IL PADRE DI TUTTI GLI SPIN DOCTOR: EDWARD BERNAYS

di Gaetano Sebastiani

Che la moderna comunicazione politica non sia il mero frutto dell’ars oratoria del leader di turno è ormai un fatto accertato e consolidato. Quello che suscita ancora curiosità è cercare di scoprire quale sia la figura, o meglio la “mente” che ispira gli atteggiamenti, i vezzi e – più importante di tutto – i discorsi dei politici. Sappiamo, ad esempio, che personaggi quali Berlusconi, o anche Renzi, hanno grandi doti comunicative. Ma, partendo dal presupposto che quanto espongono in pubblico non è totalmente farina del loro sacco, non ci è dato facilmente sapere chi sia il deus ex machina dei loro discorsi che, per quanto condivisibili o meno, possiedono comunque il potere di influenzare le masse.
Nell’impossibilità di svelare con precisione nomi e cognomi, ciò che almeno possiamo portare alla luce è la figura al centro di tutto questo processo, quella che una felice ed usatissima espressione anglosassone definisce “spin doctor”, letteralmente il dottore (inteso come esperto) dei colpi ad effetto (dicitura mutuata dal tennis). Lo spin doctor è, dunque, un esperto di comunicazione che, sfruttando e mescolando le sue conoscenze in questo campo, come in quello della psicologia delle masse, riesce a costruire specifiche strategie d’immagine e mediatiche tese ad orientare ed influenzare l’opinione pubblica su un determinato personaggio, molto spesso politico. Se pensate che questa figura nasca solo recentemente, per via dell’attuale e sempre più forte necessità non solo del mondo della politica, ma anche della pubblicità, dell’industria ed in generale dei mass media di condizionare e dirigere il pensiero delle folle siete fuori strada.
Il primo spin doctor che la storia possa registrare nasce, infatti, nel 1891 e risponde al nome di Edward Bernays. Noto più per la sua parentela con il celeberrimo Sigmund Freud (Edward ne è il nipote), Bernays è invece da annoverare tra i personaggi più influenti del XX secolo, proprio per essere stato il pioniere della manipolazione dell’opinione pubblica, grazie ad una efficacissima combinazione delle teorie del sociologo francese Gustave Le Bon (autore di Psicologia delle folle) e gli insegnamenti dello zio.
Nato a Vienna da una famiglia di origini ebraiche, si trasferisce in America poco dopo. Qui, per via di pressioni paterne, studia agricoltura ed ottiene la laurea nel 1912. Disinteressato a questo mondo, intraprende la carriera di giornalista dove ha subito modo di esprimere il suo talento di comunicatore ed influencer, diffondendo dalle colonne di una rivista medica un’opera teatrale che trattava di un argomento scabroso per l’epoca, la sifilide. Bernays affina ulteriormente le sue doti nel mondo dello spettacolo, occupandosi di pubblicizzare una compagnia di danzatori russi con metodi innovativi per l’epoca (opuscoli riguardanti il corpo di ballo, informazioni biografiche, foto, accordi commerciali con aziende americane per produrre gadget ispirati alla compagnia), prima di compiere il definitivo salto di qualità con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. A quell’epoca, il nostro aveva ottenuto una certa fama grazie alla sua capacità di creare un contatto diretto e condizionante sul pubblico presso cui si rivolgeva. Avendo compreso che l’ingresso nel conflitto aveva suscitato molte perplessità nell’opinione pubblica, il Presidente Wilson decide di istituire il Committee on Public Information con il fine di convincere i cittadini che l’ingresso in guerra è cosa giusta. Il comitato è composto da giornalisti, ministri, pubblicitari e naturalmente anche da Bernays. Il frutto di questo lavorio è la diffusione capillare di comunicati stampa, documenti propagandistici, film anti-tedeschi, immagini e poster tra cui il famosissimo “I want you” dello Zio Sam. L’isteria collettiva indotta nella popolazione provoca la costituzione di associazioni patriottiche “spontanee” ed un odio inusitato verso la Germania ed in generale verso i Paesi avversi all’Intesa.


