CANFORA: “La sinistra mentì, indicando nell’Europa la terra promessa”

Da Renzi a Vendola, nessuno, a sinistra, sembra aver voglia di mettere sotto accusa l’oscena Europa dell’euro e delle burocrazie non elette. Per contiguità, per ignoranza, per codardia. Tale forma di omologazione (e/ o servilismo) ha radici lontanissime ed ormai talmente salde da suggerire che mai, in futuro, istanze reali di rottura potranno giungere da quella famiglia politica che, un tempo, invocava l’uscita dell’Italia dalla Nato. Le riflessioni di Luciano Canfora nell’intervista che segue sono, dunque, una lucida analisi senza diritto di cittadinanza (a sinistra).

“Chi ci ridusse a tale?” domanda, leopardianamente, il filologo barese Luciano Canfora nella Premessa al suo ultimo volume É l’Europa che ce lo chiede! Falso! (Laterza, pp. 78, euro 9). Il riferimento è ad un passaggio storico di cui tutti siamo stati testimoni e di cui tutti dovremmo essere consapevoli: quello che ha progressivamente svuotato di senso e significato la rappresentanza parlamentare per dirottare il vero potere altrove, nei luoghi ove gli occhi del popolo, considerato ormai “un peso”, non si posano e le sue azioni non possono incidere. “Si tratta di un grande problema storico – riflette Canfora -. É più che mai importante che i parlamentari abbiano un reale potere decisionale per contenere il capitalismo selvaggio. Il sociologo americano Robert Dahl sosteneva che ‘la democrazia si ferma ai cancelli delle fabbriche’. Vero. Le fabbriche, come molti altri luoghi, sono attraversate da una forte tendenza antidemocratica. Per questo il ruolo della rappresentanza è essenziale nella sua funzione di contrasto. Da decenni, purtroppo, i parlamenti non sono più sovrani”.

E dunque, professor Canfora, dove è finito il potere?

“Il potere è custodito nei luoghi tecnici: la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. La cosiddetta ‘Trimurti’. E noi non dobbiamo far altro che eseguire gli ordini che giungono da lì. Monti, appena salito al potere, ha incassato la fiducia del parlamento sotto ricatto, ha varato le sue riforme e, attraverso il Fiscal Compact, ha preso un impegno sul bilancio per i prossimi vent’anni. Non venti mesi, vent’anni! E poi c’è la cosa più grave: è riuscito ad infilare nella Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio. È una gabbia d’acciaio, il segno della subalternità definitiva”.

Eppure i tecnici sembrano godere di unanime favore…

“L’osservazione più ricorrente è questa: i tecnici sono gli unici davvero competenti e quindi lasciamo fare a loro. Benissimo, ma allora dobbiamo prendere atto del definitivo accantonamento della rappresentanza parlamentare in favore della corte tecnocratica che, ovviamente, non agisce in modo neutrale. Tutto muove dalle pulsioni dei mercati e dall’azione dei capitali finanziari: mi sembra che le élites tecnico-finanziarie siano parte in causa in modo fin troppo evidente”.

Nel libro non mancano pesanti affondi alla sinistra. Qual è stato e qual è il suo ruolo in questo processo?

“La sinistra ha smantellato nel tempo tutti i suoi punti di riferimento: Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao. Era rimasto il solo Norberto Bobbio ad illustrare la differenza strutturale con la destra. È stato fatto fuori anche lui e ciò che sopravvive è la sola ‘ideologia dell’Europa’ ove proprio la sinistra ci ha trascinati indicandola come una terra promessa e mentendo su tutta la linea. Avendo perso del tutto la bussola, questi signori fanno ormai da gendarmi ad una baracca i cui interessi sono in netto conflitto con quelli della classe popolare che la sinistra dovrebbe rappresentare e difendere”

Lei propone l’uscita dall’euro come soluzione…

“Da tempo la Germania si sta attrezzando per uno scenario dove l’euro non c’è, preoccupata dall’operazione salva-stati, quella che incatena coloro che vorrebbero andar via e che rischia di costarle troppo. Il crollo della moneta unica non è un’ipotesi fantasiosa. Se la Grecia alla fine si deciderà a dire ‘basta’ tutto si smantellerà con un effetto a domino. È lì che si gioca la partita decisiva: curiosamente, la Grecia sta ritornando ad essere, dopo secoli, il centro della politica europea. Tuttavia, ci sarebbe un’altra via di uscita”.

