1992. SCHEGGE DI VERA STORIA (PARTE II)

di Leonardo Petrocelli

Privatizzare l’anima

Leggenda vuole che Mario Draghi, attuale presidente della BCE ed allora direttore generale del Tesoro, sia stato il grande mattatore dell’incontro avvenuto sul panfilo Britannia, il 2 giugno del 1992. In realtà, il nostro si limitò a salire a bordo e comiziare per qualche minuto con poche ma significative parole: “Le privatizzazioni – declamò – sono un lodevole strumento per limitare l’interferenza politica”. Punto. In questa frase c’era tutto il senso della rivoluzione che si approssimava: svuotare gli Stati dal di dentro, depositando debiti, aziende, banche, asset strategici nelle mani invisibili del mercato, in modo da limitare le leve del Politico, già prostrato, ed esporlo al ricatto finanziario. Di questo si discusse sul Britannia: pianificare la liquidazione della azienda Italia, mentre Tangentopoli decapitava la classe dirigente del tempo e la rendeva incapace di correre in soccorso dell’interesse nazionale.
Espletate le formalità e chiarite le premesse, Draghi scese dalla nave e lasciò i dettagli ai presenti che presero il largo verso le acque interazionali. Chi fosse rimasto a bordo è stato, ed è ancora, oggetto di dibattito. Da una parte, di sicuro, figuravano i cosiddetti British Invisibles, cioè i banchieri della City londinese (Warburg, Barclay, Coopers Lybrand, Barino etc), dall’altra gli omologhi nostrani, più manager dell’Iri e dell’Efim, rappresentanti di Confindustria e alcuni volti noti che impareremo a conoscere: Rainer Masera, Giovanni Bazoli, Beniamino Andreatta. Qualcuno sostiene anche Prodi e Tremonti. L’incontro fu pittoresco, fra orchestre e lanci di paracadutisti, e senz’altro utile. “Da quel momento – scriverà infatti Sergio Romano sul “Corriere” – e per tutti gli anni seguenti, non vi è stata privatizzazione in cui la finanza anglo-americana non abbia svolto un ruolo importante”.
D’altronde, per averne prova tangibile è sufficiente seguire la timeline degli eventi successivi. Pochi giorni dopo il confronto sul Bitannia, precisamente il 28 giungo, l’ambiguo Scalfaro (eletto Presidente a discapito di un Andreotti ormai al tramonto), incoronava premier il “tecnico” Giuliano Amato, il braccio destro di Craxi, l’unico socialista graziato dalla Tangentopoli a comando. Il motivo dell’immunità non è un mistero: Amato serviva, e tanto. La sua prima mossa fu quella di disporre, attraverso la legge 359 del 1992, la trasformazione immediata di ENI, IRI, INA ed ENEL in S.p.a. e di prevedere, tramite delibera del Cipe, la medesima possibilità per tutti gli enti pubblici economici operanti in qualunque settore (c.d. “privatizzazione formale”). A perfezionare la pratica ci penserà, due anni dopo, la legge 474, dedicata alle disposizioni sulle vendite delle partecipazioni azionarie (c.d. “privatizzazione sostanziale”). Non pago, Amato nominò, come consulenti internazionali in materia, tre istituti al di sotto di ogni sospetto: Merrill Lynch, Morgan Stanley e soprattutto Goldman Sachs il cui senior advisor Romano Prodi si adopererà moltissimo per garantire la buona (per loro) riuscita delle operazioni. Finalmente, era tutto pronto. Si consideri che, al tempo, il 25% dell’economia nazionale era in mano pubblica, ma a quel punto ogni bene poteva essere agevolmente acquistato dal capitale internazionale ed anche da quello nostrano, dai De Benedetti, dagli Agnelli, dai Pirelli, dai Cuccia, dai Tronchetti Provera. Insomma, da tutto il salotto buono del capitalismo italiano che, da anni, non aspettava altro.
Tuttavia, sopravviveva un problema. Il boccone era ghiotto, ghiottissimo, ma ancora troppo caro. La finanza voleva saccheggiare, d’accordo, ma con poca spesa. Indi, che fare? Serviva una trappola che scattò immediatamente. In una manciata di mesi, Moody’s, la più “politica” fra le agenzie di rating, declassò i Bot italiani a livello di quelli portoghesi, sbattendoci in serie C (con relativo aumento dei tassi di interesse e quindi del debito). Mentre, quasi contemporaneamente, Soros lanciava a settembre il suo celeberrimo attacco speculativo contro la lira, spalleggiato dai nostri “consulenti” (sic) della Goldman. Per respingere