GOVERNO LETTA, il 2.0 dei soliti noti

INSEDIAMENTO DEL CAPO DEL GOVERNO ENRICO LETTA A PALAZZO CHIGI E PASSAGGIO DELLE CONSEGNE CON IL PRESIDENTE USCENTE MARIO MONTIRicordate il bigliettino che il neopremier Enrico Letta passò a Monti nei primi giorni del suo insediamento? Allora i miracoli esistono! Mario, quando vuoi dimmi in che modi e forme posso esserti utile dall’esterno”. Destò grande stupore, almeno nelle menti di chi ritene che i politici, come i bambini nelle favole della nonna, li depositi dal nulla la cicogna. O crescano nell’orto spontaneamente. Senza background, senza passato, senza frequentazioni e senza relazioni.

E allora tanto vale dare un’occhiata ai trascorsi di Letta, allievo – udite, udite – di Beniamino Andretta cioè il ministro del Tesoro che nel 1981 decretò il divorzio tra il Tesoro stesso e la Banca d’Italia.

Piccola parentesi economica: fino ad allora la BdI aveva svolto il ruolo di prestatore di ultima istanza sui titoli di stato, messi all’asta ad un tasso stabilito. Se nessuno li comprava ci pensava la cassaforte nazionale. Con il divorzio, invece, l’Italia è stata costretta a ingolosire i mercati allettandoli con tassi sempre più alti. Comprate i nostri titoli all’1%? No.Allora facciamo1,5%? Il 2%? Il 2,5%? Il 3%, perfavore! Ci siamo messi nella mani dei “finanziatori” ed è stato l’inizio della fine, lo start dell’impennata del rapporto debito/Pil che nel 1981, data del divorzio, era al 60%, cioè perfino nei limiti folli di Maastricht, e nel 1990 arrivava già al 100%. Con buona pace del pensiero maggioritario, è questa la causa del galoppare del debito, non l’evasione fiscale, la spesa pubblica improduttiva, gli stipendi della casta, la corruzione e compagnia cantando.

L’indipendenza della Banca d’Italia dallo Stato Italiano è l’incipit del collasso. Solo un antipasto, si badi, in attesa dello smantellamento definitivo della nostra sovranità con le privatizzazioni selvagge ed il festante ingresso nell’euro. Lo spiega benissimo l’economista (di sinistra) Alberto Bagnai nel suo libro Il tramonto dell’euro (Imprimatur, 2012) con 414 pagine piene zeppe di grafici, formule, tabelle, ragionamenti tecnici. Studiare per credere. Noioso, vero? Meglio dieci minuti di Travaglio su YouTube, un editoriale di Mauro, un tweet di Grillo o un ragionamento soporifero di Rodotà.

Ma nessuno di questi soloni punterà il dito sull’ideologia monetarista e mondialista che è radice dei mali attuali. E, men che meno, comporrà la lista dei celebrati “eroi nazionali” che ne sono stati e ne sono alfieri. Ultimamente ne abbiamo conosciuto uno, per esperienza diretta, cioè Mario Monti. Ora è in arrivo l’altro, più giovane ed empatico, Letta, allievo di Andreatta. Ma vengono tutti dal medesimo serbatoio (frequentano il Bilderberg, come la Bonino d’altronde) e infatti si conoscono, si stimano, si passano i bigliettini. Sono una diarrea politica, direbbe Grillo, scioltasi a tempo debito per infettare tutti i partiti: te li ritrovi a destra, al centro e, soprattutto, a sinistra.

Dunque, alla fine, il (secondo) governissimo del Presidente – sempre ligio nell’affidare il potere a personaggi ben scelti – non è un inciucio, una ammucchiata, un compromesso storico. È semplicemente la reiterazione del cammino degli Andretta, dei Prodi, dei Ciampi, dei Draghi, degli Amato. E prima ancora dei La Malfa e dei Maccanico. La minoranza che egemonizza la maggioranza per conto terzi e reitera la follia. Ancora.

