AMERICAN HISTORY X (Capitolo Ucraina)

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Domanda: chi sono e da dove vengono i neonazisti che guidano la rivolta ucraina? Anche all’orecchio dell’osservatore più distratto sarà giunta, seppur per brevi cenni, la storia di Stepan Bandera, il leader dell’OUN-B (Organizzazione dei nazionalisti d’Ucraina) che collaborò con Hitler al tempo dell’invasione tedesca in Unione sovietica, salvo poi essere rimosso e deportato dall’alleato germanico dopo la proclamazione di indipendenza dello Stato ucraino, non gradita a Berlino. Dunque, si potrebbe desumere che una cellula dell’antica organizzazione sia sopravvissuta fino ad oggi, mantenendo accesa la fiaccola del nazionalismo più crudo e riapparendo, più di venti anni fa (1991), nelle vesti del partito “Svoboda” che oggi capeggia la rivolta di Piazza Majdan in un oceano di svastiche, teste rasate, croci celtiche, saluti romani e professionismo paramilitare.

La storia, in realtà, è più complicata di così. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, Bandera non si ritirò in buon ordine né visse da clandestino in patria, ma iniziò una nuova vita collaborando con i servizi segreti occidentali. Due su tutti: il britannico MI6 (dal 1948 al 1955) e il tedesco BND, dal 1956 fino alla morte, avvenuta tre anni dopo ad opera di un sicario del KGB. La sua carriera, quindi, si concluse in poco più di un decennio e senza grosse implicazioni, ma rimane significativa per comprendere in che modo i nazisti ucraini tentarono di riciclarsi e rendersi utili alla causa dei vincitori.

Meglio di Bandera, fece Mykola Lebed, capo della polizia segreta dell’ONU-B, che dopo un breve tratto di strada compiuto insieme al suo ex leader, collaborando alle operazioni di sabotaggio MI6 in territorio russo, decise di porsi al servizio del gigante più solido: la CIA. E lo fece creando una organizzazione di facciata, la Prolog Research Corporation, che operò indisturbata fino agli Anni Novanta con tanto di benedizione dello stratega e consigliere di Carter, Zbigniew Brzezinski. Fra i più attivi collaborazionisti con il colosso dello spionaggio americano si segnala anche Theodore Oberlanderg, ex capo del famigerato battaglione “Nachtigal” che giocava al tiro al bersaglio con qualunque “giudeo, russo o russofono” osasse comparire nel suo raggio d’azione. Durante un ciclo di conferenze, il militare s’imbatté in una avvenente ragazza ucraino-americana e ne diventò “padre spirituale”, condizionando profondamente la sua visione politica.

La fanciulla in oggetto, e ci avviciniamo all’oggi, è Kateryna Chumachenko, nata nel 1961 a Chicago da genitori ucraini immigrati negli States grazie alla mediazione della Chiesa Ortodossa. Ma questo non tragga in inganno. Fin da ragazza, la Chumachenko si legò, in barba all’ortodossia genitoriale, alla stravagante Chiesa Nativa della Fede Nazionale Ucraina, una setta dai nebulosi contorni impegnata nella propaganda di idee neonaziste. Il Tempio della congrega era a Chicago, vicino all’organizzazione dei nazionalisti Ucraini “Alleanza Nazionale” e alla locale sede dell’OUN-B di cui, ci racconta Giulietto Chiesa, Katy fu una indomabile attivista. In più, la nostra divenne presidente del “National Captive Nations Committee” e presidente della sezione di Washington dell’ “Ukrainan National comitte of America” (UCCA), un gruppo ispirato dal pensiero e dall’azione di Jaroslav Stetsko, braccio destro di Bandera.

Fin qui nulla di troppo strano. Una pasionaria neonazista, particolarmente infervorata e capace, che urla e sgomita all’interno di organizzazioni banderiane, serenamente incistate nel ventre dell’America democratica e rassicurate dallo sguardo sovrano e interessato della CIA. Ciò che appare incredibile è invece tutto l’altro segmento del curriculum della Chumachenko, impiegata dal 1986 al 1988 presso l’Ufficio del Dipartimento di Stato Americano nella Sezione Diritti Umani – lo stesso Dipartimento della Nuland, quella che ha dato 5 miliardi ai rivoltosi di Kiev -, alla Casa Bianca durante l’amministrazione Reagan (1988), al Tesoro sotto la governance di Bush senior (1989) e infine cofondatrice dell’Ucraina-Usa Foundation nel 1992. In una manciata di anni, ha frequentato tutti i pezzi grossi, da Clinton al Segretario della Nato Javier Solana.