L’idea fondamentale alla base della strategia comunicativa elaborata da Bernays e dal suo entourage è quella per cui l’America non entrava in guerra per ristabilire i vecchi imperi, ma per portare la democrazia in tutta l’Europa. Uno degli slogan più battuti era, infatti, “fare del mondo una democrazia più sicura”. Allora come oggi, sembra che nulla sia cambiato…
In ogni caso, la combinazione tra la vittoria sul campo ed il successo della propaganda organizzata dal Committee rendono Wilson un eroe, un liberatore del popolo e Bernays un efficace manipolatore delle coscienze, abile istigatore delle folle, capace di orientarne sentimenti e paure. Al termine del conflitto, egli si pone il problema di come applicare quanto appreso fino ad allora in un contesto post-bellico. Consapevole della trasformazione della società statunitense in un conglomerato di individui molto spesso ammassato nelle città e dunque più incline a soddisfare bisogni consumistici, Bernays decide di studiarne più in profondità esigenze ed aspettative, supportato anche dalla lettura dell’opera dello zio, Introduzione alla psicoanalisi. Evocare l’emozione irrazionale della gente diventa, quindi, il fulcro fondamentale della sua ricerca. La strada intrapresa dallo spin doctor non poteva che incrociare quella delle grandi corporation americane, arricchite dall’economia di guerra, ma adesso preoccupate di vedere invenduta la grande quantità di beni prodotta in un contesto di pace.
La parola chiave che muoveva i consumi dell’epoca era “necessità”. La grande massa dei consumatori acquistava solo sulla base di precise e semplici necessità legate al quotidiano e la pubblicità stessa rafforzava questo tipo di impostazione. Ma la sovraproduzione di beni delle grandi aziende non poteva più limitarsi a queste piccole esigenze. Ispirato dall’intuizione di un banchiere della Lehman Brothers, Paul Mazur, secondo cui bisognava trasformare “l’America da essere una cultura dei bisogni, ad essere una cultura dei desideri”, Bernays si mette al servizio delle imprese statunitensi per affascinare, influenzare ed infine condizionare i gusti e le scelte del popolo in fatto di acquisti.
Negli anni Venti, con l’innovativo appellativo di “consulente in relazioni pubbliche”, Edward comincia ad applicare tecniche di persuasione di massa al fine di creare un nuovo tipo umano: il consumatore. Per fare questo, utilizza non solo le classiche forme di sponsorizzazione attraverso giornali, riviste, inserzioni, ma sfrutta anche il potente mezzo cinematografico inserendo pubblicità occulte nei film e facendo indossare alle star di quel mondo vestiti, gioielli, prodotti di aziende per cui lui lavora. L’azione di Bernays è così efficace che la stampa dell’epoca è costretta ad ammettere che non solo i singoli individui, ma persino il sistema democratico del Paese ha subito un’evoluzione che prende il nome di “consumismo”, dato che il cittadino americano non ha più importanza in quanto tale, ma in quanto appunto consumatore.
La portata del lavoro di Bernays travalica ormai i meri confini del commercio, dell’industria e dell’influenza sugli acquisti ed abbraccia in tutto e per tutto la politica. Nel 1928, esce il suo libro più famoso: Propaganda. Qui viene esposta la sua particolare concezione di democrazia ed il complesso rapporto tra essa e le folle, come queste ultime possono essere orientate al fine di mantenere saldo lo status quo. Bernays vede di buon occhio la democrazia, ma nel contempo non ripone fiducia nel cosiddetto uomo della strada, incapace di elaborare opinioni corrette e dunque bisognoso di essere guidato dall’alto per evitare scelte politiche errate o sconvenienti. Egli è convinto, dunque, che una manipolazione consapevole ed intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse, svolge un ruolo importante in una società democratica: “Se vogliamo capire il meccanismo e le motivazioni della mente di gruppo, non è forse possibile controllare le masse secondo la nostra volontà, a loro insaputa? La recente pratica di propaganda ha dimostrato che è possibile, almeno fino a un certo punto ed entro certi limiti”.
Naturalmente, in una logica di controllo del potere – soprattutto di stampo politico – avere tra le mani questo strumento sociale significa automaticamente essere in possesso di una forza quasi invisibile capace di dominare un’intera nazione: “Coloro che hanno in mano questo meccanismo […] costituiscono […] il vero potere esecutivo del paese. Noi siamo dominati, la nostra mente plasmata, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, da gente di cui non abbiamo mai sentito parlare. […] Sono loro che manovrano i fili…”.
