LA TRANSILVANIA ASPETTA ROMA. COME TUTTA L’EUROPA

di Leonardo Petrocelli

Ci sono alcune categorie professionali cui – in sporadici casi – si finisce per conferire un’aura quasi filosofica, da profondi conoscitori di luoghi e animi umani. Sono i meccanici che “aggiustano” i clienti maldestri con la stessa perizia con cui trattano le macchine. I baristi, vittime designate, quasi hollywoodiane, degli sfoghi piagnucolosi di mariti traditi e manager naufragati in un bicchiere di whisky. E poi ci sono i tassisti, ob torto collo costretti a misurarsi con l’immondezzaio dell’umanità postmoderna che sale e scende dalle loro vetture, ma spesso generosi di racconti e riflessioni dispensati gratuitamente a beneficio degli sciatti avventori. E allora capita di incontrarne uno, uno dei migliori probabilmente, Valentin, nel luogo più impensabile: a Brașov in Romania. E di farsi scarrozzare da lui per quasi cinquecento chilometri in giro per una delle regioni più affascinanti d’Europa: la Transilvania.
All’inizio l’auspicio è che stia zitto un secondo, che la smetta di sciorinare parole nel suo inglese stentato. Fuori dal finestrino, infatti, si anima un mondo di leggende, castelli, foreste immacolate, nebbie sinistre e calessi che invadono le strade. Sì avete letto bene, calessi. Non è raro infatti che dei carretti guidati da cavalli irrompano sui sentieri di montagna (ma anche sulle statali) imponendo alle macchine di mettersi in coda, in una sorta di spaesamento da viaggio nel tempo fuori programma. A condurli sono i contadini della zona o, più spesso, i rom che, come la vulgata insegna, qui non mancano. Vivono in campagna, prevalentemente, sconfinando con le loro baracche nei campi di qualche povero vecchio e portando al pascolo i loro destrieri denutriti e macilenti. Naturalmente, abbondano anche nelle città e nei piccoli borghi. Qualcuno si sforza di lavorare, si arrangia vendendo le more sui sentieri battuti dai turisti, ma la maggior parte si trascina e mendica come da tradizione, esibendo bambini poi lasciati esausti sui marciapiedi delle strade per l’intera notte.
“I nostri governi, in passato – esordisce Valentin -, sono stati gentili con loro, accogliendoli e sopportandoli. Il risultato è che qui si sono accampati in massa, creando la comunità più numerosa del continente e ora tutta l’Europa pensa che i rom siano rumeni, anche in virtù di quella assonanza tra le parole. Che poi, rom non significa nulla, è un termine che serve solo ad alimentare gli equivoci. Qui li chiamiamo come abbiamo sempre fatto: gypsies o țsigani. E rimangono quelli di sempre, imprevedibili e spesso pericolosi”. L’aria che tira è chiara: i rumeni non amano gli zingari. E lo potete capire dai cartelli che fioccano in ogni dove, dalle stazioni alle fiere di paese:

SAMSUNG

SAMSUNG

Rincuora sapere che, da qualche parte in Europa, il buonismo boldriniano non è ancora dogma di Stato. E tuttavia, proprio in virtù di quanto letto e udito, è facile per un italiano incunearsi nella reprimenda e ricordare all’interlocutore le allegre scorribande peninsulari non solo dei rom, ma di tanti rumeni doc giunti nel Belpaese con intenti devastatori. La replica non si fa attendere: “I rumeni sono brava gente. Il peggio lo spediamo a voi, non c’è dubbio. Piuttosto, si sentono cose terribili sui migranti in Italia, su quell’isola…come si chiama? Lampedusa! Ecco, se dovessi venire al mare da voi, sapreste indicarmi un luogo senza migranti?”.
