HANNO UN PROBLEMA ENORME. SI CHIAMA TRUMP

di Marcello D’Addabbo

Non sono riusciti a fermarlo. Il secondo Super Tuesday delle primarie americane ha come protagonista lui, l’odiato miliardario di New York Donald Trump, consacrando la sua aspirazione a diventare il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Trump si impone in Florida, Illinois, North Carolina e Missouri. Perde solo in Ohio, dove a vincere è il governatore repubblicano John Kasich. Marco Rubio, il candidato su cui il partito contava in funzione anti-Trump, umiliato nella sua Florida, si ritira. Sul campo democratico, anche Hillary Clinton porta a casa quattro Stati: Florida, Illinois, North Carolina e Ohio. Perde, di misura, in Missouri. Le primarie Usa nel campo repubblicano si stanno rivelando un vero spettacolo pirotecnico dove niente è come sembrava ai nastri di partenza e i giochi sono quantomai aperti. Tanto per cominciare il mancato decollo di Jeb Bush, “l’intelligente della famiglia” ovvero il candidato su cui puntavano ambienti del comparto sicurezza legati al padre, George H. W. Bush senior, Cia e industria degli armamenti in testa, è stato già il primo grande segnale. É rimasto legato al palo anche Marco Rubio, il cubano della Florida su cui puntava senza tanti misteri tutta la dirigenza del Partito Repubblicano in crisi di consensi, compresi i cosiddetti neo-con protagonisti dell’era Bush Junior e dell’offensiva post 11 settembre. Sarebbe dovuto emergere nella seconda fase, cioè ora, con il voto nella sua Florida popolata di esuli cubani reazionari arrabbiati. Ma con Rubio erano anche schierati i fratelli Koch delle Koch Industries, un gigante che spazia dalla chimica all’energia alla finanza alla grande distribuzione, che sovvenziona già centinaia di fondazioni, università, centri di ricerca e istituzioni culturali. I Koch hanno corrisposto già quasi 900 milioni di dollari ai candidati a loro graditi del Grand Old Party, e puntavano sulla resurrezione di Rubio, considerato un centrista moderato, nel secondo grande martedì. E invece niente. Ha vinto Trump con il 45,8% a fronte di un crollo di Rubio che giace al tappeto con il 27% e si ritira dalla partita. Un sorprendente schiaffo non solo all’establishment del partito e ai finanziatori dai ventruti forzieri ma soprattutto ai media americani ed europei che stanno cercando in ogni modo di soffocare sul nascere questo ciclone elettorale. I giornali di tutto il mondo sono davvero disperati perché, come ha scritto Maria Giovanna Maglie, il cafone, il clown, il gran villano, il disgustoso riccastro, l’uomo col riportone, quello che ha le mogli strafiche dell’Est, quello che pensa di alzare un muro col Messico, come se mezza Europa non lo stesse già facendo, sta a 621 delegati su 1237 e ha stravinto in Florida dove il partito repubblicano aveva speso 15 milioni di dollari in una campagna di fango, attacchi personali e cattiverie a valanga. Ma il modo in cui questi risultati vengono letti dai media denota una faziosità rivoltante. Viene messa in evidenza la singola e unica vittoria di un John Kasich nel suo Ohio, dove Trump è comunque secondo con un sorprendente 35,7% mentre vengono esaltate con toni trionfalistici le vittorie di Hillary Clinton la quale, al netto di una consolidata prevalenza su Sanders, ha 1094 delegati contro i 774 di quest’ultimo, sui 2338 che occorrono complessivamente per la maggioranza alla convention. Affermare che la Clinton “è inarrestabile” è da sostenitori più che giornalisti. Si tace volutamente l’elemento di novità di questa consultazione: Donald Trump è riuscito a riportare migliaia di persone al voto delle primarie in un partito che sembrava in fin di vita, mentre nel campo democratico la generale disaffezione degli iscritti, dopo gli ultimi anni di presidenza dell’ormai opaco e amletico Obama, è stata a stento scossa dalla polemica anti Wall Street dell’”anziano socialista che piace ai giovani”, Bernie Sanders. Apprezzabile l’onestà intellettuale di Federico Rampini, di certo non un simpatizzante di Trump, che ha twittato “in calo ovunque la partecipazione dei democratici, mentre alle primarie repubblicane cresce dal 30% fino al 97%”. Lucia Annunziata confessa come la linea editoriale dell’Huffington Post fosse stata finora quella di derubricare Trump a fenomeno da baraccone del mondo dello spettacolo, togliendolo dalla pagina politica, onde poi dover chiedere alle redazioni estere in conference call di cambiare linea dopo aver capito che questo atteggiamento snob in Usa non faceva che favorire il tycoon. Basta avere occhi non bendati da interessi di parte per vedere le code di auto alle consultazioni repubblicane, i comitati che sorgono ovunque spontaneamente nel paese e le migliaia di giovani sostenitori che affollano il web e i social network. Una realtà che cresce quanto più Trump alza i toni della polemica e maggiormente folli e politicamente scorrette appaiono le proposte da lui comiziate con virulenza.