Ad un solo anno dalla pubblicazione del suo testo fondamentale, Bernays ha modo di applicare le sue teorie ancora una volta con successo. Negli anni Venti il vizio del fumo, pur essendosi diffuso in maniera capillare tra i cittadini, è considerato tabù per le donne, soprattutto se viste fumare in pubblico. Per conquistare anche questa importante fetta di mercato, il presidente dell’American Tobacco Company, George Hill, si rivolge allo spin doctor. Dopo aver studiato il significato simbolico della sigaretta per l’universo femminile (sigaretta come pene, dunque potere maschile, quindi fumare equivale a sfidare il potere maschile), Bernays architetta un piano per dare seguito alle ambizioni di vendita del suo cliente. Durante la tradizionale parata di Pasqua a Broadway, un gruppo di femministe doveva nascondere sotto la gonna delle sigarette che ad un momento convenuto avrebbero dovuto accendere con fare plateale. Ovviamente, la stampa era stata allertata al fine di dare alla manifestazione un elevato grado di eco mediatica e scandalistica, visti i costumi dell’epoca. Inoltre, Bernays aveva specificato agli organi di informazione che quella a cui avrebbero assistito era la protesta delle “Torce della Libertà”. Espressione studiata sagacemente per evocare il simbolo americano per eccellenza, la statua della Libertà ed insieme identificare la battaglia di emancipazione femminista come lotta di liberazione e rivolta contro il potere maschile dominante.
Questo episodio dimostra quanto certe manifestazioni o movimenti “rivoluzionari”animati da gruppi che si professano “spontanei”, agenti dal basso, siano in realtà facilmente manipolati da quelle stesse élite contro cui pensano di battersi. La realtà odierna offre numerosi esempi di quanto veniamo dicendo: è una dinamica, quindi, che affonda le radici nel Novecento, ma evidentemente la storia non insegna nulla.
Negli anni della crisi di Wall Street e del New Deal, Bernays si schiera contro Roosevelt ed a favore delle grandi corporations che osteggiano la politica economica interventista del Presidente. Un maggiore controllo dello Stato sul mercato impedisce alle strategie comunicative elaborate dallo spin doctor di propagarsi liberamente. Per i grandi industriali l’unione tra democrazia americana e capitalismo sfrenato non deve essere messa in crisi. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale pone fine a questa diatriba a favore dei grandi interessi capitalistici e Bernays può continuare imperterrito la sua attività di PR presso la Philco, azienda di elettrodomestici, presso la quale promuove un nuovo modello di radio dalle alte prestazioni sonore.
Dopo la fine del conflitto, lo spin doctor acquisisce una fama nazionale indiscussa e con le sue potenti ed affinate conoscenze in materia di condizionamento delle masse collabora con i più alti gradi istituzionali della politica statunitense, come nel caso del rovesciamento del governo del Guatemala di Jacob Arbenz Guzman. Nel 1953, infatti, questo colonnello viene eletto primo ministro con un programma di restituzione al popolo di quasi tutte le piantagioni di banane possedute dalla compagnia americana “United Fruit Company” (l’attuale Chiquita Brands International). Di conseguenza, la potente corporation ingaggia Bernays per sbarazzarsi dello scomodo ufficiale. Pur essendo semplicemente un socialdemocratico senza alcun legame con la Russia, Guzman viene spacciato negli USA come comunista, aizzando negli americani la paura del pericolo sovietico alle porte di casa. Attraverso un organo di stampa creato ad hoc, fintamente indipendente, Bernays diffonde nel proprio Paese l’idea che il colonnello sia una semplice marionetta nelle mani dei comunisti, manovrata per attaccare da pochi passi gli Stati Uniti. Creato il clima psico-sociale adatto per un “regime change”, non rimane che rovesciare il governo di Guzman utilizzando elementi della CIA sotto copertura per creare ed armare un esercito di “ribelli”, con alla testa un ufficiale locale, tale Carlos Castillo Armas, per conferire all’operazione un carattere spontaneistico interno. Inutile dire che nel 1954, dopo solo un anno al potere, Guzman è costretto a lasciare il Guatemala e la “United Fruit Company” può ritornare a fare affari in uno stato non sovrano.
Confortato dal successo di questa operazione, all’apice della sua carriera Bernays formula il concetto di ”ignegneria del consenso”, concetto tutt’oggi utilizzato ed adattato da moltissimi esperti di comunicazione e manipolazione delle masse con l’odierna espressione “fabbrica del consenso”. Bernays muore all’età di 103 anni, nel 1995.
