Ha ragione Giulietto Chiesa quando tratteggia una equivalenza, a parti invertite, fra Ucraina 2014 e Cuba 1962. Due operazioni molto diverse, ancorate a contesti storici del tutto differenti, ma concertate al medesimo scopo: portare i missili a un tiro di schioppo dal nemico. L’obiettivo di chi ha tirato i fili della rivolta di piazza Maidan non è semplicemente quello di amputare un pezzo della sfera di influenza russa trascinandolo nell’alcova europea, ma di far entrare (almeno) la parte occidentale dell’Ucraina nella Nato, omaggiandola così di una serie di basi, armamenti e soldati che lì prenderanno dimora e non si muoveranno più. Per questo gli Stati Uniti hanno investito cinque miliardi di dollari (l’ha ammesso candidamente Victoria Nuland, quella del “Fuck Europe”) in un’operazione che, però, nonostante la fuga del “dittatore” Yanukovitch, in realtà regolarmente eletto, la liberazione della Tymoshenko e l’ascesa al potere dei suoi sodali, è tutt’altro che finita. La vera partita a scacchi inizia adesso.
L’Ucraina è un paese diviso in due: una parte russofona ed ortodossa ad Est, ed una occidentalista e legata, culturalmente e storicamente, alla Polonia ad Ovest. La mela con tutta probabilità si spaccherà in due. Putin conserverà la parte orientale, quella più industrializzata, garantendosi lo sbocco sul Mar Nero, la Crimea e un paese a conti fatti più controllabile, nonostante la presenza insidiosa di una notevole frangia nazional-religiosa comunque ostile a Mosca. Gli americani porranno le bandierine stars and stripes su quella occidentale, tentando di portare i missili sull’uscio dello Zar. E l’Europa rimarrà con il cerino in mano, costretta ad ingoiarsi la fetta della nazione più turbolenta, più popolosa e più povera, perché tale è l’Ucraina dell’Ovest che verrà strappata ai russi. Il Fondo Monetario ha già avvertito di avere in tasca una ricetta miracolosa per la ripresa economica, a patto che gli ucraini “facciano le riforme”. Cosa questo significhi, mezzo mondo l’ha imparato sulla propria pelle e ora lo imparerà anche il popolo di Maidan cioè i rivoltosi filo-occidentali che hanno scatenato la rivolta per giorni, sequestrato persone, dato fuoco ad esseri umani vivi, producendosi in una raccapricciante spirale di orrore sapientemente tacitata dai media occidentali. Dal punto di vista dell’UE non è un grande affare, ma non lo è nemmeno per le frange neonaziste rivoltose: dall’abbraccio potenziale di Putin a quello senza scampo della Troika passa un oceano di lacrime e sangue. Faber est suae quisque fortunae.
Piuttosto, bisogna rilevare, ancora una volta, l’immutabile refrain di questi ultimi anni: la Russia non sa far altro che difendersi. E questa volta non è detto nemmeno che ci riesca perché imporre agli americani di non piazzare basi Nato in Ucraina, il “Rubicone” della trattativa, sarà impresa ardua. Ma il dato resta. Dopo una quantità esponenziale di rivoluzioni colorate, di “primavere russe” agitate sotto il Cremlino, di guerre civili scatenate ad arte (Siria e Ucraina), di donne a seno nudo spedite quotidianamente a Mosca allo scopo di far indignare il mondo, non si capisce cos’altro debbano fare gli americani per convincere Putin che resistere non basta, che bisogna superare il confine della Federazione e portare l’offensiva in campo nemico. Non con le bombe, ovvio, ma con un’opera di propaganda più sottile. E più efficace. Perché – lo ripeteremo fino alla noia – i russi non aprono un network in ogni paese occidentale senza costringere l’europeo medio, ammesso che ne abbia voglia, a scandagliare la verità nei fondali della contro-informazione? Perché non dare una vagonata di rubli agli indipendentisti del Texas o al Tea Party, applicando il metodo-Usa della guerra sul campo nemico per interposta persona? Domande che non avranno mai risposta.
Molto giustamente, Noam Chomsky ha sostenuto che Kruscev piazzò i missili a Cuba nel 1962 per raddrizzare l’equilibrio globale e rispondere all’imperialismo senza freni che gli americani stavano scatenando. Come noto, in cambio del ritiro chiese la disinstallazione dei missili Usa in Italia e Turchia che, sei mesi dopo, furono rimossi. Chi abbia vinto quel braccio di ferro rimane un enigma interpretativo della storia. Secondo la vulgata, lo sconfitto sarebbe Kruscev, piegato dalla fermezza americana e sepolto dall’imbarazzo del Politburo. In realtà, anche se nessuno lo ricorda, nel campo avverso le valutazioni non furono meno tetre. Ecco ciò che disse il generale di aviazione Curtis LeMay al Presidente Kennedy: “È la più grande sconfitta della nostra storia”.
Cosa insegna l’aneddoto? Che ottenere vittorie notevoli di cui nessuno conosce i dettagli (Siria) o proiettare solo immagini olografiche (Sochi) per testimoniare la propria grandezza non basta. A volte bisogna proiettare anche la propria volontà di potenza. Qualcuno lo spieghi allo Zar. E pure ai cinesi, prima che si facciano completamente circondare dal Pivot to Asia di Obama.