossa di Matrix, quella che permette di emanciparsi dall’immaginario artificiale indotto dall’esterno e guardare la realtà con i propri veri occhi. Quella che non ti consente di tornare indietro. A questo risveglio collettivo una vittoria del NO darebbe ragione. Pertanto va sostenuto.


Quanto agli scenari post vittoria del NO, sembra abbastanza probabile la conclusione della parabola politica del premier. Magari non subito ma Renzi non accetterà, come ha detto, di galleggiare in mezzo agli Alfano, Verdini e minoranze dem di spettri spiriticamente resuscitati, quelli che pensava di aver rottamato. Non è certo il ritorno di questi portatori di peste che si vuole agevolare, ipotesi da incubo che al contrario oggi sta portando alcuni sulla sponda del SI. Tuttavia loro non torneranno comunque perché si è rotto ormai qualcosa nella connessione emotiva tra la politica e i votanti, le tasche della gente continuano a svuotarsi senza fine a seguito della crisi e, in una nave che affonda, non ti affezioni agli ufficiali che si intrattenevano in sala da ballo quando si doveva stare al timone e virare con decisione. Renzi ha giocato finora su questo sentimento che la sua eventuale caduta non estingue e che probabilmente porterà al governo il Movimento Cinque Stelle. In tutto il mondo i popoli appena votano sfasciano ciò che c’era prima e indicano chiaramente chi afferma di rappresentarli, sia esso un fenomeno da avanspettacolo come Grillo o un leader con il peso di una Le Pen. Non importa per ora. Importa che la scossa ci sia anche da noi come nel resto del mondo e per averla, l’unica soluzione è un consapevole NO.