E’ molto facile intuire come l’eredità di questo ultracentenario ed infaticabile affabulatore di folle, sia sul piano prettamente politico sia su quello del condizionamento ed indirizzamento dei gusti e dei bisogni commerciali dei cittadini sia di grande attualità. I suoi discepoli, noti e meno conosciuti, che agiscano nell’ombra o si manifestino apertamente sotto gli occhi dell’opinione pubblica, prendono spunto a piene mani dalle opere e dalle attività del loro mentore, affinando ancor di più – se possibile – le tecniche di penetrazione mentale e delle coscienze. E nell’era di internet, quella che secondo gli entusiasti porterà gli individui ad un grado di consapevolezza mai raggiunto nel passato, si ha l’impressione, invece, che il “popolo bue” sia ancor più penetrabile e manipolabile. Forse, neanche Bernays si capaciterebbe dei “grandiosi” risultati ottenuti oggi dai suoi esperimenti di ingegneria sociale…

ANATOMIA DI UN GLOBALISTA: PETER SUTHERLAND.

di Gaetano Sebastiani

La vulgata dominante vuole che il fenomeno migratorio sia un evento inevitabile, quasi naturale. Come il capitalismo, o la sua conseguenza più estrema, la globalizzazione, sembra che il processo di sradicamento sia una sorta di spontanea evoluzione dello spirito umano, discendente da un innato istinto a liberarsi da catene intollerabili ed anti umane. Ma appena si indaga un pò più a fondo, si scopre che tutta questa spontaneità, questa “naturalezza”, in realtà è un complesso feticcio ideologico e come ogni ideologia ha un autore che costruisce e propaga ad arte questa weltanschauung.
Nel caso specifico dell’immigrazione, sono vari i personaggi impegnati nel progetto di rendere questo pianeta un unico, gigantesco melting-pot senza identità, attraverso lo spostamento massivo di esseri umani. Sono sempre più all’ordine del giorno le indagini su personalità quali George Soros, fino a qualche anno fa misconosciuto ai più ed oggi giustamente sotto i riflettori per le sue peculiari attività “filantropiche”. Ma ve ne sono altre, meno esposte mediaticamente e con ruoli chiave nell’ambito delle istituzioni internazionali che meritano attenzione, non fosse altro per avere la reale contezza di chi governa questi processi “inevitabili” e soprattutto qual è l’ideologia che li muove. Esempio illustrissimo di quanto veniamo dicendo è sicuramente Peter Sutherland, Rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per le migrazioni.
Nato a Dublino nel 1946, Sutherland si laurea in legge nella facoltà della sua città. Dopo un breve periodo da avvocato, negli anni Settanta entra in politica nelle fila del Fine Gael (un partito moderato di centro-destra, diremmo oggi) fallendo l’accesso al parlamento nazionale alle elezioni del 1973. Nonostante l’insuccesso, ricopre ruoli sempre più strategici nel partito e nel 1981 ottiene addirittura l’incarico di Attorney General dal governo irlandese.
Da questo momento in poi, la carriera politica di Sutherland compie balzi da gigante, soprattutto in ambito europeo e poi internazionale. Nel 1985, infatti, diventa Commissario europeo per la Concorrenza, gli affari sociali e l’istruzione. L’attenzione verso quest’ultima tematica lo porta ad essere, de facto, uno degli esecutori del celeberrimo Progetto Erasmus, tanto caro ai giovani “millennials”.
La dimensione europea è però troppo stretta per una personalità così impegnata nella costruzione di una visione globale dei rapporti umani e politici. Nel 1993, Sutherland viene nominato direttore generale del GATT, l’antesignano dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, di cui curò anche il passaggio all’attuale dicitura e riorganizzazione di competenze. Tra i “meritevoli” impegni nel WTO, ricordiamo la conclusione di negoziati tra UE e USA sul commercio di prodotti agricoli, una sorta di TTIP in scala ridotta (ma da qualche parte si doveva pur cominciare…).