l’offensiva, il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, un cavallo di razza sellato dalla solita cricca finanziaria di matrice azionista e massonica, bruciò 50 miliardi di dollari, distruggendo le nostre riserve. Il risultato fu il crollo del valore monetario che comportò, per i predatori appostati nella selva mercatista, un lauto sconto del 30% sugli acquisti dei beni italici. Si trattava, in realtà, di una manovra molto di moda a quei tempi, adoperata anche in occasione dell’aggressione alla Russia post-sovietica: svalutazione del rublo, imposta questa volta dal Fondo Monetario Internazionale, e rastrellamento sotto costo delle aziende strategiche pubbliche di più rilevante interesse (ci penserà Putin a rimettere le cose a posto e, per questo, non sarà mai perdonato).
Per di più, il disastro veniva buono anche per giustificare agli italiani la svendita del patrimonio nazionale, incoraggiata dalla sovraesposizione mediatica del problema-debito. Debito, oltretutto, in libera impennata dal 1981, quando Andreatta, futuro passeggero del Britannia e maestro di Enrico Letta, aveva decretato il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, rimuovendo quest’ultima dal suo ruolo di prestatore di ultima istanza e consegnando il finanziamento del Paese ai capricci del mercato. E permettendo così, da Ciampi a D’Alema, quel processo di internazionalizzazione del debito che, rileva l’illustre economista Marcello De Cecco (Normale di Pisa, Sapienza di Roma), “impedisce alle politiche degli Stati di entrare in disaccordo con i mercati per più di qualche mese”.
Affogata dal debito, con i Bot declassati, la lira moribonda e le riserve bruciate, cosa poteva fare la povera Italia per sopravvivere? I grandi giornaloni della finanza globale – “Financial Times”, “Washington Post”, “Wall Street Journal” e l’immancabile “Economist”, seguiti a ruota dai nostri media servili – non avevano dubbi: privatizzare, privatizzare, privatizzare. Sottocosto e subito.
Ed è precisamente quanto accadde, durante tutto l’arco dei Novanta con un picco tra il 1997 e il 2000 che segnò una sorta di record europeo. Nessuno ha mai privatizzato quanto noi in quegli anni, nemmeno l’Inghilterra. Inutile perdersi in dettagli, comunque. Su internet si trovano dati e tabelle a iosa. Basti sapere che nel decennio svendemmo quasi tutto lo svendibile a capitalisti nostrani e stranieri: l’industria farmaceutica ad americani e tedeschi, le rete telefonica delle Ferrovie, cioè Infostrada, a De Benedetti (che, come al solito, la rivenderà subito a Mannesmann), le autostrade a Benetton, l’alimentare e la ristorazione a Nestlé, Unichips, Fisvi, l’alluminio alla americana Alcoa, la Telecom ad Agnelli, la siderurgia ai magnifici Riva (belle le privatizzazioni, vero?), la meccanica, l’impiantistica e l’elettronica a General Electric, Brown & Sharpe e Mannesmann, il vetrocemento a Pilkington e Caltagirone. Solo per citare alcuni casi. E che dire degli istituti di credito? Il Banco di Roma (insieme a Mediocredito Centrale e Banco di Sicilia) andò agli olandesi della Abn Amro, la BNL agli spagnoli del Banco di Bilbao, il San Paolo agli iberici di Santander. Non ebbero sorte migliore la Cariplo, il Credito Italiano, la Banca Commerciale. Rimase italiano solo il Monte dei Paschi, in quanto banca di partito del partito amico della finanza. Passato il decennio, l’incubo continuerà anche con Berlusconi, lesto a svendere la nostra chimica d’eccellenza agli arabi della Sabic.
Naturalmente, non solo fu ceduto tutto senza nemmeno provare ad immaginare una strategia di rilancio e di riorganizzazione, senza esigere piani sensati di sviluppo industriale, senza individuare la ricaduta delle operazioni sulle sorti dell’economia nazionale nel medio e lungo periodo, ma, per soprammercato, i capitali italiani non andarono da nessuna parte. Rimasero qui, a fluire e rifluire nelle piccole guerre di cortile del potere finanziario nostrano, tutto interno ad esibirsi in scalate e faide sulla pelle della comunità nazionale. Abbiamo venduto senza comprare nulla né programmare alcunché. D’altronde non era questo lo scopo della manovra. Era un altro: rendere l’Italia una espressione geografica.

