BERTO RICCI, “poeta armato” sepolto a Bari

Berto-RicciIn pieni Anni Sessanta, il Colonnello Gheddafi rispedì al mittente le spoglie dei soldati italiani caduti in Libia nel corso del secondo conflitto mondiale. Fra quelle che trovarono riposo presso il Sacrario Militare dei Caduti d’Oltremare, alla periferia di Bari, una recava il nome di Roberto (Berto) Ricci, docente, scrittore, raffinato poeta e giornalista toscano, ucciso dagli inglesi a Bir Gandula, in Cirenaica, nel febbraio 1941. Conosciuto dai più come il maestro di Indro Montanelli, Ricci fu innanzitutto un “poeta armato”, “un tipo di figura intellettuale tipica del Novecento, il secolo delle rivoluzioni animate non da pensatori salottieri barricati in una torre d’avorio, ma da intellettuali impegnati concretamente nell’azione in coerenza con le proprie idee”.

Muove da qui l’esposizione del docente e saggista Alessandro Barbera, scopritore nel 1978 della lapide “barese” di Ricci e relatore della conferenza a lui dedicata – “Berto Ricci, il poeta armato de L’Universale”-, introdotta dal giornalista Michele De Feudis e svoltasi l’altra sera nei locali della libreria “La Terra di Thule” di Bari. Un’occasione per ripercorrere il pensiero, la vita e l’opera di una delle figure più originali ed eretiche del panorama culturale italiano negli anni del Fascismo, cui Ricci aderì, sposandone lo spirito rivoluzionario, dopo un breve trascorso da anarchico. Senza fare mai mistero delle proprie libere intuizioni, tradotte su carta negli scritti per “L’Universale”, rivista da lui fondata nel 1931, e per i molti fogli, come “Il Popolo d’Italia”, cui nel tempo fu chiamato a collaborare. “Ricci – argomenta Barbera – promosse l’idea di impero, da declinarsi qui non all’americana o all’inglese, cioè come una aggressione economica destinata alla sottomissione dei popoli, ma come una fecondazione positiva ispirata dal genio italiano”. Coerentemente, non risparmiò attacchi al nazionalismo sciovinista, al capitalismo materialista, al vuoto formalismo religioso, al razzismo nazista di cui non fu mai latore. Non mancarono nemmeno aperture al comunismo sovietico, apprezzato non certo nei contenuti bensì nella trascinante spinta rivoluzionaria. A far da sfondo a tale vocazione da “bastian contrario”, la dignità di un vita spartana e la preghiera, rivolta insistentemente a Mussolini, nel 1938 e nel 1941, di farsi inviare a combattere in prima linea per allineare, con rigore, pensiero ed azione.

“Berto Ricci – conclude De Feudis – è uno dei pochissimi scrittori e poeti di rilievo nazionale sepolti a Bari, nel silenzio collettivo. È arrivato il momento affinché una figura di tale livello venga ricordata attraverso un atto tangibile: una targa, l’intitolazione di una strada o un convegno di studi”

* Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

 Ps. Qualche ulteriore notazione in calce all’articolo.  In queste settimane si è parlato moltissimo delle leggi razziali introdotte in Italia dal governo fascista nel 1938. Ebbene, Berto Ricci – per quanto favorevole ad una alleanza strategica con la Germania nazista – non fu mai un sostenitore dei concetti di razzismo biologico e di superiorità morfologica. Al contrario, li avversò decisamente. Non c’è quindi traccia del Nostro su quelle riviste, come “La Difesa della razza”, che si fecero megafono del nuovo corso. Ben altre furono le firme che, felicemente, sposarono la causa razziale ingaggiano una vera e propria battaglia intellettuale in sua difesa. Qualche nome? Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giorgio Bocca. Cioè tutti i futuri maestri della tolleranza, del moderatismo e dell’antifascismo cui, obiettivamente, bisogna riconoscere il merito di aver saputo ricostruire la propria verginità con grande destrezza e disinvoltura. Le posizioni di Ricci, oltre a dimostrare la falsità dell’idea di un regime idealmente “monolitico” in cui tutti, dai soldati ai giornalisti, obbedivano agli input governativi, rilanciano la necessità di riesaminare, con mente libera e aperta, la storia di quegli anni. Senza cedere alla tentazione del comodo silenzio, lo stesso cui è stato condannato Ricci anche e soprattutto da coloro che avrebbero dovuto promuoverne le idee e l’opera. 