*Pubblicato su barbadillo.it

LA DECRESCITA INFELICE di Grillo&Co.

grilloLa “scommessa della decrescita” aveva fatto timida irruzione nell’arena della politica italiana, per la prima volta, durante la campagna elettorale del 2006. Un’apparizione marginale, affidata alle esternazioni di pochi e sicuramente non paragonabile al recente clamore suscitato, nel merito, dalle esternazioni di Beppe Grillo. Spalancate le porte della polemica, sulla decrescita si sono espressi in tanti, spesso a sproposito, rappresentandola alternativamente come una feconda suggestione o uno spauracchio sovversivo.

Per orientarsi lontano dalle avvelenate contingenze, la strategia più saggia rimane probabilmente quella di affidarsi ai ragionamenti del “padre nobile” della decrescita: Serge Latouche – professore emerito di Scienze economiche all’Univerisità di Paris-Sud e specialista dei rapporti Nord-Sud – cui va riconosciuto l’indubbio merito di aver sistematizzato e divulgato un corpus di idee con radici antiche, salde nella sociologia di Emile Durkheim e Marcell Mauss, nell’antropologia di Karl Polanyi e Marshall Sahalins, nella filosofia di Cornelius Castoriadis e Ivan Illich. La ricorsa, insomma, è lunga se è vero che anche i luddisti, gli anarchici situazionisti, i conservatori alle De Maistre e i primi socialisti, intrisi di utopia, trovano spesso cittadinanza nel ricco pantheon della decrescita. Il cui cammino ha beneficiato, più recentemente, dell’apporto del parigino M.a.u.s.s.. (Movimento Anti Utilitarista delle Scienze Sociali) e delle numerose istanze partorite da un ampio dibattito internazionale cui, dalla Puglia, hanno contribuito, fra gli altri, i sociologi baresi Franco Cassano, Franca Papa e Onofrio Romano. Non trascurabile è stato anche il contributo fornito dal pensiero antimoderno che, da Alain de Benoist a Massimo Fini, ha stimolato il confronto da destra.

Evasa così dall’esilio della marginalità, la decrescita ha ispirato nel tempo la nascita di associazioni, comunità e gruppi come il Movimento per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante, per un breve tratto compagno di strada di Grillo. E in Francia, è addirittura sorto un piccolo partito, il Parti pour la Décroissance, inchiodato però all’1% di preferenze.

Al di là delle fortune dei diversi contenitori il punto più rilevante e delicato rimane comunque quello legato ai contenuti: “La decrescita – scrive Latouche nel suo Breve Trattato sulla Decrescita Serena (Bollati Boringhieri, 2008) – è uno slogan politico con implicazioni teoriche, un parola bomba che vuole fare esplodere l’ipocrisia dei drogati del produttivismo”. Si tratta, semplificando, di una “inversione di paradigma” che boccia l’idea della crescita economica infinita in un pianeta finito e promuove un diverso approccio alla gestione dell’esistente. Nel mirino dei “decrescenti” finisce un po’ di tutto: i ritmi frenetici della vita moderna, l’ossessione per il consumo, lo sviluppo tecnologico senza freni, la rimozione delle identità, l’accettazione acritica del mito del lavoro. A palle incatenate si spara anche contro lo Sviluppo Sostenibile, bollato come un “ossimoro” concepito per migliorare i meccanismi esistenti allo scopo di garantirne una sostanziale sopravvivenza. Di contro, viene definito uno schema per il cambiamento in otto punti, il circolo delle otto “R” della decrescita, da cui far germogliare un vero e proprio programma elettorale al di là della categorie di destra e sinistra (ne riferiamo di seguito).

Ma il programma non piace, di fatto, quasi a nessuno: né alla maggioranza delle categorie produttive, impaurite dal cambiamento strutturale, né alla sinistra post-marxista, impegnata in battaglie di conservazione, né alla destra liberista. Ed anche chi afferma di farlo proprio, come Grillo, è costretto ad andar cauto: cosa potrebbero mai pensare i tanti imprenditori veneti, elettori del M5S, di un contenimento “ideologico” di produzione e consumi? E gli attivisti, saprebbero digerire le provocazioni di Latouche sul “diritto a non possedere un computer”?