La Grande Trasformazione. Ovvero, i Maledetti Novanta

clintonLa piccola saga nostrana di inchieste e privatizzazioni sembra essere il solo squillo di tromba in un mare di niente. Non casualmente, nei manuali di storia, gli Anni Novanta sono un fastidioso intermezzo, una seccatura, una pratica da liquidare al più presto che si ostina a frapporsi tra i due grandi eventi dell’epopea contemporanea: il crollo del Muro di Berlino (1989) e l’attentato alle Torri Gemelle (2001). Quasi nel mezzo non vi fosse stato nulla di rilevante a parte la prima crisi del Golfo, la guerra in Jugoslavia e la sua appendice kosovara, tre episodi di cui ormai nessuno o quasi si ricorda più.
E, invece, i Novanta furono un decennio campale perché tutto quello che tragicamente scontiamo oggi fu concepito allora, nel silenzio-assenso di popolazioni esauste dopo quarant’anni di Guerra Fredda e ben determinate ad addormentarsi sul divano della Storia, coccolate ed anestetizzate da tutte le innovazioni tempestivamente squadernate sul tavolo dell’entertainment, dalla Playstation al Grande Fratello. E non ci riferiamo all’avvento e alla crescita (1992-95) di Internet, l’arma a doppio taglio che meriterebbe una lunga analisi a sé. Altri sono, in questo contesto, gli elementi che ci preme elencare. Fu tra il 1990 e il 1992 che iniziarono, ad esempio, a diffondersi in misura sensibile i derivati, cioè le terribili scommesse finanziare entrate di prepotenza nella cronaca economica attuale. Fu in quel periodo che si consolidò l‘unione strutturale tra le banche di credito ordinario (cioè quelle che prestano soldi a famiglie e imprese) e le banche d’affari, dedite a ben altro genere di investimenti. Ancora, fu in quegli anni, precisamente nel 1995, che sorse la World Trade Organization, l’organizzazione mondiale nata per favorire l’abolizione delle barriere tariffarie del commercio interazionale. E come non citare la progressiva rimozione del welfare e delle tutele sociali, altro gentile lascito dei Novanta, incoraggiata oltretutto dalla fine del ricatto sovietico (se togliamo lavoro e pensione gli europei si getteranno fra le braccia dell’Urss, pensavano. Quindi aspettiamo). Per tacere, ovviamente, del Trattato di Maastricht, firmato (serve dirlo?) nel 1992, che chiudeva a doppia mandata la prigione dei popoli europei.
Se qualcuno non l’avesse capito, il capitalismo stava portando a compimento la propria mutazione genetica da sistema imprenditoriale e borghese a sistema “assoluto” (Fusaro), del tutto sciolto da ogni vincolo normativo, etico, convenzionale e, soprattutto, politico. In altre parole, si assisteva allora, in presa diretta, all’ascesa della grande finanza sovranazionale al governo del mondo ed al parallelo tramonto degli stati nazionali (e dei popoli), ormai divenuti il nemico pubblico numero uno della globalizzazione trionfante e destinati a disfarsi nella cloaca liquida dei “mercati”. Una svolta non priva di qualche senso dell’ironia, se si pensa che, in passato, le nazioni erano state lo strumento “progressista” con cui sabotare gli Imperi e permettere l’ascesa dilagante dell’immaginario borghese che già conteneva in nuce i germi dell’attuale delirio. Ma tutto passa ed anche quel mondo aveva fatto il suo tempo: dunque via gli Stati, via i popoli, via perfino le poche certezze sociali della “modernità abitabile”. E dentro la Grande Trasformazione “dionisiaca” del capitalismo assoluto.