EUROGENDFOR, l’Ue si arma

EUROGENDFOR150Si chiama Forza di Gendarmeria Europea (Eurogendfor o EGF) ed è la nuova polizia militare dell’Unione Europea, istituita il 18 ottobre del 2007 a Velsen, in Olanda, con un omonimo Trattato firmato da Italia, Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo. In seconda battuta si è aggiunta la Romania. Naturalmente, nessun media si è dato la pena di avvisare i popoli, fastidiosi orpelli, della nascita del nuovo contingente a respiro continentale. Eppure, ci sarebbe tanto da sapere.

Andiamo con ordine. L’ EGF è formata da agenti provenienti dalle polizie militari dei paesi firmatari (nel nostro caso, i Carabinieri) ed è stato, finora, ufficialmente impegnato in Bosnia, in Afghanistan e ad Haiti dopo il terremoto. Dunque, attenzione a non farsi ingannare dagli aggettivi. Eurogendfor non risponde solo all’Unione Europea ma può essere messa “a disposizione” (citazione dal Trattato, art. 5) delle Nazioni Unite, dell’Ocse, della Nato e “di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche”. Quali siano non è dato saperlo, ma infondo importa poco: la tensione ideologica che muove il neonato braccio operativo è già chiarissima. In teoria, comunque, gli agenti rispondono al Cimin, il Comitato Interministeriale composto dai Ministri degli Esteri e della Difesa dei paesi firmatari. Un trionfo della democrazia, si dirà, ma conoscendo il grado di vassallaggio dei politici nostrani, e in generale di quasi tutti i ministri delle nazioni europee, più di un dubbio si insinua legittimamente.

Anche perché l’EGF ha compiti quasi illimitati: supervisioni, arresti, indagini penali, attività d’intelligence, controllo delle frontiere, formazione di personale, pubblica sorveglianza, protezione di beni e persone (banche e banchieri?). Sono abilitati perfino a dirigere il traffico stradale. Come prevedibile, in cima alla lista della mansioni troneggia il riferimento alle “missioni di ordine pubblico”. Quindi sì, ce li ritroveremo in piazza. Un brivido ha già attraversato la schiena dei greci quando un contingente di Eurogendfor è stato visto approdare sull’isola di Igoumenitsa nei giorni degli scontri ad Atene.

La gendarmeria, dal canto suo, è schermata in modo perfetto. Locali, edifici, archivi, atti, file informatici, registrazioni e filmati (art. 21) sono da ritenersi inviolabili. E le comunicazioni (art 23) non sono intercettabili. Ma il peggio deve ancora arrivare. Articolo 9/3: I membri del personale di Eurogendfor non potranno subire alcun procedimento relativo all’esecuzione di una sentenza emanata nei loro confronti nello Stato ospitante o nello Stato ricevente per un caso collegato all’adempimento del loro servizio. Capito? Se un agente di EGF massacra uno studente greco durante uno scontro di piazza, la magistratura ellenica non potrà in alcun modo arrestarlo, processarlo e sbatterlo nelle patrie galere. Nemmeno teoricamente. Glielo sfileranno da sotto il naso, qualunque cosa abbia fatto, e tanti saluti.

A questo punto, non resta che domandarsi ove mai si trovi la base operativa di questo capolavoro di democrazia e libertà. In Italia, of course, presso la Caserma “Generale Chinotto” di Vicenza. D’altronde i nostri parlamentari avevano entusiasticamente accolto l’intera operazione, ratificando il Trattato di Velsen, nel 2010, con votazione pressoché unanime alla Camera. Su 443 votanti, 442 voti favorevoli ed un astenuto che, probabilmente, avrà sbagliato pulsante. Nessuna sorpresa. Sono quelli del “ci serve più Europa. ”

*Pubblicato su barbadillo.it

(BUTTA)FUOCHI lungo la Via della Seta

Pietrangelo_Buttafuoco_0038picA Norberto Bobbio che, alla fine di un’intervista, gli domandò “Mi spiega perché è fascista?”, rispose così: “Professore, confessione per confessione, io non sono fascista. Sono altro. Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti ad altri inaccessibili”.E proprio dal cuore di quella eresia divampa la prosa di Pietrangelo Buttafuoco, nomen omen, giornalista, romanziere, conduttore televisivo e, da marzo, firma del quotidiano “La Repubblica” dalle cui colonne ha recentemente attaccato la destra dei “destrutti”, compilando l’alfabeto dell’agonia berlusconiana. L’ennesimo tizzone, peraltro non privo di conseguenze professionali, di un incendio ideale che la recente raccolta di scritti Fuochi (Vallecchi, pp. 234, euro 14,50) contribuisce a far divampare “recuperando – spiega l’autore – i passaggi riconducibili ad un solo tema polemico, opposto rispetto al dettato ufficiale”. Cioè quello dei conformisti e dei “piritolli, pierini profumati che alzano il dito e fanno letteratura”. Rigorosamente lontano da loro, infatti, si consumano le riflessioni del cuntastorie catanese sul tempo passato e sui tempi che verranno.