L’invasione migratoria lo colpisce moltissimo, quasi lo sconvolge. D’altronde, a voler nobilitare il discorso, la sua è una prospettiva squisitamente difensiva e la ragione non è un mistero: la Transilvania è una terra chiusa, cinta da montagne, abituata alla strenua difesa del territorio. Ma anche palcoscenico di un lungo scontro identitario. “I rapporti con l’Ungheria sono complicati – spiega improvvisamente – perché la Transilvania è una terra contesa”. Effettivamente, questa prospera regione, che un tempo appartenne all’Impero Austro-Ungarico, passò alla Romania solo nel 1920 grazie alle disposizioni post-belliche del Trattato del Trianon, spegnendo definitivamente le ambizioni della Grande Ungheria mutilata dalle “potenze plutocratiche”. Lo ricorda spesso, a mo’ di ritornello, il premier Victor Orban che da anni non smette di scaldare i cuori secessionisti della minoranza ungherese, rappresentata dalla battagliera Unione Democratica Magiara di Romania. La guerra interetnica fra le due popolazioni transilvane – con tanto di stragi e “marzo nero” – non è mai stata una scaramuccia da bar dello sport. Eppure, Valentin, rumeno e transilvano doc, per sua ammissione “di destra” e po’ nazionalista, non ha problemi a riconoscere il valore dell’avversario: “Non amo la propaganda di Orban – argomenta -. La Transilvania tutta appartiene alla Romania e qui deve rimanere. Ma una cosa mi piace di lui: sa dire di no agli americani”.
L’apparizione di un vampiro, a questo punto, susciterebbe meno stupore. In Italia – glorioso avamposto del pensiero unico in cui ogni giorno tutti sgomitano per segnalare la propria deferenza all’alleato-padrone – una simile riflessione non la sentireste né in un taxi né, figuriamoci, nell’aula di qualche prestigiosa università. Forse su internet, in qualche anfratto lontano dai bagliori del mainstream, ma niente di più. Qui, invece, è la prima cosa che il nostro chauffeur tira fuori dal cilindro: il no agli americani e al loro mondialismo devastatore. E allora sorge il sospetto che questa sia una specie di eredità degli anni di Ceaușescu e dell’esperienza comunista, una sorta di lascito involontario conficcato nelle menti di tutti. Ci arriviamo subito: “Il comunismo – riprende Valentin – ha fatto cose pessime. Ha spostato la gente in città per poterla controllare meglio (stipandola in orribili casermoni che oggi crollano a pezzi, ndr) e ha inserito i contadini rimasti in gigantesche imprese agricole collettivizzate, incapaci di reggere alla prova del mercato. Casa, lavoro, sicurezza: tutto era vincolato alla fedeltà al partito cui dovevi sottometterti necessariamente. In pratica, una mafia di Stato”. Fin qui storia nota, poi la sterzata. “Ma c’è una cosa in cui il comunismo era meglio del capitalismo. È difficile da spiegare…”. Il discorso, in effetti, si fa confuso. Una sola parola è ripetuta continuamente: soul, anima. “Il capitalismo ti corrompe l’anima – spiega, finalmente -. I rumeni prima non erano come sono oggi: arrivisti, votati al profitto, furbi, infidi, spregiudicati. Erano diversi, più poveri ma umanamente migliori”.
Lo sguardo di Valentin è troppo lucido per essere infarcito di propaganda vetero-sovietica. E le riflessioni fulminanti su Orban e gli americani o sul capitalismo che ti devasta l’anima sono troppo raffinate per derivare dalla televisione o dai quotidiani. C’è qualcosa di più e non è difficile spiegarlo: un popolo che ha vissuto per cinquant’anni sotto una dittatura, buona o brutta che sia, sviluppa fisiologicamente (e conserva per qualche tempo) uno sguardo più penetrante rispetto a chi, nel frattempo, si è cimentato solo con la ricette delle fettuccine o il calciomercato. Si confronta suo malgrado con grandi e piccoli eventi, s’ingegna, si sforza di capire, organizza una resistenza, mette a frutto la propria intelligenza per sopravvivere. Probabilmente è capace di combattere e, soprattutto, è disposto a farlo. Sa che la Storia non è finita e impara che ogni decisione, anche se presa lontano da casa (leggi Yalta), rischia di riguardarlo direttamente. Per cui rimane sveglio. E vivo. A differenza nostra che in settant’anni di democrazia ci siamo addormentati fino a scivolare nel coma. E da quando il collasso del capitalismo reale ci ha buttati tutti giù dal letto, eccoci incespicare con i muscoli atrofizzati e la mente annebbiata, incapaci di capire cosa mai sarà accaduto (sic) mentre russavamo beati, sognando donne, motori e coppe dei campioni. É il grande regalo della “pace”, della guerra lontano dall’Europa, del benessere prospero e narcotizzante che lentamente ha propiziato il “riflusso”, il riassorbimento nel privato o nell’edonismo sciocco delle tribù urbane. Data convenzionale del trapasso italico quel 13 settembre del 1978, giorno in cui il sobrio e governativo “Corriere della Sera” – nel clima ancora tetramente accademico e sociologizzante del tempo – pubblicò la lettera di un cinquantenne prossimo al suicidio perché innamorato di una donna troppo più giovane di lui, aprendo così le cateratte del Nulla Terminale, come da indicazione di tutte le precedenti “liberazioni”. Sessantotto in testa.