Con Bush jr

Con Bush jr

Con Clinton

Con Clinton

Con Solana

Con Solana

Non c’è che dire, una carriera straordinaria per una nazistella di periferia, figlia di immigrati e adepta di una setta. E non è tutto. Perché poco dopo Kateryna diventerà la seconda moglie del presidente ucraino e banchiere di origine ebraica Viktor Yushenko, il predecessore di Yanukovich, eletto subito dopo la “rivoluzione arancione” del 2004 e copiosamente finanziato da Soros e dalle Ong di mezzo mondo. Ci sono due versioni diverse circa l’incontro che Cupido propiziò fra i due: alcuni sostengono che avvenne casualmente in aereo, altri ricordano che la Chumachenko fu spedita a lavorare come consulente bancaria, per un breve periodo, in uno degli istituti dove operava Yushenko, il KPMG Peat Marwick/ Gruppo Barents. In ogni caso, gli americani gliel’hanno messa nel letto e lei ha svolto egregiamente il suo compito condizionando le politiche del marito e convincendolo, ad esempio, a proclamare nel 2010 Bandera eroe nazionale.

Dunque, ricapitoliamo. Finita la guerra, gli americani misero a libro paga i nazisti ucraini in funzione antisovietica e accettarono di ospitare sedi e strutture affinché la loro ideologia sopravvivesse nei decenni a venire, ben consapevoli che quella riserva di fanatico odio anti-russo sarebbe venuta utile prima o poi. Così, decisi a strappare l’Ucraina all’area di influenza Russa, hanno pensato bene di giocare su due tavoli: da un lato agitando le bandiere di libertà e democrazia (la rivoluzione colorata) e dall’altro riattizzando il nazionalismo ucraino (la risalita di Svoboda et similia). L’ex première dame Kateryna Chumachenko è stata l’incarnazione perfetta della sintesi fra queste due anime apparentemente antitetiche, eppure capaci di conciliarsi, strumentalmente, in una sola persona. Nazista ma sposata con un banchiere ebreo, nazionalista ma al servizio del potere atlantico, devota seguace di macellai ma zelante impiegata presso la Sezione Diritti Umani del Dipartimento di Stato americano, Lady Katy è la figura simbolo della geostrategia sovversiva americana. Non è una goccia nell’oceano del caos, guai a pensarlo. Lei è il metodo. Il metodo strabico della sovversione impazzita.

Un mondo SENZA GUIDA

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C’era una volta l’America alla guida del mondo. La nazione necessaria, cui il destino manifesto aveva indicato le vie del dominio planetario. Ovunque andasse portava modernità, riscattava destini di milioni di uomini, mostrava l’esempio di ciò che era giusto fare, di ciò che era al passo con i tempi. Sotto questa fulgida luce venivano impartite lezioni di democrazia e libertà ai popoli arretrati del pianeta, si lanciavano mode e linguaggi. Il nostro stile di vita aveva sempre un riferimento in quelle immagini di grattacieli titanici all’ombra dei quali brulicavano ambizioni sociali ed economiche e si era tutti lanciati a grande velocità verso un progresso che pareva non avere fine. Così ci raccontavano (senza dircelo) la televisione, il cinema, la pubblicità, in un bombardamento incassante di immagini determinato ad intossicare ogni nostro pensiero, colonizzando in modo permanente l’immaginario collettivo. Nessun’altra nazione nella storia degli ultimi secoli si è arrogata il diritto di essere la portatrice ufficiale dello “zeitgeist” moderno quanto gli Stati Uniti, e ciò fin dalla dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776. Il patriottismo giacobino di matrice illuminista e francese si univa allo spirito protestante del capitalismo anglo-olandese portato dai padri pellegrini che erano fuggiti dalla vecchia e reazionaria Europa. Queste forze trovarono nel nuovo mondo la base territoriale e antropologica ideale, il brodo di coltura a partire dal quale il germe americano doveva spargersi come la peste nei continenti ancora incontaminati in quanto non infettati dal richiamo del liberalismo, (per un paio di secoli involucro ideologico funzionale al governo della poundiana “usurocrazia”). Certo gli Stati Uniti hanno dovuto vincere due guerre mondiali più una guerra fredda (quest’ultima vinta per ritiro dell’avversario) prima di poter dettare la propria agenda al mondo.