Buttafuoco, per cosa si è caratterizzato l’anno appena trascorso?

“Dal punto di vista nazionale ha svelato un trucco che altrimenti sarebbe stato difficile da decifrare: l’Italia non ha una sovranità politica. Dietro il paravento del governo tecnico, dietro l’ipocrisia della grande stampa, dietro le formule con cui hanno cercato di edulcorare la realtà, emerge precisamente questa triste rappresentazione. L’Italia non ha possibilità di decidere del proprio destino e partecipa al Grande Gioco internazionale in una posizione defilata, periferica e ininfluente ”.

In riferimento a quest’ultimo, selezioni due protagonisti del 2012: uno in senso positivo, l’altro in senso negativo…

“Secondo me, parlando di Grande Gioco, la Cina rappresenta l’elemento fondamentale, il vero protagonista. Al contrario, si può vedere nella rielezione di Obama un qualcosa di già noto. L’attuale Presidente rappresenta per gli Stati Uniti quello che Gorbaciov rappresentò per l’Unione Sovietica: è colui il quale metterà fine all’impero, sarà l’ultimo a spegnere le luci”.

È l’ “incubo d’Occidente” su cui riflette nel libro?

“Sì, è proprio questo. Cioè l’idea di non essere più il perno centrale della Storia e della contemporaneità. E di scoprirsi, adesso, in una posizione subalterna”.

Ciò nonostante, o forse proprio in virtù di tali considerazioni, l’Occidente continua a formulare per sé un certo tipo di racconto. In questo, la televisione possiede ancora un ruolo determinante?

“Assolutamente no, non riesce a sopravvivere ad internet ed alla molteplicità delle sue forme. La rete, di fatto, ha già inghiottito la carta stampata, la tv generalista, i telegiornali. Tutto si ritrova ad essere vecchio e inutile anche perché c’è una nuova, sterminata umanità che non è in grado di proporre una attenzione superiore ai due minuti. Parliamo di un pulviscolo sociale fatto di ignoranza: se prima era la fame a determinare lo stato di minorità, oggi è l’ignoranza il fattore decisivo. L’affamato che un tempo si faceva forte della sua necessità di emancipazione aveva comunque un vantaggio rispetto all’ignorante contemporaneo che è e sarà sempre solo uno schiavo”.

Stringendo la visuale sull’Italia, come si può giudicare la Rai della Seconda Repubblica nonché quella del periodo “tecnico”?

“Si tratta della più importante macchina culturale d’Italia, non c’è dubbio. Epperò svela tutta la sua stanchezza e perfino l’inutilità rispetto alla situazione attuale. È soltanto un immenso baraccone di potere dove non c’è possibilità di sperimentare, di innovare, di allevare. Quindi non ci potrà mai essere, in prospettiva, un vivaio. Naturalmente tutto questo accade ora, ma non accadeva in passato quando si riusciva a far convivere e coabitare le punte del nazional-popolare, come Mike Bongiorno, con un grande protagonista del dibattito culturale come Umberto Eco. Il quale, peraltro, fu anche l’autore della mitica Fenomenologia di Mike Bongiorno”.

Da quali parole d’ordine si dovrebbe ricominciare nel 2013?

“Per noi italiani l’espressione di riferimento non può che essere una: la Via della Seta. Si tratta della sola opzione di futuro a disposizione. Bisogna cominciare a lavorare di geografia e di politica estera per capire come il mondo stia cambiando. E, contemporaneamente, dismettere tutte le stupidaggini che ci hanno tenuti ancorati a luoghi comuni, a mondi morti e inutili, e, soprattutto, a pregiudizi grazie ai quali non si è inteso come il futuro riservi molte più chances di quante la nostra noia e la nostra stanchezza ci facciano immaginare”.

E il mezzogiorno quale ruolo specifico potrebbe recitare?

“Noi abbiamo una possibilità politica, strategica e culturale forte ed è, in una sola parola, l’Eurasia. Quando parlo di Via della Seta immagino questo grande continente in cui i popoli con i loro canti, i loro racconti, i loro commerci, i loro mercati, cioè con tutto quello che costruisce la vita quotidiana, si incontrano in un unico alfabeto, quello eurasiatico. La gente del Sud possiede un legame particolare con tale dimensione e Bari è il nostro avamposto, la città che più di ogni altra può aprire questo percorso verso Oriente”.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”