Per carità, dopo la fine del comunismo e l’inizio della “rivoluzione”, cioè il transito verso la democrazia, anche ai rumeni è toccata la medesima sorte. Oltretutto in un contesto di devastante spoliazione e di anarchia assoluta che ha sfregiato tutte le ex repubbliche dell’Est, a cominciare dalla Russia dell’era Eltsin. Erano gli anni della Transiberiana caldamente sconsigliata ai turisti e dei treni rumeni, ancora oggi di proverbiale lentezza, assaltati da banditi a cavallo. Ma, di fatto, la loro rincorsa è meno lunga della nostra e mostra i suoi effetti più deleteri solo nelle giovani generazioni. Gli uomini di mezza età, invece, ricordano. Anche fatti lontani. “Alla fine della Seconda Guerra Mondiale – spiega Valentin – il transito della Romania nell’orbita sovietica impose la fine della monarchia. Ma numerosi studenti scesero in piazza in difesa del Re Michele I e allora i comunisti posero un aut aut al sovrano: o lui o loro. O la sua abdicazione o la loro macellazione. E il Re scelse, naturalmente, di salvare i ragazzi. Si trattava di una monarchia senza grandi trascorsi ma seria, solida, amata, di cui si conserva un ricordo positivo. Ed oggi un quarto dei rumeni è dichiaratamente monarchico, nonostante la dinastia sia ormai giunta all’estinzione (il sovrano, ancora vivente, ha solo figlie e nessun erede maschio, ndr)”.
Inutile soffermarsi sullo scarto qualitativo fra generazioni, fra gli anni in cui si scendeva in piazza per il Re e quelli, a noi contemporanei, in cui ci si mobilita solo per i flash mob, il gender e la revolution di X-Factor. In Italia come, presumiamo, ormai anche in Romania. Sarebbe troppo facile organizzare il paragone. Ma la conclamata deriva vero la scimmiesca nullità dell’uomo-massa non è il solo tratto ad accomunarci. “Se penso al Re non posso non pensare anche al nostro Presidente della Repubblica, Klaus Werner Iohannis – riprende Valentin – . È un sassone, praticamente un tedesco. Tutto quello che la Merkel comanda, lui lo fa. Prendiamo ordini dai tedeschi e dagli americani. E le esigenze della Romania? Non interessano a nessuno. Qui non c’è più differenza fra destra e sinistra, sono indistinguibili. Noi li votiamo e loro si fanno i fatti propri, prendendosi un sacco di soldi sugli appalti pubblici e fregandosene del popolo. Persino la Chiesa Ortodossa è squallidamente corrotta. Io ho fatto il mio dovere di cittadino per anni, ma ora basta. Ho chiuso”.