Ma il punto è, sia che la si consideri portatrice di un sogno oppure di un gigantesco incubo, l’America oggi è ancora la guida del mondo?

I recenti eventi sembrano suggerire il contrario. Oggi l’amministrazione Obama sembra essere impegnata in una gigantesca manovra di silente ripiegamento rispetto alle posizioni unipolari assunte a partire dal crollo dell’Urss, che avevano caratterizzato pesantemente l’era della cosiddetta pax Clintoniana degli anni novanta, nonché la successiva parentesi del mondialismo interventista di marca neocon. A sostegno della tesi del ripiegamento, si indica la pressoché totale assenza degli USA nella gestione diretta della recente guerra libica, delegata per procura a personaggi da operetta come Sarkozy e Cameron, l’indifferenza americana sulla sorte di un proprio ex satrapo fedelissimo come Mubarak alla caduta del quale gli USA, in Egitto, sono stati a guardare senza colpo ferire la formazione di un governo della Fratellanza Musulmana e, successivamente, un colpo di stato dei militari. Fino all’ultima decisione di depennare, all’ultimo momento, l’intervento militare in Siria proprio quando sembrava ad un passo dal realizzarsi.

Ad essere oggetto di riflessione è per l’appunto questa inedita ambiguità americana in relazione alle crisi in atto sullo scenario internazionale, che sta alimentando in tutto il mondo un vivace dibattito sul suo reale significato e sui retroscena che la accompagnano. Stupisce leggere il sottotitolo della copertina di “Limes”, colta rivista geopolitica del gruppo l’Espresso, ovvero “Caoslandia e l’impotenza delle potenze”, tra le cui pagine è tutto un discettare tra coloro che ritengono finita l’era dell’incontrastata influenza americana e chi al contrario è convinto che dietro l’ambiguità di Obama si celi solo un cambio di strategia finalizzato al mantenimento della supremazia statunitense con nuovi e più sofisticati metodi. Per questi ultimi la nuova strategia americana si sintetizza nel razionalizzare le forze, uscire dalle sabbie mobili mediorientali (anche se questo rende di fatto furiosi gli storici alleati israeliani e sauditi), al fine di concentrarsi sui veri obiettivi: isolare Russia e Cina, accerchiarle e dividerle, rendere impossibile ogni velleità di alleanza strategica euroasiatica che faccia perno sulla Russia (magari sostenuta logisticamente della Germania). Se questi sono certamente gli obiettivi di Obama, bisogna chiedersi se gli USA in questo momento abbiano energie e risorse sufficienti per portarli avanti coerentemente e se non vi siano al contrario vivaci e malcelati contrasti, tanto nell’amministrazione americana quanto nei rispettivi comandi militari, sull’opportunità di un cambio di passo tanto rapido e significativo.

Gli organi di informazione solitamente utilizzati dalle agenzie della sicurezza americana per inviarsi messaggi rivelano il livello di divaricazione esistente tra le diverse visioni strategiche e le rispettive lobbies che le perseguono con incrollabile determinazione. All’interno del Pentagono crescono le tensioni. A preoccupare Obama ultimamente pare sia lo scontro aperto in atto tra il comando delle forze armate preposto al Medio Oriente e il PaCom – suo corrispettivo nell’area del Pacifico – per far prevalere una politica estera finalizzata ad accaparrarsi effettivi ed armamenti in uscita dalla missione afgana, quest’ultima ormai avviata alla sua conclusione. Per non parlare del fatto che in questa fase Pentagono e Dipartimento di Stato sembrano perseguire obiettivi diametralmente opposti. Hagel segue le istruzioni della Casa Bianca, Kerry invece è convinto della centralità geopolitica del Medio Oriente e vuole rilanciare il processo di pace israelo-palestinese (che Obama sembra avere del tutto abbandonato). I comunicati stampa durante la crisi siriana erano schizofrenici e fornivano una versione di ciò che nell’immediato avrebbero deciso gli Stati Uniti diversa a seconda del settore amministrativo che in quel momento diramava il messaggio. Tanto che fino a qualche giorno dopo il raggiungimento dell’accordo sulla distruzione delle armi chimiche siriane, ottenuto al termine dell’estenuante missione diplomatica di Putin, dalle agenzie americane non si riusciva a capire se gli Stati Uniti avessero fatto realmente marcia indietro dal proposito di attaccare il regime di Assad, o stessero sul punto di avviare i bombardamenti su Damasco.