C’è poi un altro problema, più spinoso dei precedenti: “Nel migliore dei casi – spiega il pensatore francese – i governi possono soltanto rallentare i processi che non controllano. Esiste una cosmocrazia mondiale che svuota la politica della sua sostanza e impone le sue volontà attraverso la dittatura dei mercati finanziari. Che lo vogliano o no tutti i governi sono dei funzionari del capitale”. A dispetto della vulgata, la vera impresa non risiede tanto nel modificare la condotta del singolo suggerendogli di preferire la bicicletta all’automobile, quanto piuttosto nel riacquistare la sovranità perduta ed innescare una gigantesca trasformazione che odora tanto di rivoluzione.

Il nodo è tutto qui: a patto di volerla affrontare seriamente, la sfida è titanica. E rimane il sospetto che gli eventuali movimenti politici interessati alla decrescita, come il 5 Stelle, preferiscano – per esigenze di voto – offrirne una versione depotenziata, annacquata e destinata a convivere pacificamente con parte degli schemi, economici e culturali, esistenti. Finendo, così, per farla assomigliare al tanto deprecato sviluppo sostenibile. “D’altronde – ha ripetuto spesso Latouche – se il movimento della decrescita riuscisse a raggiungere i vertici e si dichiarasse seriamente intenzionato a combattere un certo tipo di battaglie, il suo leader sarebbe immediatamente assassinato. Non ho alcun dubbio”.

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LE 8 “R”. Programmi e carte d’intenti fondati sulla “scommessa della decrescita” sviluppano, nella maggior parte dei casi, uno scheletro di indicazioni sistematizzato da Latouche in otto punti – le otto “R” – che, di seguito, elenchiamo. Condizione per l’effettiva applicazione di ognuno di essi è il poter disporre, da parte della comunità nazionale o locale, di autonomia di scelta in materia economica ed energetica. Nella gestione politica, l’accento cade invece sui meccanismi della democrazia diretta.

Rivalutare. Dismettere le antiche virtù borghesi e promuovere di un nuovo sistema di valori antieconomici. “Il locale dovrebbe prevalere sul globale, la collaborazione sulla competizione, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro”.

Riconcettualizzare. Assumere una diversa prospettiva su concetti ritenuti acquisiti come quelli di abbondanza, rarità, ricchezza e povertà. Da valutare, qui, non in base agli standard della società dei consumi ma alla luce di un ritrovato equilibrio.

Ristrutturare. Orientare i meccanismi materiali in base alla nuova rivoluzione dei valori con particolare riferimento ai rapporti sociali e all’apparato produttivo.

Ridistribuire. Secondo la definizione di Latouche “organizzare la ripartizione delle ricchezze e dell’accesso al patrimonio naturale tanto fra il Nord e il Sud quanto all’interno di ciascuna società, tra le classi e gli individui”. Lo scopo è quello di diminuire il potere di consumo.

Rilocalizzare. Produrre in massima parte localmente i beni destinati ai bisogni della popolazione, attraverso l’opera di imprese del luogo sostenute dal risparmio della comunità.

Ridurre. Limitare il sovraconsumo e lo sfruttamento delle risorse, riducendo l’impatto sulla biosfera. È ritenuta indispensabile anche la disintossicazione dalla dipendenza da lavoro.