E così, lamento dopo lamento, siamo arrivati al punto. A parte i riferimenti specifici a Iohannis e alla Chiesa Ortodossa il discorso qui riportato potrebbe essere tranquillamente pronunciato da un italiano. O da un francese o da un portoghese. È la denuncia di un malessere che abbraccia tutto il continente, da Lisbona a Sofia, e non è nemmeno sconosciuto in America, dove il Presidente è eletto solitamente con i voti di appena un quarto della popolazione. Che nome possiamo dargli? Scoramento, disillusione, abbandono? No, è la crisi terminale del Potere apparente, della democrazia portata in trionfo dal Progresso e dagli idoli di un “tempo nuovo” ormai smascherato nella sua più intima menzogna. Oltre la quale campeggiano impuniti i gargoyles della tecnocrazia e del dominio reale, per quanto vacillante, sull’esistente.
Si potrebbe presumere, a questo punto, che il nostro Valentin, uomo solido e addestrato alla pugna da tanti anni di regime e dal caos della democrazia, sia pronto ad imbracciare le armi e rovesciare il sistema in cui non crede più. E invece no. La sua soluzione è un’altra: “Mi piacerebbe vivere in assoluta autonomia – conclude non senza un velo di rabbia -. Comprare una casa in campagna, coltivare la terra e allevare animali, mangiare il cibo che produco e procurarmi l’energia necessaria attraverso i pannelli solari o altri sistemi. Voglio essere indipendente, completamente. E quando lo Stato verrà a bussare alla mia porta, gli dirò di rivolgersi al vicino. Perché io non ho più ho nulla da dire a questi signori”. Eccola qua, un’altra costante d’Europa: il sogno incapacitante dell’autarchia individuale, caldeggiata e foraggiata – anche tecnicamente – da buona parte del pensiero sociologico alternativo. Decrescita in testa. Ma, nella realtà, tutto questo si traduce in un romantico ammutinamento nell’ottusità della terra, in una rinuncia volontaria ad accedere al prezioso mondo delle possibilità. È la castrazione di quella che tradizionalmente si definisce “immaginazione divinizzante”, cioè la facoltà di dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili. Di certo, Valentin non immagina più nulla – se non un utopistico piano di fuga per sé stesso – ma, forse, da qualche parte nel profondo della coscienza, non ha rinunciato ad aspettare ancora qualcuno o qualcosa che si desti e faccia un passo, disegnando quell’orizzonte che lui non è più capace di rappresentare. Valentin non lo sa, ma aspetta Roma.

LA QUERCIA, LA PALMA E LA STEPPA

di Leonardo Petrocelli

L’episodio, ormai, è noto ai più. Il padano rinsavito Matteo Salvini ha incoronato governatore della Sicilia il musulmano Pietrangelo Buttafuoco. E tutti e due si sono beccati gli aspri rimbrotti dell’occidentalista Giorgia Meloni, quella che scambiò per simbolo dell’invasione islamica a Roma una indicazione in arabo per ricordare l’avvento dell’Expo di Milano (eh sì, troppa Fallaci fa male…).
Ora, la questione centrale, posta involontariamente dall’inedito battibecco dialettico, non è legata all’opportunità di candidare o meno il novello Giafar al-Siqilli che, oltretutto, ha già rifiutato. Di base non ci affascina particolarmente la suggestione, un po’ radical e un po’ mediatica, del poeta/letterato al potere (ci è bastato Vendola, grazie), ma nemmeno pronostichiamo un suo sicuro fallimento. Anzi, sono particolarmente gustosi i racconti che, in questi giorni, hanno popolato la rete con Giafar intento a rendere la Sicilia un prospero crocevia del Mediterraneo e la Meloni, schiumante rabbia, intruppata nell’inviperito fronte neocon. Tutto molto divertente, seppur un po’ troppo condiscendente verso il Pietrangelo insulare che, da brava icona delle giovani e devote penne della destra rampante, in queste occasioni passa all’incasso con grande facilità. Forse troppa. E tuttavia il punto non è questo.