trump controTutti attaccano il miliardario a cominciare da Obama che ha tenuto recentemente un sermone da pastore battista sui toni troppo volgari e preoccupanti della campagna, sul linguaggio e la violenza di un “certo candidato”, mettendo in guardia dal dividere una nazione che già sta dimostrando una rabbia inattesa, per poi affermare esplicitamente che con le sue uscite Trump non potrebbe ricoprire l’incarico di Presidente. Ma sono proprio quelle uscite a farlo vincere. Come lo faranno avanzare elettoralmente i moti di indignazione politically correct di Cameron e del primo ministro francese Valls o la petizione online per proibire a Donald Trump di entrare in UK, a seguito dei suoi commenti anti-Islam, che ha raccolto in Gran Bretagna più di 200mila firme. Un tripudio di indignazioni e strilli da educande che lo rendono sempre più simpatico al suo popolo, galvanizzato ancor più dai recenti episodi di contestazioni e scontri fisici verificatisi prima o durante i recenti comizi del candidato. Mentre migliaia di persone erano in attesa che iniziasse il suo discorso all’Università dell’Illinois, un gruppo di manifestanti è riuscito ad entrare nell’arena, e dopo un incontro con la polizia locale Trump è stato costretto a rimandare il rally. L’annuncio è stato accolto con grida di gioia dai contestatori. «Abbiamo fermato Trump! Abbiamo fermato Trump!», hanno gridato. Quindi, rivolti ai sostenitori del magnate hanno attaccato: «Razzisti, tornatevene a casa!». «Vogliamo Trump, vogliamo Trump», hanno replicato i fan del candidato del Grand Old Party. Il bilancio degli incidenti, secondo i media statunitensi, è stato di sei feriti e almeno cinque persone arrestate. Dalla città degli Obama, la protesta si è poi allargata a macchia d’olio in altri due degli stati dove si è votato martedì. A St. Louis, in Missouri, durante le contestazioni che hanno accompagnato un comizio di Trump la polizia ha arrestato 31 persone con l’accusa di disturbo della quiete pubblica, e una di aggressione di terzo grado. Il magnate per tutta risposta ha schernito chi interrompeva il suo discorso alla Peabody Opera House dicendo: «A loro è permesso di bloccarci orribilmente e noi dobbiamo essere molto pacati, loro possono spingere e picchiare, ma se noi gli rispondiamo è terribile, vero?». Poi ha aggiunto: «Tornate a casa da mamma» e «andate a cercarvi un lavoro». Un altro dibattito è stato invece cancellato a Cincinnati, in Ohio, sempre a causa di problemi relativi alla sicurezza.
Agitatori spontanei o prezzolati che siano, lo scopo di queste iniziative è impedire l’attività del candidato associando ad ogni sua uscita pubblica un’immagine di violenza che porti a spaventare l’elettore e a farlo desistere dal votare questo terribile mostro estremista. Ma i più livorosi avversari di Donald Trump si trovano nello stato maggiore del partito repubblicano che sta facendo di tutto per fermarne la corsa. Jeb Bush lo definisce senza mezzi termini un “pazzo”, il neocon Robert Kagan ha dichiarato che Trump “è il mostro di Frankenstein dei repubblicani, adesso abbastanza forte da distruggere il partito”, mentre Mitt Romney ha fatto capire che stanno spulciando le dichiarazioni fiscali del miliardario alla ricerca di un pretesto per mandarlo a casa, ovviamente.
E si fa largo l’ipotesi di una convention repubblicana che in mancanza di una maggioranza netta di delegati a favore di Trump possa usare l’arma della “brokered convention”, non tenendo conto delle primarie e designando un altro candidato alle presidenziali (si era pensato tra gli altri a Paul Ryan), di fatto invalidando la consultazione. Lo riporta il Wall Street Journal. Si tratterebbe di un caso che non si verifica da prima dell’invenzione della televisione a colori, quando internet era fantascienza. L’ipotesi è remota ma indicativa dello stato psicologico dei vertici del Gop. “Davvero – ha detto Newt Gingrich un vecchio esperto del partito repubblicano che sta sulla breccia da trent’anni – quattro gatti che stanno a Washington pensano di ignorare la scelta di milioni di elettori repubblicani e perdere così qualunque contatto con la nazione? Davvero, come teorizza il neocon Bill Kristol, scimmiottato da piccoli teocon del mondo, si possono prendere i risultati delle primarie e buttarli nell’immondizia? Con risultati come questi, e con l’umiliazione cocente toccata al pupillo Rubio, bruciato per sempre, pensano di orchestrare una convention farlocca? Basta con questa follia – avverte Gingrich – non li vedete i sondaggi che confermano la ribellione al partito, considerato un nemico?”. In un’intervista alla Cnn Trump si dice sicuro che raggiungerà l’obiettivo dei 1237 delegati per essere il candidato repubblicano prima della convention di luglio e avverte il partito repubblicano: “ci saranno scontri” se dovesse conquistare il numero dei delegati per ottenere la nomination e il partito dovesse nonostante ciò negarla.