Quale?

“L’Italia dovrebbe prendere l’iniziativa e porsi alla testa di tutti i paesi latini al fine di rinegoziare i parametri di Maastricht. Portandosi dietro metà delle nazioni dell’UE, l’impresa potrebbe riuscire. Ma la sinistra si rifiuta di far propria questa scelta e il nostro è un paese sempre più fragile”.

Anche le cosiddette primavere arabe hanno contribuito ad indebolirlo?

“É una vicenda che in pochi hanno capito. Si tratta di una operazione che ha permesso a Usa e Francia di rimettere piede, alla grande, nel mondo arabo e magrebino ed ha tolto all’Italia quegli interlocutori mediterranei che costituivano uno sbocco economico e una forza contrattuale. Abbiamo inneggiato alla morte di Gheddafi, personaggio di certo sgradevolissimo, ma ora le cose vanno ancora peggio per tutti. Anche in riferimento alla questione siriana si può parlare di travisamento dei fatti: il popolo non fugge soltanto dal regime ma anche dagli stessi ribelli”.

A fronte di tutto questo, quanta credibilità possiede ancora la favola dell’ “eternità” del capitalismo?

“Ormai non ci crede più nessuno. Dopo il crollo del socialismo reale questo mito aveva ripreso temporaneamente fiato, ma gli anni di crisi che stiamo vivendo contribuiscono a demolire definitivamente ciò che resta di tale dissennato idòlum. La Storia non finisce, ma non è sempre una marcia in avanti. Può procedere in peggio. L’importante è, quindi, comprendere i cambiamenti che si profilano all’orizzonte ed attrezzarsi per trovare quegli antidoti che, tutt’ora, mancano”

* Intervista pubblicata su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

ADDIO A PINO RAUTI, l’uomo della Fiamma

Nel corso di una cena post-congressuale, divagando sulla guerra civile spagnola e sul massicccio intervento italiano nella stessa, Rauti mi disse: “Ricordati che la storia si fa solo con i ‘se’. Domandati sempre cosa sarebbe successo se un certo evento si fosse o, al contrario, non si fosse verificato”. Appresa la notizia della sua morte, mi sono interrogato utilizzando precisamente questo modus. E ho capito, una volta di più, di essergli debitore.

La volontaria adesione alla Repubblica Sociale e un compleanno, il diciannovesimo, festeggiato fra le mura di un campo di detenzione francese ad Algeri. È iniziata così la lunga marcia di Pino Rauti, leader e riferimento della destra radicale italiana, scomparso venerdì sulla soglia degli 86 anni nella sua abitazione romana, dove da tempo si appartava ammalato. Tra l’incipit e l’epilogo riposa una storia, personale e collettiva, troppo complessa per essere sintetizzata con dovizia di particolari: gli anni del reducismo, la fondazione del Movimento Sociale Italiano, l’attività di saggista e giornalista, l’incontro con Julius Evola (che Rauti contribuì a dissotterrare dalle macerie della guerra) e l’apertura dell’orizzonte tradizionale, la fondazione di Ordine Nuovo, il rientro nella “casa del padre”, i vent’anni da parlamentare, lo sfondamento a sinistra e il gramscismo di destra, l’infelice segreteria del 1990/91, il rifiuto della svolta di Fiuggi, il mandato da europarlamentare, la nascita della Fiamma Tricolore e del successivo Movimento Idea Sociale.