Dopo la presidenza alla British Petroleum ed incarichi non esecutivi nei board di Royal Bank of Scotland e Goldman Sachs, il Nostro entra finalmente nei circoli pensanti del globalismo oltranzista. Diventa, infatti, membro del comitato direttivo del gruppo Bilderberg e successivamente presiede la sezione europea della Commissione Trilaterale dal 2001 al 2010. Insomma, un cursus honorum degno di ogni benefattore della propria patria e dell’umanità intera, come i vari Draghi, Monti, Barroso e tanti tanti altri… Intanto, nel 2006, ottiene l’incarico di Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per le migrazioni, ruolo che tutt’ora ricopre con innegabili “successi” e con uno zelo propagandistico da fare invidia al più invasato dei mondialisti.
Attraverso articoli facilmente reperibili in rete (vedi il sito della BBC, o anche Breitbart.com), è possibile apprezzare alcune delle idee che muovono il pensiero di Sutherland. L’UE, ad esempio, dovrebbe “fare del suo meglio per minare l’omogeneità dei suoi Stati membri”, poichè la prosperità futura del nostro continente dipende dalla sua capacità di diventare quanto più possibile multiculturale. L’ossessione per il “multiculturalismo” è un tratto tipico dei globalisti che sfocia spesso in un malcelato disprezzo per tutti coloro i quali si oppongono, o semplicemente contestano questa visione. Non ne è esente neanche Sutherland, per il quale la dimensione multiculturale è un dovere per l’Europa di domani, “nonostante la difficoltà di spiegare questo principio ai suoi cittadini”. E’ chiaro? Se anche vi opponete, se anche non apprezzate l’importanza e la ricchezza culturale che orde di immigrati disperati possano apportare al nostro continente così bisognoso, ci penseranno i bravi e filantropi paladini come Sutherland ad introiettarvi questi concetti fino a farveli finalmente capire ed accettare, visto che siete dei trogloditi, bigotti, retrogradi e magari anche omofobi e fascisti (che non guasta mai). Quello che tutte queste categorie non riescono ancora a vedere e che “democraticamente” i soloni della mondializzazione cercano sapientemente di insegnarci è che l’immigrazione è “una dinamica cruciale per la crescita economica”, dice ancora l’avvocato irlandese. Da questo punto di vista, l’Europa dovrebbe smettere di puntare solo sui migranti “highly skilled” e porre fine alle restrizioni verso quelli “low skilled”, perchè “tutti gli individui devono avere libertà di scelta” su dove vivere e lavorare. Opporsi a questi principi significa per Sutherland tradire i valori fondanti dell’Europa come l’uguaglianza, i diritti fondamentali degli esseri umani, la libertà di commercio, insomma tutta la poltiglia che gli autoctoni sono costretti ad ingurgitare quotidianamente e che sta portando allo sfascio (finalmente) tutta l’impalcatura europoide.
Ovviamente, come ogni globalista che si rispetti, secondo Sutherland la responsabilità del disfacimento non è minimamente attribuibile all’attuale sistema di potere: ciò che sta minando le basi di questo progetto così illuminato è il montante populismo. E qui, senza infingimenti particolari, il Rappresentante speciale toglie la maschera e ci espone la sua (e di tanti altri) strategia per frenare l’avanzata del nemico. I media devono essere responsabilizzati nella lotta al populismo “riportando i fatti [circa l’immigrazione] in maniera positiva”. Da cui si deduce che il sistema informativo non deve avere un occhio critico verso gli eventi – ed in particolare verso questo fenomeno -, quindi deve rinunciare alla propria essenza (cosa appurata ormai da tempo) e attivarsi come macchina di propagazione di una visione parziale predeterminata che i cittadini devono accettare come realtà incontestabile.
Dovrebbe essere chiaro ora quali siano i centri istituzionali e di potere da cui provengono le strategie comunicative e mediatiche in genere circa questo fenomeno. Dalle storie strappa-lacrime raccontate dai tg all’omissione di notizie cruciali quali il coinvolgimento di importanti ONG nella spola di esseri umani tra le sponde del Mediterraneo alle direttive imposte dai piani alti alle forze dell’ordine di non diffondere notizie circa le violenze degli immigrati sul nostro suolo (vedi il caso degli stupri in Germania durante il Capodanno), tutta questa sovrastruttura propagandistica serve un progetto ben preciso, pianificato da menti e personaggi (semi)sconosciuti.
Non potremmo chiudere questa disamina su Sutherland senza riportare una sua significativa citazione, non a caso in bella mostra sulla sua scheda di presentazione sul sito dell’ONU: “nessun’altra forza – non il commercio, nè il flusso di capitali – ha il potenziale di trasformare le vite in maniera sostenibile e positiva come l’immigrazione fa”.
