SHARON, il “Leone di Dio” ha smesso di ruggire

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La morte di Ariel Sharon dimostra ancora una volta come sia sufficiente, per i media occidentali, il trapasso all’altro mondo per emendare le zone oscure di leader politici dal passato tortuoso. Nelle parole dell’establishment internazionale – tra cordoglio formale o sincero dolore – scorgiamo la volontà di conferire all’opinione pubblica un’immagine edulcorata, a volte persino contraria alla realtà. Ehud Olmert, ad esempio, ex compagno di partito di ‘Arik’, parla di una vita “intrisa di coraggio e calore umano”; Benjamin Netanyahu, attuale premier ebraico, afferma che Sharon è stato un “combattente valoroso, grande condottiero”.

Neanche fuori dai confini israeliani le dichiarazioni cambiano registro: per il presidente francese, François Hollande, l’ex esponente del Likud è stato “un attore di primo piano nella storia del suo Paese” e dopo una lunga carriera militare e politica “scelse di dialogare con i palestinesi”. La cancelliera tedesca Angela Merkel ricorda “l’audace decisione di ritirare i coloni dalla Striscia di Gaza”; mentre il leader centrista Pier Ferdinando Casini considera il fondatore di ‘Kadima’ “un uomo di pace impegnato a trovare una soluzione possibile di coesistenza pacifica col popolo palestinese”.

Ma chi dispone di memoria storica, ricorda bene che non si dovrebbe associare l’idea di eroe valoroso ad un personaggio che, in veste di ministro della difesa, consentì lo scempio di Sabra e Shatila, dove i Falangisti libanesi (autorizzati dalla Israeli Defense Force a stanare i membri dell’OLP) compirono una mattanza contro i rifugiati palestinesi, massacrando donne, bambini, anziani, civili indifesi. Non si può parlare di uomo di pace, quando si pensa alla passeggiata sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme (luogo sacro per i musulmani), essendo ben consci del valore provocatorio di tale gesto e della grave conseguenza che puntualmente si manifestò sotto forma di ribellione (la seconda Intifada). E quando si considera il concetto di dialogo, bisognerebbe rammentare i ruggiti del ‘Leone di Dio’ contro Arafat, giudicato alla stregua di un terrorista, costretto alla prigione forzata della Muqata’a in Cisgiordania, sfiancato sino alla morte in esilio in Francia.

Infine, esaltare l’audacia del ritiro da Gaza come testimonianza dell’impegno ad una soluzione del conflitto israelo-palestinese, è come indicare la luna e concentrare lo sguardo sul dito. Lo sgombero dei coloni da quel lembo di terra è davvero cosa esigua, se rapportato ad anni di governo nei quali si è perseguito senza remore il progetto ‘Eretz Israel’ (Grande Israele), con la costruzione di insediamenti nella parte orientale di Gerusalemme ed il potenziamento della presenza abusiva in Cisgiordania.

Dovremmo indignarci, dunque, se la dipartita di Sharon ha generato scene di giubilo in Palestina? Chissà, le anime belle occidentali, democratiche e umanitarie, potrebbero sentirsi urtate dalle affermazioni di Fatah – “Sharon è responsabile della morte di Arafat” –; oppure dagli strali impietosi di Hamas, secondo cui questa è “la scomparsa di un criminale con le mani coperte di sangue palestinese”.

Di sicuro, non possiamo sempre chiudere gli occhi dinanzi a certe evidenze e neanche le dichiarazioni più accorate delle istituzioni (a cui spesso concediamo fin troppa credibilità), possono cacciare nell’oblio le responsabilità altrui.

*A cura di Gaetano Sebastiani