L’espressione Grande Trasformazione, ovviamente, non è nostra. Il sociologo Karl Polanyi la adoperò, nel 1944, per rappresentare il travolgente ritorno dello Stato al potere negli Anni Trenta, dopo l’euforia mercatista delle decadi precedenti, poi epilogata dal disastro del ’29. Ma quello sconvolgimento, per quanto notevole, impallidisce se confrontato con il mutamento occorso negli ultimi due lustri dello scorso secolo. E il quadro non è ancora completo, perché c’è stato un altro evento degno di segnalazione in questo interminabile 1992 che pare non finire mai: l’elezione di Bill Clinton alla Presidenza degli Stati Uniti.
La vittoria del democratico, accompagnata dal solito codazzo di applausi ed urla gaudenti per l’avvenuto ritorno alla Casa Bianca dell’America buona e solidale, coincise invece con due notevoli accadimenti. Il primo, indirettamente già citato in apertura di paragrafo, fu l’abolizione dello Glass-Steagall Act e l’approvazione del Gramm-Leach-Bliley Act, cioè la legge per la modernizzazione dei servizi finanziari che eliminava il divieto per le banche commerciali di effettuare investimenti speculativi (in Italia Draghi lo aveva già realizzato nel 1993) e poneva, di fatto, le basi per la crisi che sarebbe scoppiata nel 2007. Il secondo, forse ancor più rilevante, coincise con l’instaurazione di un ordine internazionale di tipo ferocemente monopolare. Liquidata l’Urss, e, nel tempo, anche l’Onu, la pax clintoniana si estese, inarrestabile, all’intero globo. Ad opporsi, infatti, non c’era più nessuno, a parte il solito Iran, la piccola Corea del Nord e una Cina ancora in fase di riassesto. L’avvento di Putin era lontano un decennio. E dunque eccolo qui, il gigante solo alla testa del mondo, il poliziotto che bastona, bacchetta, richiama e riconverte (fu Clinton ad inventare l’espressione “Stato canaglia”), promuove le guerre “in” e non “a”, e soprattutto si prepara, Nato al seguito – dopo il rodaggio dell’atroce esperienza jugoslava -, all’esercizio della violenza imperialista post 11 settembre. È del 1998, infatti, la lettera che i neocon spediranno al Presidente, caldeggiando un intervento definitivo contro Saddam e un deciso cambiamento di rotta nella politiche mediorientali. Ad onor del vero, come ci ricorda il sempre prezioso Thierry Meyssan, Clinton provò ad opporsi alla spallata lanciando perfino un attacco frontale al tentacolare Deep State americano (fuggito in Israele), ma la rivelazione di un suo lussurioso armeggiare sotto la scrivania con la stagista di origine ebraica Monica Lewinsky lo tolse definitivamente di mezzo. Non prima, però, di quella preziosa firma che autorizzò il bombardamento della Serbia.