Al di là di queste spacconerie tipiche del personaggio nell’asprezza di questo incredibile scontro c’è tutta la crisi dei vecchi partiti che avendo accompagnato la trasformazione sociale terribile avvenuta in Occidente da trent’anni a questa parte ora non comprendono più le esigenze della società che hanno contribuito a creare. La classe media bianca americana, che sempre si è sentita la maggioranza della nazione, è allo sbando, non solo economicamente, soprattutto culturalmente, nell’identità, e si rivolge a chi sembra incarnare la sua esasperazione. Ciò accade anche a sinistra dove il migliore interprete di questo sentimento è Sanders e non la Clinton, in quanto il primo cammina nel solco delle proteste del movimento “Occupy Wall Street” nate allo scoppio della crisi del 2007-2008. Ha scritto il NYTimes “se questi candidati (Trump e Sanders) hanno un’attrattiva è perché negli ultimi decenni le nostre élite politiche hanno deciso che la classe media bianca non ha alcun ruolo da giocare nel futuro multiculturale e globalizzato che immaginano, un futuro che credono di guidare. Questa stagione di primarie mostrerà se hanno ragione oppure no”. É esattamente ciò che accade in Europa dove i vecchi partiti hanno abbandonato i popoli per anni – classe media impoverita dalla crisi e operai posti in mobilità da fabbriche che vengono delocalizzate – per inseguire i progetti globali e multietnici della finanza mentre in televisione i politici di quei partiti, maggiordomi di banche e multinazionali, ora cercano di distrarre l’opinione pubblica con il giochetto di prestigio dei diritti civili e delle nozze gay. Il boomerang di questo immane tradimento sta tornando indietro alla classe politica in tutto l’Occidente. Tutto qui. Il populismo montante è l’autodifesa della nazione intesa come popolo. Dati gli elementi oggettivi di crisi del modello economico sociale creato in questi anni di globalizzazione questa autodifesa è destinata ad essere la cifra politica dei prossimi anni. Chi ne interpreta le istanze, come sta facendo Trump, è destinato ad avere consenso. Per questo a Roma Salvini sta mollando Berlusconi, che ora ha il ruolo di stampella politica e mediatica di Renzi. Salvini vuole porsi nella posizione dove si coglie il vento, cioè il più lontano possibile da Renzi e dal suo probabile tracollo.
Per lo stesso motivo il linguaggio della Clinton oggi è vecchio e non fa più presa su una parte consistente dell’elettorato americano che si sente tradito da Washington. Una moltitudine umana che Hillary preferirebbe non votasse ma che ormai ha trovato il proprio inarrestabile tribuno. Un tribuno che in tutti i suoi interventi parla alla gente della grande questione dello spostamento del lavoro americano verso i paesi emergenti, Cina in testa, dove migliaia di fabbriche statunitensi hanno piazzato i propri insediamenti produttivi cancellando in patria in pochi anni e alla velocità della luce, posti di lavoro, stipendi, ruoli sociali e identità in nome del profitto di pochi interessati cantori del libero scambio. Che propone barriere protezionistiche in difesa dell’economia nazionale e della classe media ma anche barriere fisiche per proteggere i lavoratori americani dalla concorrenza dell’”esercito industriale di riserva” costituito dai lavoratori ispanici, affamati nelle loro terre di origine da quelle stesse multinazionali che alla fine si avvantaggiano della loro migrazione. Tutto questo il miliardario con il riporto in testa lo sa bene perché si muove da sempre nel mondo del business ma, al contrario della Clinton pagata da George Soros e della Merkel pagata da Volkswagen e Deutsche Bank, lui può dirlo perché è pagato da sé stesso. Per questo è pericoloso.
I preoccupatissimi dirigenti repubblicani, crollati i loro beniamini Bush e Rubio, non potranno certo aggrapparsi al secondo arrivato Ted Cruz, altro paria impresentabile e forse molto peggiore di Trump. All’inizio della campagna Cruz, un “battista del Sud” cioè un protestante fondamentalista, aveva organizzato un paio di uscite pubbliche con un pastore che predicava la pena di morte per gli omosessuali, poi ha capito che era meglio lasciarlo a casa, come del resto suo padre, che definisce il figlio l’Unto del Signore. Celebre il video in cui Cruz cuoce fette di pancetta arrotolandole sulla canna di un mitragliatore automatico, sparando su una sagoma di cartone per riscaldare l’improbabile “forno a canna” (un uso in voga nei poligoni del Texas). E noi ci lamentiamo di Borghezio? Con un tipo così i repubblicani si vedranno forse costretti a scendere a patti con Trump, grande comunicatore, aggressivo nei dibattiti quanto serve – si è allenato nel suo talent “The Apprentice” ad interrompere ed umiliare l’interlocutore. Insomma una perfetta belva da Colosseo da scatenare contro la navigata tigre Hillary, la quale però vanta un Kissinger come consigliere. Il manifesto clou della campagna Clinton è un faccione di Trump colpito da un pugno, accompagnato dalla scritta “colpiscilo per bene”. Mettetevi comodi dunque, lo spettacolo “Elezioni Usa 2016” è appena cominciato…e stavolta promette di dare grandi soddisfazioni!