A segnalarsi per la sua enormità è la confusione che ormai esplode quotidianamente sotto il cielo d’Italia, ma anche nel buio ideale del suo sottosuolo. Perché quella delle “radici” è diventata una lotteria a tema libero in cui ognuno proietta se stesso invadendo con la propria ombra da pigmeo l’enormità immateriale della Terra degli Avi. Tutto viene riscritto e riletto in modo da rendere ovvia, fisiologica, consequenziale e identitaria una scelta completamente individuale e avulsa dal contesto. Se una quercia vuol fingersi palma, chi può impedirglielo? Il problema è pretendere che tutto il bosco reputi la metamorfosi naturale solo perché un saraceno, mille anni fa, passò di lì. Proprio come la quercia dell’esempio, Buttafuoco non può fare a meno di convertirsi all’Islam senza però tirarsi dietro l’intera Sicilia e senza evocare la dominazione islamica dell’isola quale “esempio più alto di civiltà del Mediterraneo”.
State tranquilli, non ci attarderemo nell’apparecchiare una lezioncina di storia. Su internet, in questi giorni, ne sono fiorite a decine e tutte identiche. Ci ricordano che la Sicilia, italica e indoeuropea, fu dominata dagli arabi per appena due secoli e non senza spargimenti di sangue ed eroiche resistenze come quelle del Val di Noto e del Val Demone che caddero solo dopo quindici anni di straziante lotta. Poi, scaduto il loro tempo, gli invasori furono ricacciati in mare, lasciando dietro di sé una popolazione demograficamente irrilevante ed una eredità che, per incidenza e possibilità proiettive, in nulla ricorda, ad esempio, quella della Bosnia musulmana. Una parentesi, insomma, e di certo non la più alta nella composita storia del Mare nostrum.
Tutto questo, ne siamo convinti, lo sa benissimo anche Buttafuoco la cui conversione non ci scandalizza né ci indigna. Al contrario, in ossequio al quel vecchio adagio secondo cui un’azione imperfetta è preferibile ad uno sproloquio perfetto, chi prega cinque volte al giorno rivolto verso la Mecca è certamente degno di maggior considerazione rispetto a chi, impastato di letture esoteriche, tutto esaurisce nella dimensione libresca e ciarliera senza concedere nulla al culto o al rito. Ma, nonostante ciò, la questione resta. Due secoli di dominazione straniera su oltre tremila anni di storia non cristallizzano una identità né egemonizzano le radici dell’albero. Dirsi saraceni in quanto figli di Sicilia è un artificio giustificazionista destituito di ogni fondamento epperò indicativo di una tendenza che potrebbe affermarsi nel medio periodo. Il cortocircuito è politico, intellettuale e religioso e coinvolge tutti coloro che vorrebbero costruirsi una identità definita armonizzando ogni aspetto dell’esistenza. Il cammino che porta dalla lettura di Guenon alla conversione all’Islam, passando per le canzoni di Battiato e una comprensibile ammirazione verso l’Iran della Rivoluzione, è per alcuni vera tentazione. Così come lo è un’altra infatuazione che lentamente inizia a consolidarsi: quella per il Cristianesimo ortodosso. Questa volta si passa per il sovranismo di Putin, i libri di Dugin, le bandiere zariste, le gesta del comandante Strelkov e la frontiere dell’Eurasia. Nei tempi del deserto dell’Essere ogni goccia d’acqua è un’oasi da eleggere a dimora, nonostante essa incarni la fuga verso mondi altri cui si cerca di legare indissolubilmente il proprio per giustificare se stessi. Coprendo, con quello che passa il convento, il fuoco indoeuropeo e precristiano dei Padri.
D’altro canto, la novella che giunge dai cantori dell’Occidente politico non è meritevole di più alta considerazione: il “padanesimo” leghista rifluito nel culto incapacitante delle micropatrie o il nazionalismo ottocentesco e risorgimentale, riattualizzato da un lepenismo laico o blandamente cattolico, non sono che residui, rigurgiti o riedizioni di quel processo modernista e sovversivo che oscurò l’anima vivificante dell’Occidente. La potenza civilizzatrice di Roma innalzò un Ordine millenario nel disordine delle genti barbariche (altro che la Sicilia saracena…) e pose se stessa come riferimento senza tempo per ogni fioritura nell’Universale. E ora che il mondo della tecnica e del progresso degenera nel caos orgiastico della propria follia, è ancora a quel mito seminale che serve far ritorno per dissipare le ombre della dissoluzione.