Un Paese Normale

E torniamo in Italia. Abbiamo lasciato il Paese in balia del pool di Mani Pulite, intento a stroncare socialisti e democristiani, e della governance finanziaria, dedita al saccheggio selvaggio dei gioielli di famiglia. Manca ancora, però, il terzo elemento del triangolo. Nel biennio horribilis 1992-93, completato dall’approdo a Roma degli emissari del Fondo Monetario Internazionale e da una riunione ateniese del Bilderberg interamente incentrata sul “caso Italia”, il timone era stato affidato ai “tecnici” (come sempre nelle fasi di aggressione all’interesse nazionale). Scalfaro, abbiam detto, aveva lanciato Amato il quale – ormai inviso al popolo dopo l’infamia del prelievo forzoso sui conti concorrenti, avvenuto nella notte fra il 9 e 10 luglio ’92 – cedette il posto a  Ciampi. Per la prima volta un banchiere sedeva a Palazzo Chigi (in attesa del Quirinale). Giù la maschera, quindi, e tappetto rosso per tutti gli illustri personaggi di cui sopra, da Andretta a Maccanico, saldamente incistati nel governo anti-italiano dei fiduciari della grande finanza. Ma non poteva durare per sempre.
Superata la transizione, infatti, serviva, come auspicato dall'”Economist” nel pre-Tangentopoli, che l’Italia diventasse un “Paese normale”. Quante volte avete sentito questa espressione? Il suo significato sottile non è mai stato oscuro e disegna un quadro fin troppo noto anche agli analisti più sprovveduti. In estrema sintesi, si pretendeva questo: la nascita di due grandi partiti speculari, uno conservatore e l’altro progressista, impegnati in una battaglia navale simulata su temi periferici, ma in realtà perfettamente concordi in quanto a strategie e riforme sostanziali. Dettate, of course, dal potere monopolare atlantico e da quello, più discreto, dei mercati sovranazionali. Un governo olografico, dunque, che facesse appassionare i cittadini ad una vuota ed inutile contesa, occultando il dettato di chi impartiva disposizioni da dietro il sipario del teatrino politico.
Qualche tentativo all’epoca fu fatto ma, è noto, l’“anomalia italiana” non ha mai cessato di deprimere ed irritare i progettisti del Terzo Millennio, costretti in breve tempo alla resa. Nulla da fare, non c’era modo né tempo per ricondurre il Belpaese all’archetipo britannico della mascherata bipolare perfettamente organizzata. Bisognava selezionare un cavallo solo, assicurarsene l’obbedienza e puntare su quello, rimandando al futuro progetti di più ampio respiro nella certezza che piroette e conversioni, negli anni a venire, non sarebbero mancate (giusto, Fini?). E, quindi, eccoci all’epilogo del thriller: su chi cadde la scelta del potere? La vita, si sa, è piena di sorprese. Sorprese che tuttavia riescono meglio se ci si è preparati negli anni con zelo e con cura. Magari schermati dal velo rosso, assolutorio e inattaccabile, della falce e del martello.

CONTINUA

L’Ilva, i mercati e il PIANO GLOBALE per l’Italia

ilvaUltimamente, le dichiarazioni sul caso Ilva si assomigliano un po’ tutte. Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: “Sulla base di quello che succederà si giocherà il futuro del manifatturiero pesante che connota l’Italia come paese industrializzato avanzato”. Claudio Gemme, presidente dell’ANIE: “La ricchezza e il benessere italiani si sono sempre basati sul manifatturiero. Tutti si impegnino per salvarlo”. Guglielmo Epifani, neosegretario del Pd: “Non c’è motivo per cui il nostro paese, che è ancora il secondo esportatore di manifatturiero, non debba difendere la sua siderurgia”.

In realtà, un motivo c’è e non è nemmeno così misterioso: la globalizzazione ha in serbo per l’Italia un destino diverso. Lo spiegarono benissimo i mondialisti Giuliano Amato e Carlo De Benedetti in un lungo scritto a quattro mani, comparso su “Repubblica” nel settembre del 2004, chiarendo quale sia la più grande possibilità strategica per l’Italia: “È la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per l´estetica e il design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura millenaria, il suo ambiente, la sua arte. In questo senso le grandi trasformazioni del mondo possono diventare una enorme chance per il nostro Paese”.

Proviamo a tradurre. Il mercato internazionale impone ai suoi attori di impegnarsi nei settori dove essi possiedono un “vantaggio competitivo”, cioè dove realizzano qualcosa che può essere prodotta solo lì o lì meglio che altrove. La logica del “tutti fanno tutto” è bandita. Ognuno fa il suo e, per il resto, si commercia in modo da integrare domanda e offerta, nella certezza che l’infinita intelligenza del mercato aggiusterà tutto: flussi, quantità, prezzi. Dunque, l’Italia farebbe bene a dismettere quel che resta del suo settore manifatturiero, eccellente ma costoso, e lasciare che esso emigri verso altri lidi dove si può fare lo stesso pagando gli operai un pugno di riso e lastricando le strade di morti per cancro senza che nessuno osi protestare (l’intelligenza del mercato…). Poco male, perché tanto noi abbiamo il “sole, mare e la buona cucina”, il rosso della Ferrari e di Valentino, il design e le gallerie. E se i francesi ci restituissero la Gioconda saremmo a posto per sempre. La Regione Puglia si è già portata avanti col lavoro, regalandoci uno videospot del tarantino con panorami caraibici e l’Ilva allegramente rimossa dalla cartolina. Ilva? Ma quale Ilva? Qui c’è il paradiso, venghino siori venghino.