LA POLITICA ESTERA, QUESTA SCONOSCIUTA

di Gaetano Sebastiani

Fateci caso. Nel nostro Paese, i dibattiti su questioni di politica estera sono una rarità. Durante i tiggì, ad esempio, gli “esteri” sono spesso piazzati a fine trasmissione e occupano uno spazio esiguo (inferiore persino al gossip); nei programmi di approfondimento, in prima e seconda serata, è difficile imbattersi in una discussione sul ruolo dell’Italia nel mondo; per non parlare dei principali quotidiani, dove l’ampiezza massima dello sguardo internazionale si raggiunge con le pseudo-beghe tra Renzi e l’Europa. A parte le riviste specializzate e qualche esperto che sulla rete si impegna ad allargare l’orizzonte dell’utente medio, non c’è molta carne al fuoco. E da questo quadretto mortificante non va esclusa la nostra cara classe politica che contribuisce con approccio provincialotto ad aumentare il livello di inconsapevolezza delle masse.
Proprio dalla politica, invece, ci si aspetterebbe una maggiore attenzione alle questioni estere, perchè nel contesto globalizzato e globalizzante in cui viviamo conoscere e capire i movimenti degli altri paesi sullo scacchiere internazionale significa determinare in maniera considerevole la propria azione interna. Significa, cioè, organizzare in maniera più conscia una strategia geopolitica sulla base dell’interesse nazionale che consenta alla forza politica che la esprime di dare un senso di maggiore compiutezza alla propria weltanschauung.
In Italia, partiti che abbiano compreso l’importanza di questo principio pare non ve ne siano. Non suscita alcuno stupore l’applicazione di questa considerazione alla principale forza di governo. Osservando il comportamento dell’esecutivo, infatti, sembra che la strategia geopolitica di cui sopra non venga elaborata al proprio interno, ma pare dettata direttamente da Washington. Non è un caso che tra le amicizie stars and stripes più prestigiose di Matteo Renzi ci sia un certo Michael Ledeen, uno dei massimi pontefici del Nuovo Ordine Mondiale. La decisione di prendere parte alle sanzioni contro la Russia – nonostante il prevedibile danno a moltissime imprese italiane -, così come i più recenti accordi con i nostri “partner strategici” sull’utilizzo della base di Sigonella sono due esempi di appiattimento totale sugli interessi americani. Per non parlare della doppiezza (o meglio sarebbe dire mollezza) con cui si fronteggia l’influenza sempre più schiacciante della Germania sulle sorti europee. Tutto ciò nulla ha a che vedere con il frutto di una ragionata strategia nazionale in politica estera.
Maggiore perplessità suscita, invece, l’assenza di una coerente visione sul mondo da parte delle principali forze di opposizione. Il non avere responsabilità di governo e dunque il non essere sottoposti alla pressione dei poteri dominanti, dovrebbe consentire a Lega e M5S di avere mani libere su questo tema. Ma in questo, come per altri casi, alla nomea di forza “populista” non corrisponde un’altrettanto prorompente strategia geopolitica.
La Lega, ad esempio, aveva inaugurato la sua fase salviniana con un confortante attacco alle istituzioni europee ed alla moneta unica in particolare, seguito da un ottimo riscontro elettorale durante le ultime consultazioni per il rinnovo del parlamento di Bruxelles. Ma quella spinta propulsiva (corroborata da una piattaforma studiata con l’apporto di importanti economisti quali Borghi e Bagnai) è andata via via scemando a causa di un’attenzione eccessiva nei confronti del fenomeno migratorio. Non si discute la portata del problema, dunque ben venga un monitoraggio costante su di esso, ma spesso il Carroccio lo ha affrontato sulla base di considerazioni demagogiche, allineate ad una vulgata occidentalista molto utile al mantenimento dello status quo. Come con l’episodio della visita del presidente iraniano Rohani: le dichiarazioni del leader padano entrarono immediatamente in sintonia con i tipici motivetti del pensiero unico…