Kerry e Hagel

Kerry e Hagel

Dietro questa opera di pressione mediatica è emersa la determinazione di una (nota) lobby a perseguire ad oltranza l’annientamento del regime siriano, senza mollare la presa anche di fronte all’improvvisa virata diplomatica di Obama. L’esplicito contrasto di pezzi considerevoli del potere finanziario, militare e mediatico americano verso la linea decisa dal Presidente, non arretrava, quindi, neanche di fronte ad un accordo internazionale sulle armi chimiche ormai concluso con altre potenze, con la conseguenza di un grave e pubblico disconoscimento dell’operato di Obama di fronte al mondo. Non se ne parla troppo apertamente ma molti governi sono preoccupati dal livello di ostilità interna che si consuma in seno alla massima superpotenza del pianeta.

Ne viene fuori il quadro inquietante di una gigantesca Idra impazzita, le cui teste si avventano tra loro divorandosi. Portato alle estreme conseguenze questo clima potrebbe ricordare la fase di “anarchia militare” che nel III secolo e.v., dopo la fine della dinastia dei Severi, precedette il definitivo crollo dell’Impero Romano, quando i comandanti delle legioni agivano in modo indipendente, seguendo gli interessi delle fazioni legate alle province cui erano assegnati, giungendo ad eleggere il proprio Cesare da contrapporre a quello innalzato sugli scudi dalla fazione dei pretoriani a Roma o dalle legioni in rivolta in altre province lontane.

In queste condizioni è chiaro che gli Stati Uniti non sono più in grado di dettare la propria agenda al mondo. E non si tratta della sola perdita di leadership sul piano diplomatico e militare, come sostengono con convinzione alcuni analisti (troppo abituati a guardare l’attualità con il microscopio facendosi sfuggire la visione d’insieme). Certo, il disastro iracheno e l’agonia della missione afgana avranno certamente influito sul morale generale di una nazione caduta vittima della sua stessa retorica. Ma qui è anche in gioco l’egemonia di un modello sociale, culturale e soprattutto economico che fino a ieri sembrava destinato a non avere rivali, salmodiato per mezzo secolo da ieratici sacerdoti del pensiero unico dalle cattedre dei loro santuari universitari. Proprio questo capolavoro di sistema scosso dal sisma del collasso finanziario del 2008, non ha saputo fare altro che salvare le banche d’affari, responsabili uniche di quel disastro, innaffiandole di denari pubblici per miliardi di dollari, così allargando a dismisura la voragine del più spaventoso debito pubblico che sia mai stato realizzato nella storia della razza umana (si aggira attorno ai 16 trilioni di dollari). Esemplare follia di un impero che decide di far pagare in eterno alle future generazioni un conto insostenibile, maturato per garantire la sopravvivenza delle proprie oligarchie finanziarie. La goffaggine con la quale i media mainstream hanno cercato di edulcorare questa abnormità non ha potuto coprire il solco profondo che essa ha scavato nella coscienza dei cittadini, in termini di fiducia nella classe dirigente americana.

Ad essere clamorosamente smentito nella crisi attuale è stato, in generale, il vecchio modello capitalista in cui la regola era che imprese e banche quando sbagliano vengono lasciate fallire e non salvate con i soldi dei cittadini. Ennesimo falso mito della dottrina neoliberista quello della libera concorrenza che porta sempre crescita e innovazione punendo le inefficienze. In realtà il meccanismo vale solo per la piccola impresa che esordisce nella giungla del mercato ma sempre è più evanescente man mano che si salgono i gradini della piramide sociale, ai primi piani della quale troneggiano invalicabili monopoli, intoccabili cartelli di banche e multinazionali presidiano stabilmente il mercato e, a quanto pare, ora anche le casse dello Stato. L’altra faccia del sogno americano. Qualcosa sembra essersi rotto definitivamente. Proprio in quello che sembrava essere il suo campo di battaglia privilegiato, cioè il libero mercato, l’America non funziona più come modello.