IL SOVRANISMO QUALE VETTORE DI UN NUOVO ASSETTO EUROPEO

di Gaetano Sebastiani

Se c’è un concetto politico che negli ultimi anni ha pian piano acquisito sempre più peso nel dibattito pubblico quello è sicuramente il sovranismo. Nell’epoca in cui “la fine della storia” avrebbe dovuto consegnarci ad un mondo puramente teleologico, ecco che questa idea (lungi ancora dal divenire una ideologia compiuta e coerente) si presenta in tutta la sua fresca vitalità per smentire i cantori dell’andamento unidirezionale ed omologante dei processi politici.
I più critici considerano il sovranismo la maschera di un volto sulfureo che volge lo sguardo ad episodi storici novecenteschi da relegare nell’oblio del passato. Certamente, si possono rintracciare legami con tempi trascorsi. Ma quelli a cui i detrattori fanno riferimento servono solo a demonizzarne l’essenza, come se questa operazione da sola potesse arrestarne la diffusione. Le radici del sovranismo, a nostro avviso, vanno sì collocate nel passato, ma non in quello recente. È nel 1648, con gli accordi di Westfalia, che il nucleo moderno di questa idea vede la luce. Devastata da un conflitto trentennale, l’Europa dell’epoca pose fine ad una guerra fratricida stabilendo, tra gli altri principi, quello di mantenere l’equilibrio delle potenze ridisegnate secondo gli esiti post-bellici e soprattutto, il rispetto assoluto delle sovranità nazionali. Nasceva “la ragion di Stato” e, insieme ad essa, il principio della non-ingerenza che, con alterne fortune, avrebbe ispirato la politica continentale dei secoli successivi fino al ‘900, quando le forze internazionaliste avrebbero occupato definitivamente il palcoscenico per avviare la globalizzazione che tutti noi conosciamo.
Tracciare questo sintetico excursus serve per ricordare che l’idea di sovranità è qualcosa di fortemente connaturato all’identità europea. I sostenitori del mondialismo che, con la puzza sotto il naso, collocano fuori dal tempo la reazione a questo processo – quasi fosse una barbarie – dovrebbero rifare i conti con il passato ancora pulsante del nostro continente. Oggi, il sovranismo è soprattutto una funzione. È l’argine contro le spinte globalizzatrici ed omologanti del divenire moderno. È il tentativo di recuperare quelle porzioni di potere nazionale maldestramente sacrificate sull’altare di entità extra-statali che svuotano di senso il naturale vivere comunitario. Per certi versi, il sovranismo è la versione più evoluta del nazionalismo novecentesco, in quanto conscio delle sfide dei tempi correnti, poichè se da un lato attribuisce alla ragion di Stato il peso che tale principio merita, dall’altro vede negli altri Stati non più un rivale da aggredire, ma un supporto per costruire una struttura geopolitica multipolare, che metta definitivamente in crisi e superi l’attuale modello a trazione occidentale.
Per quanto paradossale possa sembrare – poichè in antitesi con gli esiti più parossistici del succitato nazionalismo del “secolo breve” -, il sovranismo è, ad ora, il principale portabandiera della pace e della stabilità globali. Nei governanti che si ispirano a tale modello, infatti, non vi è alcun interesse nel sovvertire gli ordinamenti “altri”, nè imporre il proprio sistema di valori con assurde guerre “umanitarie”. Tutto quello che si richiede è il reciproco rispetto della sovranità ed una comune condivisione di tale prospettiva in ottica internazionale.
Le dichiarazioni del presidente Putin, in occasione dell’ottavo meeting dei paesi BRICS tenutosi il 15 e 16 ottobre scorsi a Goa, si muovono proprio in questa direzione. Durante l’incontro, volontariamente e colpevolmente ignorato dai media di regime, il leader russo ha ribadito la comune preferenza dei Cinque circa una risoluzione politico-diplomatica dei principali conflitti internazionali, rigettando qualsiasi forma di violazione della sovranità degli altri Stati. L’esatto opposto delle forze mondializzatrici. Interventisti infarciti di filantropia ipocrita e a fasi alterne (vedi la retorica sui diritti umani), sorretti da una ideologia feroce volta ad occidentalizzare e “democraticizzare” a tutti i costi il resto del globo, impegnati a raggiungere la pace tramite missili telecomandati da remoto, questi agenti patogeni schierati per il cancro chiamato New World Order stanno gettando nel caos più completo interi popoli, provocando una destabilizzazione del quadro geopolitico internazionale impressionante.
Sarebbe troppo facile individuare nei soli USA gli artefici di questo processo fintamente irreversibile. Di certo, la centrale degli sconquassi degli ultimi vent’anni si può collocare oltre oceano, ma è anche grazie al meccanico collaborazionismo dell’Europa che gli effetti di queste scosse stanno producendo i maggiori danni. Esattamente perchè la patria del principio sovrano – il nostro continente, appunto – ha rinunciato a seguire la propria, autonoma via nel solco di quella visione. Si è lasciata lentamente ed inesorabilmente divorare dal verme del servilismo e della dipendenza nel nome di una fedeltà occidentale che non lascia spazio alla libertà d’azione.
La conseguenza fondamentale di un tale approccio miope è la perdita di vista del ruolo ordinatore e stabilizzatore per il mondo intero di un’Europa finalmente sovrana. Se gli Stati nazionali indossassero gli occhiali della storia presente scorgerebbero i limiti del globalismo e la fine desolante a cui sono destinati i loro rispettivi popoli. È proprio casuale questo clima di costante escalation a cui assistiamo ormai quotidianamente? I venti di guerra che spirano dall’estremo occidente (perché è lì che non si accettano assetti diversi da quelli fino ad ora conosciuti) non sono il frutto di un sistema mondializzante ormai sclerotico?
Se oggi, dunque, è facilmente possibile individuare gli elementi eversivi, è altrettanto agevole indicare le giuste contromisure per porre rimedio al disordine. Il sovranismo può costituire il reale vettore per un nuovo assetto europeo (e conseguentemente mondiale). Un’impalcatura agile e funzionale dove gli Stati nazionali continentali riprendono la loro dignità ed operano in comune nel reciproco rispetto delle proprie esistenze. Rinunciano a porzioni di sovranità solo in vista di un progetto confederale finalizzato ad ottenere maggiore peso specifico nella sfide globali e non per soddisfare sogni distopici di unioni al sapore di soviet. Si liberano degli agenti internazionalisti in tutte le loro forme: Nato, ONG guidate da oscuri magnati, istituzioni finanziarie e politiche votate al depauperamento delle identità storiche, culturali ed economiche. Creano alleanze strategiche con paesi contigui (vedi la Russia) che possono offrire migliori prospettive di prosperità, non solo dal punto di vista economico.
Per conseguire tutto questo senza traumi non necessari serve uno scatto di coscienza, un moto interno di indipendenza e libertà. Chissà che un primo balzo in questa direzione non arrivi prossimamente, proprio da quel paese che con ogni energia ha corroso il principio altrui di sovranità…

(BUTTA)FUOCHI lungo la Via della Seta

Pietrangelo_Buttafuoco_0038picA Norberto Bobbio che, alla fine di un’intervista, gli domandò “Mi spiega perché è fascista?”, rispose così: “Professore, confessione per confessione, io non sono fascista. Sono altro. Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti ad altri inaccessibili”.E proprio dal cuore di quella eresia divampa la prosa di Pietrangelo Buttafuoco, nomen omen, giornalista, romanziere, conduttore televisivo e, da marzo, firma del quotidiano “La Repubblica” dalle cui colonne ha recentemente attaccato la destra dei “destrutti”, compilando l’alfabeto dell’agonia berlusconiana. L’ennesimo tizzone, peraltro non privo di conseguenze professionali, di un incendio ideale che la recente raccolta di scritti Fuochi (Vallecchi, pp. 234, euro 14,50) contribuisce a far divampare “recuperando – spiega l’autore – i passaggi riconducibili ad un solo tema polemico, opposto rispetto al dettato ufficiale”. Cioè quello dei conformisti e dei “piritolli, pierini profumati che alzano il dito e fanno letteratura”. Rigorosamente lontano da loro, infatti, si consumano le riflessioni del cuntastorie catanese sul tempo passato e sui tempi che verranno.