Alla Lega va riconosciuto, quanto meno, il merito di aver criticato le sanzioni contro la Russia, ma l’opposizione a tali decisioni scriteriate è stata sempre espressa sulla base di considerazioni di convenienza economica nazionale, senza sottolinearne il valore politico. Sarebbe stato opportuno riconoscere nelle sanzioni un attacco a Putin ed alla sua strategia sovranista da un lato e dall’altro l’ennesimo segnale di asservimento degli stati europei alle logiche mondialiste americane.
Discorso a parte merita il M5S. Sulla politica estera il movimento fondato da Grillo non ha quasi mai esplicitato delle posizioni nette e chiare. Soprattutto non è mai emersa una visione organica sul ruolo che un’Italia a guida pentastellata avrebbe nel mondo. Alcune contraddizioni in questo senso sono emerse già all’epoca delle elezioni europee, quando il tema della moneta unica fu lasciato nelle mani di Salvini, con i risultati che tutti conosciamo. Si è cercato di recuperare terreno con la proposta del referendum per l’uscita dall’euro, ma tale progetto ancorchè avesse un valore meramente simbolico non ha avuto alcun seguito concreto e rimane uno dei tanti “vorrei ma non posso” del movimento.
Come la posizione nei confronti della NATO. Neanche il pur lodevole convegno organizzato in parlamento a fine gennaio sul ruolo odierno di questa organizzazione internazionale ha chiarito in maniera definitiva la posizione dei pentastellati, i quali oscillano tra critiche di tipo pacifista e considerazioni di opportunità tattica. E ancora, sarebbe interessante scoprire quali frutti stia portando la discussa alleanza con Farage in Europa. I cinque stelle sono a favore di un ritorno ad una maggiore sovranità nazionale, come il leader di UKIP coerentemente professa da sempre, oppure le istituzioni europee vanno preservate perchè indietro non si torna? E con la Russia che si fa? Le si riconosce un ruolo di grande attore sullo scenario internazionale, o va ridimensionato, o peggio marginalizzato perchè non si adegua ai “valori occidentali”?
L’odierno quadro internazionale, in continua evoluzione (o se volete, involuzione), ricco di colpi di scena, ambiguità e disastri, imporrebbe ad una forza politica radicalmente alternativa alla desolazione imperante l’elaborazione di un piano d’azione capace di stabilire in maniera inequivocaile la collocazione del nostro Paese nel mondo e farlo uscire dall’abisso in cui è precipitato insieme a tutta la civiltà occidentale.
Sarebbe opportuno fondare questa strategia su quattro pilastri fondamentali: uscita dall’euro, uscita dall’Europa, uscita dalla NATO ed infine, alleanza politico-economica con la Russia e con tutti gli altri Paesi continentali che propugnano una visione sovranista. A quanti altri attacchi terroristici dobbiamo assistere, quante altre crisi finanziarie e false riprese dovremo vivere, quanti altri furti di sovranità dovremo subire, quanta omologazione spirituale, culturale, identitaria dovremo ingurgitare, prima di riprendere in mano il nostro destino?