Il problema è che al momento sembra non ve ne siano altri pronti a sostituirlo. Anzi, l’elemento assolutamente inedito della realtà contemporanea, che molti per paura fanno finta di non vedere pur percependolo, è proprio il deficit di una visione del mondo, sia essa politica, culturale, ideologica, che possa porsi come alternativa a quella che vediamo tramontare. Gli altri mondi non comunicano granché. La Cina non ha ancora deciso cosa farà da grande, ma in ogni caso non sembra voler assumere un ruolo di guida planetaria che vada al di là di un primato commerciale. La Russia, al momento in ascesa geopolitica grazie all’abilità di Putin nello sfruttare l’impasse americano, concentra i suoi sforzi recuperando pezzi di sovranità nell’ambito del proprio cortile di casa. Ma quand’anche Putin vedesse realizzato questo sogno neo-bismarkiano di ricucitura delle ex repubbliche sovietiche, cosa esporterà oltre i confini del proprio spazio vitale al di là del gas? Varrà probabilmente, in questo caso, la lezione storica dei secoli passati che ci racconta di una Russia storicamente incapace di assecondare una vocazione imperiale che andasse oltre i popoli slavi di religione ortodossa, motivo per cui, anche di fronte alle più elevate ambizioni dei suoi sovrani, Mosca alla fine non si è imposta nell’esercitare la funzione universale di “terza Roma”.

 

putin

Dell’Europa invece è meglio non parlare. Non pervenuta. Essa offre l’immagine di una landa di tumuli in cui echeggia un antico e glorioso passato. Riunificata in gran fretta, dopo il crollo dell’URSS, sotto le insegne di Washington, che oggi non vuole o non riesce più ad esserne il centro direttivo, si è data l’UE e la moneta unica come una sorta di cilicio cucito addosso. Curiosa nemesi quella dell’Unione Europea: nata al deliberato scopo di contenere la prevedibile riemersione della Germania riunificata dalle nebbie della storia, è finita col divenire lo strumento di esercizio dell’egemonia di quest’ultima. Si tratta però di una egemonia che si gioca esclusivamente sul cambio favorevole, sulle esportazioni, sui bilanci pubblici e i debiti sovrani, sulle aste dei bot, sugli spread, sulla pressione fiscale e via contando. La Germania, uscita dalla storia in circostanze troppo traumatiche, oggi non vuole rientrarci preferendo mantenere un profilo basso, da egemone riluttante. Non si cura dei vicini, non armonizza le differenze nazionali in un progetto politico organico europeo, come invece seppero fare gli imperatori tedeschi del medioevo (menti superiori, oggi purtroppo abbiamo la Merkel). Insomma se il mondo è senza guida, l’Europa non sta meglio. Thomas Mann avrebbe detto che la proverbiale impoliticità del tedesco oggigiorno si è ormai sclerotizzata. Infatti tutto ciò che l’ottusità burocratica dell’Ue sotto l’influenza tedesca è riuscita ad offrire all’Europa in questi ultimi anni è l’austerità, cioè l’imposizione dogmatica del rigore nei conti pubblici degli stati membri, da realizzare a qualsiasi costo all’interno di parametri europei rigidamente imposti dall’alto. Conseguenza ne è il precipizio di consumi e occupazione che ha travolto tutta l’Europa non tedesca in una spirale verso il basso che non accenna ad invertire la rotta. Moti di reazione popolare emergono all’orizzonte in diversi paesi dell’unione, ma in questi movimenti di opposizione all’eurocrazia non è ancora emersa una visione di lungo periodo, un vero progetto alternativo di governo continentale o, come si diceva un tempo, di “Europa-nazione”.

Perché quello che manca oggi è un soggetto internazionale che si proponga di dare una direzione a questo mondo, di segnare le tappe di un cammino, di proporsi come centro stabile di interessi ed ambizioni che vadano oltre la sopravvivenza istituzionale. Di fornire una causa collettiva che susciti entusiasmo facendosi portatore di una koinè culturale, di un’identità.

In ogni epoca della storia c’è stato un “nomos della terra” a caratterizzare l’ordinamento dei popoli e dei rapporti internazionali. Sembra che il mondo post-americano sia caratterizzato, al contrario, dall’anomos, dall’assenza cioè di una legge regolatrice di forze dall’alto. Dall’assenza di vitalità in un qualche corpo politico organizzato intorno ad un’idea che sia una. I destini di milioni di uomini sembrano vagare avvolti in un caos privo di direzione, sostanziato di puro movimento, spesso risultato dell’inerzia di precedenti spinte ormai sopite, di parole d’ordine divenute stanche cantilene, perpetuato in uno stato collettivo di sonnambulismo che si trascinerà fino a che non suonerà una sveglia.