Invece l’Ilva c’è ancora insieme a quel poco che resta delle Pmi e delle grandi imprese nazionali come la Finmeccanica, sopravvissute alla svendita privatizzatrice di Prodi&co e assediate dalla magistratura. Si dovrebbe ripartire da qui, ma il piano della globalizzazione – che non è per nulla una entità astratta ma un fenomeno “agito” e pianificato – è quello di un paese “leggero”, tutto basato sull’estetica e i servizi, e completamente dipendente dall’estero per ogni altra necessità. Un paese eternamente con il cappello in mano, terrorizzato da crisi economiche e diplomatiche, svuotato di ogni capacità autarchica di resistenza. Perché senza capi firmati si può vivere, senza acciaio o prodotti alimentari (compriamoli dall’estero, costano meno!), nella modernità, si muore. O, meglio, si diventa dipendenti da tutto e da tutti, in primis dalla globalizzazione stessa, che si è costretti a difendere perché altrimenti siamo spacciati: chi ci venderà ciò che un tempo facevamo da soli e adesso fanno – o dovrebbero fare – gli altri per noi?

Ed è ridicolo sentire parlare ora di nazionalizzazione, pianificazione, divieto di vendita dell’Ilva alla Cina da coloro che, fino a ieri, incensavano l’intelligenza del mercato globale e le virtù del nuovo corso. Questo è il mondo che avete voluto. Siatene fieri se ci riuscite.

*Pubblicato su barbadillo.it

ENRICO MATTEI, l’italiano che sfidò i giganti

Sovranità, interesse nazionale, autodeterminazione. Parole impronunciabili negli anni della Guerra Fredda e in quelli, contemporanei, del mondialismo. Ad esse Enrico Mattei ispirò la sua azione e pagò con la vita. Ancora oggi, forse più di prima, sembra imperativo silenziare il valore della sua opera.

Il 27 ottobre del 1962, esattamente cinquant’anni fa, il bireattore “Morane Saulnier 760” esplose nei cieli di Bescapè, in provincia di Pavia. Moriva così quella che il quotidiano “The Guardian” ha definito “una delle personalità più eccezionali del dopoguerra”: Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), colui che, in appena quindici anni, muovendo dalla guida di un’Agip in odor di liquidazione, aveva immaginato e strutturato una politica energetica  efficiente al punto da tramutare l’incerottata Italietta postbellica in una potenza di livello globale. Partigiano bianco, democristiano, ministro degli esteri “ombra”, finanziatore di giornali e servizi segreti, Mattei incarnò tutto questo ed anche altro. Ma, in primo luogo, fu “un uomo che aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo paese” come affermò l’arcinemico William Stott, vicepresidente esecutivo della americana Standard Oil Company. É questa la citazione che apre il volume Enrico Mattei (Il Mulino, pp. 183, euro 12) dello storico barese Nico Perrone, autore di numerose opere sull’industriale di Acqualagna. Il saggio, che ripercorre la vita e le gesta di Mattei, è un grido nel silenzio ovattato che sta accompagnando la ricorrenza: “Per molti anni – spiega Perrone – i meriti di Mattei furono negati, impedendo al valore della sua opera di ottenere il giusto riconoscimento. Dopodiché, si passò all’indifferenza: questo secondo passaggio non fu il frutto di un processo artificiale, ma semplicemente l’effetto di una impostazione sedimentatasi nel tempo e quindi facilmente incline a replicarsi spontaneamente”.