Quindi, cari signori, voi tessitori di tappeti e incanti d’Oriente o isterici neocon arruolati nella caccia (americana) al moro, voi che cercate salvezza nei bonzi del Tibet o nei monaci barbuti delle steppe, siete tutti rimandati a settembre. Ci rivediamo a Delfi. Tema della prova di riparazione: “Conosci te stesso”. Apollo vi giudicherà.

IL TRAMONTO DEL SOL DELL’AVVENIRE

di Marcello D’Addabbo

“Compagni avanti verso nuove gloriose sconfitte” si ironizzava un tempo nelle file della sinistra comunista italiana, facendo emergere la consapevolezza di non essere ormai più in asse con la Storia. Che Guevara era morto da anni, il Vietnam si rivelò un glorioso ma isolato episodio, Mao tramava contro i sovietici giocando a ping-pong con Nixon e Kissinger e l’eurocomunismo di Berlinguer rivelava quale sarebbe stato il volto pragmatico di un partito deciso da tempo ad infilare lo svincolo per la superstrada americana. La sinistra di governo aveva ormai da tempo surclassato quella di lotta.
L’epilogo nostrano lo conosciamo già, appena il muro cade Occhetto e Napolitano volano a New York a stringere mani e a farsi perdonare il peccato di essere stati comunisti svendendo, negli anni ’90, l’Italia con le sue partecipazioni pubbliche al grande capitale privato. Ma quella è un’altra storia e l’abbiamo già raccontata. Ce n’è un’altra, invece, che parte proprio dove finisce la prima, al bivio della Bolognina dove si decide di restare in pochi con Cossutta, Garavini, Bertinotti e Ingrao come padre nobile, di continuare a leggere il Manifesto, indignarsi e lottare ancora con i lavoratori e la bandiera rossa. Che fine ha fatto la sinistra radicale, con le promesse e le speranze suscitate in lavoratori, operai e studenti riuniti in quella romantica riserva indiana che voleva cantare ancora l’Internazionale mentre fuori dal suo recinto l’unica internazionale veramente esistente, quella del potere finanziario, trasformava il mondo nell’attuale titanico Bankistan?
A partire dal primo grande trauma nel ’95, quando Rifondazione Comunista, dopo aver negato pubblicamente di voler votare la fiducia al Governo Dini, vede 14 suoi parlamentari rifiutare l’ordine di partito (Nichi Vendola, per la cronaca, optò per la fiducia votando anche successivamente la manovra finanziaria di Dini), con il solito successivo regolamento di conti interno tra correnti, scissione dell’atomo e immancabile formazione di altro soggetto politico (Movimento dei Comunisti Unitari che tre anni dopo salirà sul carro nei Democratici di Sinistra), la breve storia della sinistra radicale a cavallo tra i due secoli è in realtà un film di una noia mortale. Dal sostegno esterno al primo Governo Prodi dell’Ulivo alla caduta del medesimo, provocata da Bertinotti dopo una notte dei lunghi coltelli con la corrente filogovernativa di Cossutta che porterà alla scissione dei Comunisti italiani da Rifondazione. Fino alla deriva movimentista della battaglia per le 35 ore lavorative, e a quella no-global dopo i famosi scontri di Seattle nel ’99 in occasione della riunione del WTO, o alla più recente infatuazione per Alexis Tsipras, sfortunatissimo tentativo vendoliano di ritorno alla piazza puntando sul peggiore cavallo di una storia politica già di per sé non particolarmente brillante, per far dimenticare al popolo di Sel di aver flirtato per mesi con Matteo Renzi.
La sinistra radicale dalla sua nascita si comporta come un perpetuo pendolo tra potere e piazza, tra ministeri e auto blu da una parte e movimentismo sindacale, terzomondista o LGBT dall’altra, usato per recuperare la purezza ideologica perduta salendo sul carro vincente della sinistra governativa. Il circolo vizioso è di tipo psichiatrico: alleanza con i riformisti, salita a bordo del transatlantico di governo dove l’atavica fame arretrata di potere dei comunisti si placa per un istante, poi ripensamento, ritorno di memoria appena terminato l’effetto inebriante dello Champagne, rottura, polemica interna, scissione, medio tempore defezioni e promozioni nel campo nemico, infine nuove liste colorate di arcobaleni e ritorno alla piazza con conseguente perdita verticale di credibilità ad ogni giro di boa di questo tipo.