Riutilizzare/ Ricilare. Le ultime due R sono abbinabili. Entrambe si riferiscono alla necessità di combattere l’obsolescenza programmata delle attrezzature e dei materiali per disinnescare l’ansia da iperproduzione.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

ENZENSBERGER, il poeta contro l’UE

enzensberger-hans-magnusParte lentamente, con abbondanti dosi di scioltezza e ironia, poi improvvisamente accelera e le stoccate di fiorino si trasformano in palle di cannone, sparate al cuore dell’Unione Europea. Esibisce un interessante doppio registro l’ultimo saggio di Hans Magnus Enzensberger, il maggior poeta tedesco vivente, dedicato al tentacolare governo continentale, Il mostro buono di Bruxelles (Einaudi, pp. 98, euro 10). Non si tratta, ed è bene chiarirlo in premessa, di un libro inoffensivo. Al contrario, potrebbe rivelarsi letale per il fortino del pensiero dominante anche perché questa volta risulterà difficile liquidare le accuse prodotte appiccicando sul petto dell’autore le solite, mortifere etichette di “populista” o“demagogo” in quanto Enzensberger è, come universalmente noto, uno degli intellettuali più spiccatamente europeisti in circolazione. E la sua invettiva, quindi, si nutre di constatazioni e non di pregiudizi.

L’inizio è soft, ma già trasuda veleno quel capitolo introduttivo dedicato a quanto di buono ha finora prodotto l’unione continentale. Cinque paginette scarse per ricordare l’acquisita facilità di circolazione, le norme antifumo, le disposizioni in materia di tariffe telefoniche, i finanziamenti all’agricoltura e alle regioni più disagiate. Anche volendosi sforzare, non c’è nient’altro. Archiviata la scarna parentesi con quel sarcasmo esibito fin dai tempi di Classe media blues, Enzensberger passa all’offensiva puntando l’indice contro l’oscurità dei trattati, la complessità del quadro istituzionale, gli agi e privilegi di cui godono i burocrati non eletti (cosa che indigna notevolmente i media europei, molto meno quelli italiani impegnati con ben altri problemi di casta). Inoltre, l’Unione pare non sapere resistere alla tentazione di mettere bocca su tutto con proverbiale pedanteria: dalla curvatura dei cetrioli alla lunghezza minima dei preservativi ogni cosa è perimetrata al dettaglio, tranne la cultura, “difficilmente omologabile”, per la quale Bruxelles spende tre volte meno della sola municipalità di Monaco di Baviera.

Ma la pungente descrizione di tanta invasività è solo l’anticamera della svolta. Il libro cambia infatti improvvisamente passo pescando dal cilindro europeo il ritratto di una figura chiave nella costruzione dell’Unione: il francese Jean Monnet, glorificato “padre” dell’Europa odierna e primo presidente della Comunità del carbone e dell’acciaio. Di lui, per Enzensberger, sono chiare due cose: amava muoversi “nell’ombra” e, soprattutto, “non attribuiva alcun valore alle consultazioni popolari e ai referendum” e “neppure alla garbata invenzione della sovranità popolare”. Sintetizzando, secondo il Monnet-pensiero, l’Unione avrebbe dovuto realizzarsi attraverso decisioni prese dietro le quinte da ignoti burocrati sulla pelle di cittadini costretti al silenzio.

Dalla teoria alla pratica il passaggio è stato brevissimo ed ecco spiegato, nelle sue inconfessabili radici ideologiche, il cronico deficit democratico che affligge il continente. Una pillola amara, indorata da un paternalismo che Enzensberger sintetizza brutalmente, riportando l’orientamento dell’Unione: “La gente ignorante non sa quale sia la cosa migliore per lei. Per questo si fa bene a non consultarla neppure”.

L’eurocrazia invece non ha dubbi di sorta e, dunque, assume come propria missione storica il diritto “spietatamente umanitario” di orientare i destini collettivi, costruendo non tanto una prigione, quanto piuttosto “un riformatorio che provveda al rigoroso controllo dei suoi protetti”. Si dispiega così, e in tutta la sua brutalità, l’azione del “mostro buono” che regala attualità alle preoccupate parole di Hannah Arendt a proposito del “dominio esercitato non dalle persone o dalle leggi, bensì da anonimi uffici o computer, la cui superpotenza del tutto spersonalizzata può minacciare, più del vergognoso arbitrio delle dittature del passato, la libertà e quel minimo di civiltà senza il quale è impossibile immaginare una vita collettiva”.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”