Certamente si tratta di una fase storica di transizione. È probabile che essa durerà fino a quando dalle nostre parti non inizieranno a svegliarsi forze in grado di imporre alla terra una diversa visione del mondo e un nuovo nomos.

*A cura di Marcello D’Addabbo

 

 

STAMPARE NON BASTA. Una tirata d’orecchie. Ai sovranisti.

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Qualche anno fa, nel circuito del pensiero non conformista, teneva banco una controinformazione economica argomentata e puntuale. Parlava di signoraggio e sovranità monetaria, prodigandosi in una narrazione che non conosceva pressapochismo, sostenuta com’era da cifre, dati, documenti, analisi, ricapitolazioni storiche e aggiornamenti continui. A portarla avanti erano pochi ma ben attrezzati pionieri, disposti ad andare avanti nonostante lo spettro di quella riserva indiana nella quale sapevano di confinarsi. Per tanti motivi. Non ultimo l’illusorio e generale benessere che impediva al cittadino di interessarsi a verità che lo avrebbero bruscamente ridestato dal sogno americano nel quale s’era immerso beato fino alla cima dei capelli.

Poi lo scenario è cambiato. È arrivata la crisi e qualcuno, buttato giù dal letto dalla mestizia dei tempi, ha iniziato a prestare orecchio alle parole di queste cassandre inascoltate che tanto si erano spese in tempi non sospetti. Con il risultato di rendere di pubblico dominio ciò che prima era appannaggio di qualche iniziato, esiliato nella riserva. Ormai non si contano più i siti, i libri e i documenti dedicati al problema della sovranità monetaria, recentemente approdata perfino da Santoro per bocca di una coraggiosa imprenditrice veneta. Benissimo, si dirà. Vero, se non fosse che proprio quando sarebbe stato necessario infliggere il colpo di grazia e raccontare al mondo, per filo e per segno, fatti e misfatti di secoli di usura, il livello della controinformazione si è spaventosamente abbassato. Giacinto Auriti non c’è più. Ora a suonare le trombe della rivoluzione monetaria sono i blogger di venti-trent’anni che riempiono la rete di citazioni poundiane, vecchi slogan, frasi fatte. Chiedete loro che differenza c’è fra il mercato primario e quello secondario e non vi sapranno rispondere. Non a caso, non potendo scendere troppo nei dettagli per manifesta ignoranza, il piano per la liberazione dell’umanità è stato ridotto all’osso: nazionalizzare la banca centrale di turno e stampare tutta la moneta che serve ad appianare il debito e rilanciare l’economia. Stampare, stampare, stampare. Una tipografia salverà il mondo.

Naturalmente, qualunque economista liberista, anche il più scarso della nidiata, farebbe carne di porco di questi sovranisti della domenica. Non serve essere laureati ad Harvard per capire che stampare valanghe di soldi e gettarli nel sistema significa privarli immediatamente del loro valore e ridurli a carta straccia. È per questo motivo che le Banche Centrali, dicono loro, devono rimanere indipendenti dal potere esecutivo e cioè per garantire che gli stati non si divertano ad azionare la macchina fabbrica-denari ogni cinque minuti e per qualunque capriccio. In realtà, sappiamo bene, la cricca finanziaria non è migliore dei governi che pretende di disciplinare: la moneta creata ex nihilo dagli usurai e data in presto a Stati e cittadini finisce per generare un sistema in cui, alla lunga, l’ammontare generale dei debiti supera spaventosamente la liquidità necessaria per rimborsarli. Ironia della sorte, la grande finanza che emette “moneta debito” e gli allegri stampatori della “moneta libera”, seppur per ragioni diametralmente opposte, ci conducono entrambi verso il medesimo precipizio perché dimenticano, o fingono di dimenticare, una necessaria verità: la moneta deve essere sempre agganciata a qualcosa, altrimenti il sistema esploderà sotto il peso di quanto artificialmente creato dalla bulimia umana, angelica o diabolica che sia.