E non si tratta di un fenomeno solo italiano ma di tutto l’Occidente. In Germania la Die Linke di Oskar Lafontaine è accusata di aver indebolito la sinistra socialdemocratica tedesca sottraendole nel 2005 il 8,7% dei voti, con l’infamia di aver portato la Merkel per la prima volta al governo. È la stessa accusa che Paolo Mieli ha rivolto di recente a Landini, Cofferati e Civati per il loro modesto tentativo di creare qualcosa a sinistra di Renzi, “riporterete la destra al governo!”. Ovviamente se la Linke si fosse alleata con la SPD non avrebbe prodotto alcun cambiamento al governo essendo minoritaria e lo stesso Lafontaine sarebbe stato politicamente fatto fuori dai suoi sostenitori con l’accusa di essere un traditore. Una volta saliti al governo poi gli scogli sono sempre gli stessi, la legge finanziaria (oggi nella neolingua si chiama legge di stabilità), il rifinanziamento delle missioni militari atlantiche e le coppie di fatto mal viste dagli alleati democristiani della maggioranza. Eternamente intrappolati tra le accuse di irresponsabilità, di voler stare sempre all’opposizione senza mai provare a cambiare il paese con le riforme (e qui scappano le risate), a quella di tradimento delle radici rivoluzionarie marxiste-leniniste rivolte dalla base del partito.
Una vicenda che a vederla nel suo complesso ricorda un po’ quella delle tribù di Israele nell’Antico Testamento, altalenanti tra il rinnovo dell’antica Alleanza con Jahvè in una vita coerente con le sue eterne leggi e il tradimento delle medesime dovuto alla tentazione della corruzione che porta il popolo eletto a subire tremendi castighi prima di ritrovare la retta via della riconciliazione col dio. Se si sostituisce la coscienza religiosa con quella ideologica praticamente si ottiene per grandi linee la storia della sinistra radicale. Se il castigo biblico era una conseguenza della periodica perdita della fede nell’altissimo da parte dei giudei, nel caso dei post-comunisti il precipizio del tradimento ideologico nella seduzione del potere è una diretta conseguenza di una insicurezza ideologica. Costoro non sono più capaci di proporre modelli ideali e sociali e sanno perfettamente che il marxismo è valido solo nella sua “pars destruens” cioè nella critica scientifica alla società dominata dal grande capitale. È come se uno dicesse: “Sì, è vero, il capitalismo fa schifo e sta andando a rotoli come avevo previsto ma non so come sostituirlo”. Pertanto meglio abitare l’inabitabile scavandosi un comodo cantuccio critico dentro il sistema morente, attirando consensi finché dura ed esibendo una brillante quanto inconcludente critica intellettuale.
Da ciò il finto dissidio narcisistico che ha caratterizzato in Italia i vari Bertinotti, Ferrero, Casarini e Vendola ovvero se sia meglio interpretare la parte dei riformisti eccentrici o dei massimalisti pavidi. Paolo Ferrero ha condannato Rifondazione Comunista all’irrilevanza per la sua incapacità di prendere una posizione netta contro la moneta unica europea, nonostante il parere autorevole di quello che rimarrà alla storia come “il movimento degli economisti” alimentato soprattutto da professori universitari come Bagnai, Borghi, Rinaldi e Giacchè ma anche da personaggi più vicini alla stessa Rifondazione come l’economista Emiliano Brancaccio, ultimamente per nulla chiuso alla possibilità di una “svolta sovranista” pensata a sinistra in difesa dei lavoratori. Ma si tratta di lodevoli eccezioni, mosche bianche rarissime in un contesto in cui viene scambiata per avveduta ragionevolezza ogni pacato mantenimento dello status quo e conferma del potere sovrastante, cioè nel caso specifico quello delle banche e dell’eurocrazia che sta strozzando mezza Europa nell’attuale lager monetario. Alla fine quando ti capita di parlarci non sai mai se per uno di sinistra Ciampi, Amato, Draghi e Monti sono una banda di criminali oppure degli autorevoli e responsabili salvatori della patria, come ogni giorno viene scritto sulle colonne di Repubblica, opinione che sembra fare breccia sulle deboli menti, sensibili al politicamente corretto e al clima salottiero della gauche au caviar. Un interlocutore di destra non ha dubbi di solito: sono dei criminali comuni. Rozzo ma chiaro. Almeno sai dove ti trovi. Ma quando i tempi si fanno duri, i popoli vengono condotti alla miseria e si alzano le barricate non puoi permetterti incertezze come insegna l’epilogo del caso greco.