Una epopea non priva di nere ombre, evidenti contraddizioni, errori marchiani, ma sempre sostenuta dalla presenza di un’anima, di un orizzonte di senso, di una visione fosse essa spiritualista, come impropriamente si disse, e cioè legata ai principi eterni della Tradizione o piuttosto “di sinistra” e cioè sensibile alle istanze sociali ed aperta alle suggestioni ecologiste, anticapitaliste e terzomondiste. Ma in ogni caso rivoluzionaria e, fin da subito, destinata a superare gli angusti limiti del fascismo muovendo in avanti e non rimangiandosi a bocconi la storia (e le storie) con una fame commisurata al bisogno tattico. In questi passaggi e da queste premesse si consumò l’insanabile frattura con le istanze carrieriste della destra in doppio petto, nostalgista e coccardiera, con il trittico “Dio-Patria-Famiglia” appuntato sulla giacca, quella che si dannava, con alchimie e alambicchi di ogni tipo, per entrare nelle stanze del potere nonostante gli insulti ed i “niet” che le piovevano addosso dagli anelati scranni. Celando peraltro in sé i germi del successivo disastro, dell’osceno naufragio pilotato dal “futurista” Gianfranco Fini, accolto, ai funerali dell’antico rivale, con fischi, sputi, insulti ed uno schiaffo, questo sì futurista, andato a segno.

All’opera meticolosa del desertificatore, Rauti oppose la costruzione di una casa traballante, priva di velleità di vittoria e afflitta fin da subito dalla irresistibile tentazione di verificare fino a che punto possa essere scisso un atomo, ma nella quale una nuova generazione è riuscita a trovar rifugio mentre, dall’altra parte, i Fiorito iniziavano la loro bulimica ascesa. Sotto il tetto della Fiamma continuavano a consumarsi ragionamenti, storie e sfide che altrove erano sacrificate sull’altare del Nulla o sopravvivevano, appena sussurrate, nelle periferie del berlusconismo. Quell’esperienza si chiuse presto, poiché la sconfitta le apparteneva a livello quasi epidermico, ma ognuno ne aveva ricavato un indirizzo di orientamento, così come era già accaduto ai rautiani della prima e della seconda ora. Perdersi o avanzare dipendeva, a quel punto, dal singolo ma l’iniziale tratto di strada, così come la mano di colui che lo aveva tracciato, è stato decisivo per tanti. Chi vi scrive è fra questi.

Addio Segretario e grazie.

*Pubblicato su barbadillo.it

ENRICO MATTEI, l’italiano che sfidò i giganti

Sovranità, interesse nazionale, autodeterminazione. Parole impronunciabili negli anni della Guerra Fredda e in quelli, contemporanei, del mondialismo. Ad esse Enrico Mattei ispirò la sua azione e pagò con la vita. Ancora oggi, forse più di prima, sembra imperativo silenziare il valore della sua opera.

Il 27 ottobre del 1962, esattamente cinquant’anni fa, il bireattore “Morane Saulnier 760” esplose nei cieli di Bescapè, in provincia di Pavia. Moriva così quella che il quotidiano “The Guardian” ha definito “una delle personalità più eccezionali del dopoguerra”: Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), colui che, in appena quindici anni, muovendo dalla guida di un’Agip in odor di liquidazione, aveva immaginato e strutturato una politica energetica  efficiente al punto da tramutare l’incerottata Italietta postbellica in una potenza di livello globale. Partigiano bianco, democristiano, ministro degli esteri “ombra”, finanziatore di giornali e servizi segreti, Mattei incarnò tutto questo ed anche altro. Ma, in primo luogo, fu “un uomo che aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo paese” come affermò l’arcinemico William Stott, vicepresidente esecutivo della americana Standard Oil Company. É questa la citazione che apre il volume Enrico Mattei (Il Mulino, pp. 183, euro 12) dello storico barese Nico Perrone, autore di numerose opere sull’industriale di Acqualagna. Il saggio, che ripercorre la vita e le gesta di Mattei, è un grido nel silenzio ovattato che sta accompagnando la ricorrenza: “Per molti anni – spiega Perrone – i meriti di Mattei furono negati, impedendo al valore della sua opera di ottenere il giusto riconoscimento. Dopodiché, si passò all’indifferenza: questo secondo passaggio non fu il frutto di un processo artificiale, ma semplicemente l’effetto di una impostazione sedimentatasi nel tempo e quindi facilmente incline a replicarsi spontaneamente”.