Come fate a non notare anche voi quanto sostenibili e positive stiano diventando le vostre vite, grazie all’applicazione di queste geniali visioni?

LA (FINTA) FINE DEL NAZARENO É LA FINE DELLA LEGA?

di Gaetano Sebastiani

C’è chi dice che l’idillio sia davvero finito. C’è chi, invece, sostiene che l’intesa continui sottotraccia, attaverso altre forme di corteggiamento. A prescindere dalle differenti posizioni, il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi tiene ancora in fervente ebollizione il calderone della politica italiana. Ed i fumi che continuano a propagarsi nelle stanze del potere cominciano a provocare effetti non desiderati.
Il canale di comunicazione che si sta aprendo in questi giorni tra l’ex-cavaliere e Salvini, infatti, potrebbe avere conseguenze devastanti per il Carroccio. Innanzitutto, vi è un danno d’immagine: gli sforzi prodotti in questi mesi di gestione post-Bossi, tutti tesi a segnare un punto di cesura con le precedenti esperienze politiche potrebbero andare in frantumi. Il giovane leader della Lega aveva risollevato le sorti di un partito morente, cavalcando con molta astuzia la battaglia no-euro durante le elezioni europee (anche grazie all’apporto teorico-programmatico di grandi economisti, vedi Bagnai). Tale posizione poneva di fatto la Lega quale forza nettamente distante dai protagonisti del partito unico delle larghe intese, visto che nemmeno il M5S – pur euroscettico – aveva prodotto teorie così “ardite” sulla moneta unica.
Inoltre, le dichiarazioni molto dure di Salvini dei mesi scorsi sugli inciuci tra Renzi e Berlusconi, sull’impossibilità di dialogare con “chi si fa fregare” e la scelta di “non barattare la coerenza per qualche voto in più”, potrebbero diventare lettera morta, se davvero la cena di Arcore dei giorni scorsi porterà a nuove intese tra Forza Italia e Lega.
Perchè l’isolazionismo del Carroccio, la distanza che si era naturalmente prodotta tra i protagonisti del Nazareno e gli ex-padani, lasciava a Salvini una prateria di voti tutta da esplorare e gli consentiva di pianificare un progetto politico più coerente con i propositi euroscettici, più vicina al sentire di molti elettori delusi da Berlusconi e dalle sue politiche ambigue. L’abbraccio con il caimano di Arcore, invece, spegnerebbe sul nascere questo potenziale e riconsegnerebbe la Lega all’alveo delle forze politiche che di giorno lavorano da contestatori del sistema e di notte si accordano con il nemico affinchè nulla cambi.
L’ascesa della Lega nei sondaggi – persino al Sud – potrebbe avere, dunque, esiti drammaticamente differenti rispetto a quelli visti in Francia con il Front National di Marine Le Pen, alla quale Salvini dice di ispirarsi. La leonessa transalpina ha ereditato dal padre un partito emarginato dalla scena politica (tranne che per rari e scostanti successi elettorali), etichettato come fascista, buono solo in quanto sfogatoio contro gli immigrati. Negli anni della sua gestione, questa forza politica si è trasformata in un grande partito nazionale, anzi “patriote” come suole ribadire la Le Pen, sovranista, fieramente anti-euro ed oggi, dopo anni di proficue elaborazioni progettuali e strategiche, è diventato il primo partito di Francia, pronto alla sfida con le formazioni filo-troika e con un numero di tesserati tra i giovani da far invidia al Pci degli anni settanta. Durante questo percorso, non vi è mai stato un cedimento verso il centro-destra transalpino, mai un dubbio sulla necessità di non siglare intese con l’UMP o altri partiti avversi.
Se Salvini non sarà animato da quella stessa pazienza, da quella stessa lungimiranza che dovrebbe discendere dall’urgenza di affrontare le sfide lanciate da questi tempi grami, dimostrerà di avere sguardo miope e poca aderenza allo spirito rinnovatore che lo aveva animato agli esordi. E la finta fine del Nazareno ci consegnerà, non solo altre tristi puntate della telenovela Renzi-Berlusconi, ma anche l’ennesimo vuoto politico che attende ancora una proposta adeguata.