Professore, facciamo un passo indietro. Per molti anni la morte di Mattei fu ritenuta un incidente.
“All’inizio passò la tesi negazionista: ‘È stata una disgrazia’, si disse. Una della tante che si verificano in Italia. E, coerentemente, si registrarono delle reticenze nel corso della relativa inchiesta giudiziaria apparsa fin da subito claudicante e lacunosa. Chi aveva interesse ad occultare i fatti si adoperò molto. In particolare, si evitò di indagare lì dove serviva e cioè a proposito della presenza di esplosivo nel veivolo. L’esplosivo c’era, ma la verità emerse molti anni dopo su iniziativa del magistrato Vincenzo Calia che condusse una nuova indagine terminata nel 2003”

Cosa scoprì Calia?
“Calia arrivò ad una conclusione precisa e documentata: la carica, i cui resti erano ancora reperibili fra i relitti dell’aereo, fu attivata quando il pilota azionò il comando per la fuoriuscita del carrello. Non si trattò di un incidente. Purtroppo ignoriamo ancora chi siano i responsabili e, con tutta probabilità, non lo sapremo mai.”

Di ipotesi se ne sono formulate tante. Leonardo Sciascia avanzò il sospetto di un coinvolgimento della mafia nell’operazione, anche se la “mano” straniera rimane la principale indiziata. È possibile mettere un po’ d’ordine fra le molte supposizioni?
“La mafia non può considerarsi mandante, perché non aveva i mezzi tecnici per un attentato di quel genere che, allora, poteva essere gestito solo da un servizio segreto dotato di tecnologie avanzatissime. La ricerca, pressoché irrealizzabile, andrebbe svolta nell’ambito di quelle grandi potenze – Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Unione Sovietica – che disponevano di servizi dotati di strumenti di primo livello. Il collegamento, almeno temporale, con la crisi dei missili sovietici a Cuba non dev’essere trascurato, ma è indimostrato. In sintesi, la mafia potrebbe aver dato una mano sul posto, ma il mandante e i tecnici sono altrove”.

Pierpaolo Pasolini indagò a fondo sulla vicenda e, a detta di molti, si imbatté in un verità scomoda che gli costò la vita. Le storie dell’industriale e dello scrittore sono realmente legate a filo doppio?
“Questo è un crinale pericoloso. Mettere in connessione troppe cose induce a viaggiare con la mente anziché attenersi ai fatti che, in questi casi, sono la bussola di riferimento più preziosa. Si può prendere atto di alcune aderenze, ma è sempre necessario non lasciarsi deviare e, soprattutto, permettere agli strumenti giudiziari e storici di indagare senza intralci”.

Il silenzio che avvolge la morte di Mattei si estende anche il valore della sua opera. Perché?
“La lezione di Mattei ruota integralmente intorno ad una tensione oggi scomoda e cioè la ricostruzione del valore dell’interesse nazionale. Si tratta di un concetto abbastanza complesso che lega politica, economia e finanza. Alla fine della guerra esso era completamente smarrito, sepolto dal conflitto e dalla volontà di negare qualunque cosa fosse appartenuta all’impianto valoriale del fascismo. Mattei ridiede slancio a quell’impulso e l’Eni riuscì a diventare una della maggiori holding petrolifere del mondo in un frangente in cui il mercato era dominato dal cartello delle anglosassoni “Sette sorelle”, le indiscusse big del petrolio globale. E i benefici furono innumerevoli”.

Cosa resta di quella stagione?
“In Francia e in Germania si sono alternati governi dei più diversi colori, ma tutti hanno mantenuto fermo un punto preciso: la maggioranza delle imprese strategiche doveva rimanere saldamente nelle mani dello stato. In Italia, invece, nonostante l’esempio di Mattei, si è provveduto a smantellarle con la progressiva opera di privatizzazione selvaggia sviluppatasi, con la partecipazione attiva di Mario Draghi, sotto i governi Ciampi, Dini, Prodi e Amato. Si tratta di un processo, mai terminato, che obbedisce ad interessi stranieri e che, purtroppo, continua ancora. Oggi si desidera vendere le (poche) parti ancora pubbliche dell’Eni. In realtà, non cambia molto: quel simbolo è tramontato da tempo”.

*Intervista pubblicata su “La Gazzetta del Mezzogiorno”