La massima è valida sempre, anche nel caso delle sperimentazioni più audaci. Thaddeus Coleman Pound, il nonno del più famoso Ezra, emise una propria moneta garantendola con il legname della sua segheria. Nel 1931, nel villaggio minerario bavarese di Schwanenkirchen, vi fu la prima emissione di moneta deperibile, la Wara, concepita sul modello di quella immaginata da Gesell. Protagonista dell’iniziativa fu il signor Hebecker, proprietario della locale miniera, che si premurò di coprire l’emissione alla pari con un deposito di 40mila reichsmarks presso la banca del paese. La stessa operazione fu portata avanti, poco tempo dopo, da Michel Unterguggenberger, sindaco della cittadina tirolese di Woergl, che iniziò a battere la cosiddetta “moneta (deperibile) del lavoro”, anche in questo caso coperta di un deposito di scellini di identico valore. L’elenco potrebbe continuare ma la morale è sempre la stessa: ogni emissione monetaria deve essere garantita e coperta, non solo per condurre l’eretica battaglia in tutta sicurezza, ma soprattutto perché altrimenti la quantità di denaro stampata sarebbe frutto di una scelta totalmente arbitraria e priva di ogni ancoraggio alla realtà. Quanti, in questi anni, hanno percorso la pur interessante strada della “moneta complementare”, stampando e distribuendo gratuitamente dei talloncini con i quali coprire il 10% di ogni spesa effettuata in euro presso i negozi coinvolti nell’iniziativa, hanno avuto il problema di quante cedole mettere in circolo. Non essendo ancorate a nulla, rischiavano di essere troppe (con l’effetto di far rialzare i prezzi) o troppo poche (con l’effetto, altrettanto deleterio, di essere ininfluenti).

Storicamente, è stato l’oro l’aggancio classico della moneta. Tuttavia, si tratta di un accorgimento iniquo perché sbilancia i rapporti di forza in favore di chi può acquistare (o estorcere) vagonate del biondo metallo e condanna gli altri, più poveri in partenza e quindi sempre più poveri in seguito, a raggranellare qualche pugliuzza alla periferia dell’impero. Con il risultato di avere scarse riserve e, dunque, scarsa quantità di moneta da mettere in circolo. E allora, come si potrebbero coprire i denari del domani? La domanda non è da poco.

Per evaderla nel modo corretto, serve rifarsi ad un esempio storico e concreto. Purtroppo per i benpensanti (copritevi gli occhi), ci toccherà prendere in esame la politica monetaria del Terzo Reich, quella che a scuola e all’università non si studia mai, perché c’è Auschwitz e tanto basta. Eppure, come vedremo, l’insegnamento che se ne potrebbe trarre è grande, avendo il nazionalsocialismo raccolto una nazione economicamente distrutta per trasformarla, in una manciata di anni, nella florida macchina da guerra che avrebbe messo a ferro e fuoco l’Europa. Come hanno fatto? Con l’unico esperimento dirigista riuscito in quegli anni, anche grazie alle felici intuizioni di Hjalmar Schacht, l’ebreo (eh sì) che astutamente Hitler mise a capo della Banca Centrale del Reich, dalla quale iniziò subito a stampar moneta per ripagare i creditori della Germania.

Hjalmar Schacht

Hjalmar Schacht

Ecco – dirà l’allegro stampatore – avete visto? Azionando una leva tipografica hanno risolto tutto!”. No, la questione non è affatto così semplice. È vero che il Reich iniziò a risollevarsi stampando moneta, ma è anche vero che impose ai creditori, cui il denaro veniva elargito, una clausola ferrea: i reichsmarks di nuovo conio potevano essere spesi solo in Germania, cioè per comprare le merci tedesche. In questo modo il denaro emesso dal nulla riacquistava consistenza, rientrando sotto forma di consumo, e dunque di stimolo all’economia, nel ciclo produttivo. Ma nemmeno questo modus operandi convinse fino in fondo i nazisti: stampare a tali condizioni era sostenibile, ma non stampare affatto sarebbe stato meglio. Ed ecco allora profilarsi la svolta, così come spiega Maurizio Blondet cui dobbiamo buona parte di questa analisi: “Ben presto, il sistema sviluppò, quasi spontaneamente, accordi internazionali di scambio per baratto: la Germania non aveva più bisogno di valuta estera (dollari o sterline) per comprare le materie prime di cui necessitava, perché non vendeva né comprava più. Per il grano argentino dava in cambio i suoi (pregiati) prodotti industriali; per il petrolio dei Rockefeller, armoniche a bocca e orologi a cucù. Prendere o lasciare, e le condizioni di gelo del mercato globale non consentivano ai Rockefeller di fare i difficili”. Se vi sembra preistoria, se quanto esposto vi appare come un meccanismo arcaico e dilettantesco oggi irreplicabile, sarà sufficiente citare i recentissimi accordi, ancora in via di perfezionamento, fra Russia e Iran che prevedono barili di greggio in cambio di prodotti industriali. Lo scopo è diverso (far uscire Teheran dall’isolamento imposto), ma il metodo è lo stesso. Lo diciamo con Gene Wilder: “Si può fare”. Anche oggi.