Professore, facciamo un passo indietro. Per molti anni la morte di Mattei fu ritenuta un incidente.
“All’inizio passò la tesi negazionista: ‘È stata una disgrazia’, si disse. Una della tante che si verificano in Italia. E, coerentemente, si registrarono delle reticenze nel corso della relativa inchiesta giudiziaria apparsa fin da subito claudicante e lacunosa. Chi aveva interesse ad occultare i fatti si adoperò molto. In particolare, si evitò di indagare lì dove serviva e cioè a proposito della presenza di esplosivo nel veivolo. L’esplosivo c’era, ma la verità emerse molti anni dopo su iniziativa del magistrato Vincenzo Calia che condusse una nuova indagine terminata nel 2003”

Cosa scoprì Calia?
“Calia arrivò ad una conclusione precisa e documentata: la carica, i cui resti erano ancora reperibili fra i relitti dell’aereo, fu attivata quando il pilota azionò il comando per la fuoriuscita del carrello. Non si trattò di un incidente. Purtroppo ignoriamo ancora chi siano i responsabili e, con tutta probabilità, non lo sapremo mai.”

Di ipotesi se ne sono formulate tante. Leonardo Sciascia avanzò il sospetto di un coinvolgimento della mafia nell’operazione, anche se la “mano” straniera rimane la principale indiziata. È possibile mettere un po’ d’ordine fra le molte supposizioni?
“La mafia non può considerarsi mandante, perché non aveva i mezzi tecnici per un attentato di quel genere che, allora, poteva essere gestito solo da un servizio segreto dotato di tecnologie avanzatissime. La ricerca, pressoché irrealizzabile, andrebbe svolta nell’ambito di quelle grandi potenze – Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Unione Sovietica – che disponevano di servizi dotati di strumenti di primo livello. Il collegamento, almeno temporale, con la crisi dei missili sovietici a Cuba non dev’essere trascurato, ma è indimostrato. In sintesi, la mafia potrebbe aver dato una mano sul posto, ma il mandante e i tecnici sono altrove”.

Pierpaolo Pasolini indagò a fondo sulla vicenda e, a detta di molti, si imbatté in un verità scomoda che gli costò la vita. Le storie dell’industriale e dello scrittore sono realmente legate a filo doppio?
“Questo è un crinale pericoloso. Mettere in connessione troppe cose induce a viaggiare con la mente anziché attenersi ai fatti che, in questi casi, sono la bussola di riferimento più preziosa. Si può prendere atto di alcune aderenze, ma è sempre necessario non lasciarsi deviare e, soprattutto, permettere agli strumenti giudiziari e storici di indagare senza intralci”.

Il silenzio che avvolge la morte di Mattei si estende anche il valore della sua opera. Perché?
“La lezione di Mattei ruota integralmente intorno ad una tensione oggi scomoda e cioè la ricostruzione del valore dell’interesse nazionale. Si tratta di un concetto abbastanza complesso che lega politica, economia e finanza. Alla fine della guerra esso era completamente smarrito, sepolto dal conflitto e dalla volontà di negare qualunque cosa fosse appartenuta all’impianto valoriale del fascismo. Mattei ridiede slancio a quell’impulso e l’Eni riuscì a diventare una della maggiori holding petrolifere del mondo in un frangente in cui il mercato era dominato dal cartello delle anglosassoni “Sette sorelle”, le indiscusse big del petrolio globale. E i benefici furono innumerevoli”.

Cosa resta di quella stagione?
“In Francia e in Germania si sono alternati governi dei più diversi colori, ma tutti hanno mantenuto fermo un punto preciso: la maggioranza delle imprese strategiche doveva rimanere saldamente nelle mani dello stato. In Italia, invece, nonostante l’esempio di Mattei, si è provveduto a smantellarle con la progressiva opera di privatizzazione selvaggia sviluppatasi, con la partecipazione attiva di Mario Draghi, sotto i governi Ciampi, Dini, Prodi e Amato. Si tratta di un processo, mai terminato, che obbedisce ad interessi stranieri e che, purtroppo, continua ancora. Oggi si desidera vendere le (poche) parti ancora pubbliche dell’Eni. In realtà, non cambia molto: quel simbolo è tramontato da tempo”.

*Intervista pubblicata su “La Gazzetta del Mezzogiorno”