Buttafuoco, per cosa si è caratterizzato l’anno appena trascorso?

“Dal punto di vista nazionale ha svelato un trucco che altrimenti sarebbe stato difficile da decifrare: l’Italia non ha una sovranità politica. Dietro il paravento del governo tecnico, dietro l’ipocrisia della grande stampa, dietro le formule con cui hanno cercato di edulcorare la realtà, emerge precisamente questa triste rappresentazione. L’Italia non ha possibilità di decidere del proprio destino e partecipa al Grande Gioco internazionale in una posizione defilata, periferica e ininfluente ”.

In riferimento a quest’ultimo, selezioni due protagonisti del 2012: uno in senso positivo, l’altro in senso negativo…

“Secondo me, parlando di Grande Gioco, la Cina rappresenta l’elemento fondamentale, il vero protagonista. Al contrario, si può vedere nella rielezione di Obama un qualcosa di già noto. L’attuale Presidente rappresenta per gli Stati Uniti quello che Gorbaciov rappresentò per l’Unione Sovietica: è colui il quale metterà fine all’impero, sarà l’ultimo a spegnere le luci”.

È l’ “incubo d’Occidente” su cui riflette nel libro?

“Sì, è proprio questo. Cioè l’idea di non essere più il perno centrale della Storia e della contemporaneità. E di scoprirsi, adesso, in una posizione subalterna”.

Ciò nonostante, o forse proprio in virtù di tali considerazioni, l’Occidente continua a formulare per sé un certo tipo di racconto. In questo, la televisione possiede ancora un ruolo determinante?

“Assolutamente no, non riesce a sopravvivere ad internet ed alla molteplicità delle sue forme. La rete, di fatto, ha già inghiottito la carta stampata, la tv generalista, i telegiornali. Tutto si ritrova ad essere vecchio e inutile anche perché c’è una nuova, sterminata umanità che non è in grado di proporre una attenzione superiore ai due minuti. Parliamo di un pulviscolo sociale fatto di ignoranza: se prima era la fame a determinare lo stato di minorità, oggi è l’ignoranza il fattore decisivo. L’affamato che un tempo si faceva forte della sua necessità di emancipazione aveva comunque un vantaggio rispetto all’ignorante contemporaneo che è e sarà sempre solo uno schiavo”.

Stringendo la visuale sull’Italia, come si può giudicare la Rai della Seconda Repubblica nonché quella del periodo “tecnico”?

“Si tratta della più importante macchina culturale d’Italia, non c’è dubbio. Epperò svela tutta la sua stanchezza e perfino l’inutilità rispetto alla situazione attuale. È soltanto un immenso baraccone di potere dove non c’è possibilità di sperimentare, di innovare, di allevare. Quindi non ci potrà mai essere, in prospettiva, un vivaio. Naturalmente tutto questo accade ora, ma non accadeva in passato quando si riusciva a far convivere e coabitare le punte del nazional-popolare, come Mike Bongiorno, con un grande protagonista del dibattito culturale come Umberto Eco. Il quale, peraltro, fu anche l’autore della mitica Fenomenologia di Mike Bongiorno”.

Da quali parole d’ordine si dovrebbe ricominciare nel 2013?

“Per noi italiani l’espressione di riferimento non può che essere una: la Via della Seta. Si tratta della sola opzione di futuro a disposizione. Bisogna cominciare a lavorare di geografia e di politica estera per capire come il mondo stia cambiando. E, contemporaneamente, dismettere tutte le stupidaggini che ci hanno tenuti ancorati a luoghi comuni, a mondi morti e inutili, e, soprattutto, a pregiudizi grazie ai quali non si è inteso come il futuro riservi molte più chances di quante la nostra noia e la nostra stanchezza ci facciano immaginare”.

E il mezzogiorno quale ruolo specifico potrebbe recitare?

“Noi abbiamo una possibilità politica, strategica e culturale forte ed è, in una sola parola, l’Eurasia. Quando parlo di Via della Seta immagino questo grande continente in cui i popoli con i loro canti, i loro racconti, i loro commerci, i loro mercati, cioè con tutto quello che costruisce la vita quotidiana, si incontrano in un unico alfabeto, quello eurasiatico. La gente del Sud possiede un legame particolare con tale dimensione e Bari è il nostro avamposto, la città che più di ogni altra può aprire questo percorso verso Oriente”.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”