Liberati i marchi dall’incombenza degli approvvigionamenti, Hitler poté, a questo punto, stampare per inaugurare un grande progetto di opere pubbliche, mirato al riassorbimento della disoccupazione. Ma seppe fermarsi in tempo. Per risolvere il terzo problema, quello del rilancio dell’industria, i nazisti s’inventarono infatti un metodo diverso. “Nel sistema hitleriano – riprende Blondet – è direttamente la Banca Centrale di Stato a fornire agli industriali i capitali di cui hanno bisogno. Non lo fa aprendo a loro favore dei fidi, lo fa autorizzando gli imprenditori ad emettere cambiali garantite dalla Stato. È con queste promesse di pagamento (dette “effetti MEFO”) che gli imprenditori pagano i fornitori”. Cerchiamo di essere ancor più precisi del Nostro: MEFO era l’acronimo di Metallurgische Forschungsgesellschaft, una “scatola” vuota in nome della quale furono emesse delle obbligazioni in qualunque momento scontabili presso la Reichsbank. Un grosso rischio dunque: se gli imprenditori fossero andati a riscuotere, il Reich avrebbe fatto bancarotta perché la MEFO e i suoi capitali, semplicemente, non esistevano. Ma i capitani d’industria non lo fecero mai per due ragioni: la grande fiducia che gli attori dell’economia nutrivano verso il governo e, soprattutto, perché il circuito Stato-impresa gestì l’esistenza di questa specie di “moneta industriale”, di truffa a fin di bene, senza che nessuno sapesse niente. Il docente di scuola ignorava l’esistenza dei MEFO e, come lui, la stampa e gli osservatori internazionali, con tutte le conseguenze del caso.

Si potrebbe continuare a ragionare a lungo sul misconosciuto “miracolo hitleriano”, per esempio parlando dei surrogati (invece di importare benzina, si trovò il modo di fabbricarne una versione sintetica dal carbone o dalla gomma) o di fattori immateriali come l’innata disciplina del popolo tedesco. Ma ciò che importa sono le conclusioni: pur potendo stampare vagonate di marchi i nazisti non lo fecero, anzi cercarono, a volte con grande fantasia, di ingegnarsi in tutti i modi possibili e immaginabili pur di non stampare troppo. E questo non solo per aggirare le sanzioni di Versailles (noi ne avremmo di peggiori) o evitare di attirare sguardi ostili e indiscreti (anche qui non siamo messi meglio), ma soprattutto perché cercarono di applicare, nel modo più saggio possibile, una regola aurea: il denaro creato dal nulla non produce inflazione soltanto se ancorato all’economia reale cioè alla produzione industriale. Anche in questo caso, però, sarebbe bene trovare uno stratagemma alternativo (come i MEFO, il baratto o i surrogati) da affiancare ai soldi correnti, da “fabbricare” soltanto ove non esista una soluzione diversa. Nella fattispecie, Hitler stampò marchi per iniziare ad appianare i debiti e per assorbire la disoccupazione, ma non lo fece per disciplinare il commercio con l’estero e il rilancio delle imprese. La lezione sulla ‘tentazione tipografica’ è chiara e la mettiamo fra virgolette: “Dove non serve, non fatelo, ma dosate le forze. In questo modo, il sistema sarà equilibrato e l’inflazione non crescerà” (in Germania salì appena di 4 punti in cinque anni).

Tornando all’Italia agonizzante del 2014, la parentesi storica appena esposta fornisce indicazioni preziose. Parzialmente ripudiato o ristrutturato il debito, e recuperata la sovranità monetaria, Roma dovrebbe cercare di pianificare il rilancio senza cedere alla tentazione di indebitarsi di nuovo ma anche evitando pericolosissime derive semplificatrici. Stampare, lo avrete capito, non basta, ma è un esercizio di indipendenza e libertà che funziona solo se inserito in un più ampio disegno strategico. Che non ha nulla di ovvio o di banale. Da cui un caldo consiglio ai sovranisti della domenica: abbassate la saracinesca della tipografia e iniziate a studiare.