COLPEVOLE di hybris

conteC’è qualcosa di fanaticamente tragico nell’espressione di Antonio Conte con le lacrime agli occhi di fronte alla straripante remuntada viola. Il tecnico bianconero è l’uomo della ferocia muscolare, della fame inestinguibile, del sangue agli occhi, delle partite alla morte. Sempre e comunque, anche dopo due anni di trionfi. Le sue squadre, ormai lo sappiamo, non vincono per sovrana superiorità, per calmo e sapiente dominio del campo, ma perché lasciano il sangue su ogni filo d’erba come se non ci fosse un domani. Nel Conte pensiero l’asticella non è mai all’altezza giusta, bisogna alzarla tutte le volte un po’ più in alto e ogni fibra, mentale e muscolare, deve tendersi in avanti, senza conoscere equilibri né appagamenti. La sconfitta – orrore, orrore – non è una opzione contemplata, chi osa sedersi è un traditore della causa e della patria.

E così, quando, a venti minuti dalla fine di una partita campale (ma non troppo), il giocattolo si rompe e l’incantesimo pure, permettendo agli avversari di ribaltare la situazione, al nostro non rimane che deformarsi in uno sguardo di dolore e lasciare affiorare le lacrime. In fondo, chi non conosce misura non sa piegarsi con serena disciplina al destino infausto, ma solo passare dalla gloria al tracollo. Dagli sfottò beffardi alla curva avversaria al pianto bambinesco. Non serve un grecista per capire che quello di Conte è un peccato di hybris, cioè di smodatezza, di “dismisura”, una colpa imperdonabile che nel mondo antico lo avrebbe reso uomo detestabile agli occhi degli dei e della polis. Oggi, invece, la colpa è divenuta merito nonché indice di tempra e carattere. Lo spirito fanatico di Conte è, in piccolo, proprio quello dell’intero sistema nel quale siamo immersi, è il motore del famoso treno sparato a mille all’ora contro il muro della Storia nella fiera certezza che il freno sia un orpello inutile o una roba da codardi. Massima velocità, nessuna fermata.

Avanti, dunque, Conte e tutti noi. Con una leggera differenza. La Juve l’anno prossimo cambierà allenatore perché i giocatori, giustamente, non ne possono più e chiedono che qualcuno tiri quella maledetta leva del freno. Loro saranno accontentati. Noi no.

*Pubblicato su barbadillo.it

LIMITE, il nuovo saggio di Serge Latouche

Dopo l’incomprensibile sterzata a sinistra dell’ultimo anno, Latouche ritorna sui suoi passi ed elabora una riflessione da molti giudicata “reazionaria” perchè legata al concetto di limite. Parola, quest’ultima, invisa a radical chic salottieri, ex sessantottini in bicicletta, cosmopoliti digitali e compagnia cantando. Eppure, o forse proprio per questo, il libro in oggetto è probabilmente il migliore mai scritto dal filosofo di Vannes…

Chi sconfinava nell’illimitatezza, scriveva Alain Caillé riprendendo un caposaldo del pensiero greco, “doveva essere ostracizzato, escluso dalla città, perché per la città niente è più pericoloso dello scatenamento della hybris”. Ove hybris è parola che indica la smodatezza, la dismisura, l’insaziabile desiderio di essere sempre più di ciò che si è. Quella che nel mondo antico si prefigurava come una anomalia, seppur frequente, punita dagli dei, nella modernità assume i tratti della regola, dell’imperativo categorico da non disattendere mai. Da qui, l’inevitabile rimozione del suo opposto che si potrebbe compendiare in una sola parola, limite, la stessa che dà il titolo all’ultima fatica dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, padre nobile della “decrescita felice”.

Limite  è un agile pamphlet nel quale vengono sciorinati tutti gli ambiti dell’esistenza bisognosi di un confine da ri-tracciare. “In origine – scrive Latouche – il progetto della decrescita si proponeva, più modestamente, di far fronte alla sola dismisura economica, ma oggi si vede progressivamente che questa è il veicolo di tutte le altre”. E, dunque, nel testo, le riflessioni dedicate ai limiti geografici, politici, culturali, economici, morali, conoscitivi, superano largamente quelle legate ai canonici nodi ambientali e finanziari. L’operazione è senza dubbio rischiosa perché sfida le istanze del politicamente corretto: non è più un mistero per nessuno che al banchetto della cultura universale (“che non esiste”, sottolinea) si siano seduti contemporaneamente il capitalismo globale e quei salotti del pensiero “senza frontiere” che, muovendo da “un simpatico umanesimo”, ha attivamente contribuito alla costruzione di “un processo di avanzata decomposizione”. Rifiutando di comprendere che la frontiere non sbarrano ma “filtrano”, rendono possibile l’incontro e lo scambio proprio perché entrambi gli interlocutori portano in dote una specificità e una diversità da porre sul tavolo del dialogo. Il pensiero unico occidentale, in tutte sue facce (quella del liberismo ma anche quella dei diritti), approccia invece l’alterità al solo scopo di soffocarla, soprapponendo le proprie categorie fino a distruggere le precedenti. Un’operazione valoriale che atomizza le coscienze e dissolve le identità sociali finendo per concedere sempre maggiori territori di conquista a quella che Latouche chiama “l’oligarchia plutocratica mondiale”, governo unico di potentati non eletti che riduce gli stati a “prefetti di provincia, onnipotenti nell’applicazione di regolamenti oppressivi ma soggetti ad ordini dall’alto”.

All’individuo solo e inerme, ormai totalmente privo di ogni riferimento, non rimane che affidarsi al potere salvifico della scienza e della tecnologia, le quali, al pari della finanza, rifiutano ogni tipo di regolamentazione e limitazione. La premessa è nella volontà di radere al suolo il già decrepito (per colpa nostra) giardino dell’Eden, “per ricreare il mondo meglio di quanto hanno fatto Dio e la natura”. Naturalmente, la visione di tale capolavoro è di continuo rimandata a data a destinarsi perché, nel frattempo, “il risultato più visibile e tangibile è la trasformazione del mondo reale, quello in cui siamo condannati a vivere, in immondezzaio e discarica”. È, questo, il mero prezzo del progresso o è, piuttosto, l’inevitabile punizione per la nostra hybris?

S. LATOUCHE, Limite  (Bollati Boringhieri, pp. 113, euro 9).

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e barbadillo.it  Reperibile anche su arianna.it