ENRICO MATTEI, l’italiano che sfidò i giganti

Sovranità, interesse nazionale, autodeterminazione. Parole impronunciabili negli anni della Guerra Fredda e in quelli, contemporanei, del mondialismo. Ad esse Enrico Mattei ispirò la sua azione e pagò con la vita. Ancora oggi, forse più di prima, sembra imperativo silenziare il valore della sua opera.

Il 27 ottobre del 1962, esattamente cinquant’anni fa, il bireattore “Morane Saulnier 760” esplose nei cieli di Bescapè, in provincia di Pavia. Moriva così quella che il quotidiano “The Guardian” ha definito “una delle personalità più eccezionali del dopoguerra”: Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), colui che, in appena quindici anni, muovendo dalla guida di un’Agip in odor di liquidazione, aveva immaginato e strutturato una politica energetica  efficiente al punto da tramutare l’incerottata Italietta postbellica in una potenza di livello globale. Partigiano bianco, democristiano, ministro degli esteri “ombra”, finanziatore di giornali e servizi segreti, Mattei incarnò tutto questo ed anche altro. Ma, in primo luogo, fu “un uomo che aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo paese” come affermò l’arcinemico William Stott, vicepresidente esecutivo della americana Standard Oil Company. É questa la citazione che apre il volume Enrico Mattei (Il Mulino, pp. 183, euro 12) dello storico barese Nico Perrone, autore di numerose opere sull’industriale di Acqualagna. Il saggio, che ripercorre la vita e le gesta di Mattei, è un grido nel silenzio ovattato che sta accompagnando la ricorrenza: “Per molti anni – spiega Perrone – i meriti di Mattei furono negati, impedendo al valore della sua opera di ottenere il giusto riconoscimento. Dopodiché, si passò all’indifferenza: questo secondo passaggio non fu il frutto di un processo artificiale, ma semplicemente l’effetto di una impostazione sedimentatasi nel tempo e quindi facilmente incline a replicarsi spontaneamente”.

Professore, facciamo un passo indietro. Per molti anni la morte di Mattei fu ritenuta un incidente.
“All’inizio passò la tesi negazionista: ‘È stata una disgrazia’, si disse. Una della tante che si verificano in Italia. E, coerentemente, si registrarono delle reticenze nel corso della relativa inchiesta giudiziaria apparsa fin da subito claudicante e lacunosa. Chi aveva interesse ad occultare i fatti si adoperò molto. In particolare, si evitò di indagare lì dove serviva e cioè a proposito della presenza di esplosivo nel veivolo. L’esplosivo c’era, ma la verità emerse molti anni dopo su iniziativa del magistrato Vincenzo Calia che condusse una nuova indagine terminata nel 2003”

Cosa scoprì Calia?
“Calia arrivò ad una conclusione precisa e documentata: la carica, i cui resti erano ancora reperibili fra i relitti dell’aereo, fu attivata quando il pilota azionò il comando per la fuoriuscita del carrello. Non si trattò di un incidente. Purtroppo ignoriamo ancora chi siano i responsabili e, con tutta probabilità, non lo sapremo mai.”

Di ipotesi se ne sono formulate tante. Leonardo Sciascia avanzò il sospetto di un coinvolgimento della mafia nell’operazione, anche se la “mano” straniera rimane la principale indiziata. È possibile mettere un po’ d’ordine fra le molte supposizioni?
“La mafia non può considerarsi mandante, perché non aveva i mezzi tecnici per un attentato di quel genere che, allora, poteva essere gestito solo da un servizio segreto dotato di tecnologie avanzatissime. La ricerca, pressoché irrealizzabile, andrebbe svolta nell’ambito di quelle grandi potenze – Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Unione Sovietica – che disponevano di servizi dotati di strumenti di primo livello. Il collegamento, almeno temporale, con la crisi dei missili sovietici a Cuba non dev’essere trascurato, ma è indimostrato. In sintesi, la mafia potrebbe aver dato una mano sul posto, ma il mandante e i tecnici sono altrove”.

Pierpaolo Pasolini indagò a fondo sulla vicenda e, a detta di molti, si imbatté in un verità scomoda che gli costò la vita. Le storie dell’industriale e dello scrittore sono realmente legate a filo doppio?
“Questo è un crinale pericoloso. Mettere in connessione troppe cose induce a viaggiare con la mente anziché attenersi ai fatti che, in questi casi, sono la bussola di riferimento più preziosa. Si può prendere atto di alcune aderenze, ma è sempre necessario non lasciarsi deviare e, soprattutto, permettere agli strumenti giudiziari e storici di indagare senza intralci”.

Il silenzio che avvolge la morte di Mattei si estende anche il valore della sua opera. Perché?
“La lezione di Mattei ruota integralmente intorno ad una tensione oggi scomoda e cioè la ricostruzione del valore dell’interesse nazionale. Si tratta di un concetto abbastanza complesso che lega politica, economia e finanza. Alla fine della guerra esso era completamente smarrito, sepolto dal conflitto e dalla volontà di negare qualunque cosa fosse appartenuta all’impianto valoriale del fascismo. Mattei ridiede slancio a quell’impulso e l’Eni riuscì a diventare una della maggiori holding petrolifere del mondo in un frangente in cui il mercato era dominato dal cartello delle anglosassoni “Sette sorelle”, le indiscusse big del petrolio globale. E i benefici furono innumerevoli”.

Cosa resta di quella stagione?
“In Francia e in Germania si sono alternati governi dei più diversi colori, ma tutti hanno mantenuto fermo un punto preciso: la maggioranza delle imprese strategiche doveva rimanere saldamente nelle mani dello stato. In Italia, invece, nonostante l’esempio di Mattei, si è provveduto a smantellarle con la progressiva opera di privatizzazione selvaggia sviluppatasi, con la partecipazione attiva di Mario Draghi, sotto i governi Ciampi, Dini, Prodi e Amato. Si tratta di un processo, mai terminato, che obbedisce ad interessi stranieri e che, purtroppo, continua ancora. Oggi si desidera vendere le (poche) parti ancora pubbliche dell’Eni. In realtà, non cambia molto: quel simbolo è tramontato da tempo”.

*Intervista pubblicata su “La Gazzetta del Mezzogiorno”