Varoufakis e Tsipras ci hanno mostrato esattamente lo stesso triste spettacolo offerto da Ferrero, con l’aggravante di essere maggioranza di governo, risultato che nessuno tsipriota italico avrebbe mai potuto agognare. Ma hanno perso tutto il capitale politico e di credibilità con la stessa rapidità con la quale lo avevano conquistato, perché in fondo, al di là degli slogan di piazza e del referendum sull’austerità, sono convinti che l’alternativa non ci sia, che “un altro mondo non è possibile”. E difatti non lo sarà, a meno che di questo attuale mondo in disfacimento non si contesti oltre al quadro anche la cornice, il muro sul quale il quadro è appeso, i pilastri che lo reggono, la casa tutta intera. Ma per loro non è possibile, una sorta di bullone d’arresto cerebrale impedisce loro di esercitare la critica e il dubbio oltre un certo segno, di provare l’ebbrezza di superare il limite di velocità imposto per legge scuotendo le fondamenta stesse della modernità che li ha partoriti, della rivoluzione parigina da cui vennero alla luce, della falsa idea di stato di diritto utile alla borghesia industriale che fa da presupposto a tutto il loro agire, del materialismo ideologico che costituisce l’orizzonte del loro pensare. In fondo la sinistra tornerà sempre nel grembo del potere economico che l’ha partorita, quello che credeva di contestare ma che immancabilmente, fatalmente la seduce. È per questo che il fallimento di Tsipras è qualcosa di più profondo del suo fallimento politico personale e prescinde quasi dalla sua stessa vicenda contingente in quanto vive nel campo degli archetipi. Per averne conferma basta ascoltare il tono dimesso della voce di Vendola al telefono con il braccio destro dei padroni dell’acciaieria Ilva che intendeva rassicurare, “dica a Riva che il presidente non si è defilato”. La stessa pavida sudditanza al potere del denaro mostrata dall’omologo ellenico a suggello del definitivo fallimento di ogni loro battaglia di identità e cultura politica. Tant’è che lo stesso Vendola finirà poi rinviato a giudizio per le pressioni esercitate sulle autorità di controllo ambientali al fine di minimizzare l’impatto del veleni della fabbrica sulla popolazione di Taranto. I tarantini come i greci, vittime di questi finti rivoluzionari da operetta, assistono al definitivo epilogo della sinistra radicale.
Un crepuscolo annunciato del pensiero di Varoufakis in ordine alla necessità che le sinistre facciano da stampella al capitalismo terminale nel terrore che il crollo di quest’ultimo possa dare spazio ad una vera alternativa, cioè quella costituita dai movimenti populisti che in Ungheria, Polonia e Francia stanno conquistando lentamente e inesorabilmente l’egemonia della contestazione e la funzione di efficace nonché unica arma di autodifesa del popolo contro la violenza del totalitarismo finanziario. Quel totalitarismo dal quale la sinistra radicale, per statuto, avrebbe dovuto difendere i lavoratori e in pasto al quale, al contrario, li ha ignobilmente gettati. Forse è giunto il momento storico per capire una volta per tutte chi sono i nostri amici e quali i collaborazionisti travestiti da contestatori. La Grecia rappresenta uno spartiacque ideale. In attesa che la volontà degli uomini faccia sorgere l’alba di una nuova epoca, godiamoci il definitivo tramonto del sol dell’avvenire.