CHIESA:”SU REGENI INFORMAZIONE GESTITA DA MANIGOLDI”

di Marcello D’Addabbo

“La Storia attraverso le Storie: passato, presente e scenari futuri dell’Europa”, questo il titolo dell’incontro promosso dal Liceo Linguistico “European language school” di Bitonto, nella splendida cornice del Teatro Traetta. Protagonista: Giulietto Chiesa, giornalista esperto di geopolitica internazionale e direttore di Pandora Tv. Una panoramica completa sugli scenari internazionali, economici e politici, la guerra in Siria, l’attuale crisi finanziaria, il terrorismo e il destino dell’informazione.

Giulietto Chiesa, il barbaro assassinio di Giulio Regeni è legato alle attività che lo stesso svolgeva al Cairo o si deve guardare ad un contesto internazionale più vasto interessato a rovinare i rapporti tra Italia ed Egitto?

Propendo per la seconda ipotesi, si tratta di un assassinio politico. Non credo alle tesi diffuse in questi giorni o ad una vicenda di carattere personale, lo hanno ammazzato perché serviva ad inquinare i rapporti con l’Egitto.

Cui prodest?

L’Egitto non piace ad una parte dell’Occidente perché si è schierato con la Russia e perché sta svolgendo un ruolo di riequilibrio tutto sommato positivo. Non sto dando un giudizio sulle qualità democratiche, parlo da osservatore politico. Penso che questo omicidio sia servito ad ottenere l’effetto che poi nei fatti si è realizzato, tutto il coro mediatico si è scagliato contro il dittatore Al Sisi.

Da chi è composto il coro?

Dagli stessi che strillavano contro il dittatore Saddam che non aveva le armi di distruzione di massa o contro Gheddafi che è stato letteralmente massacrato perché ostacolava gli interessi dell’Occidente, gli stessi che oggi urlano contro il dittatore Putin. Sulla mia pagina facebook ho postato questa riflessione, noi abbiamo avuto due assassini politici, quello di Vittorio Arrigoni e ora Giulio Regeni, nel primo caso tutti hanno taciuto perché era piuttosto evidente chi fosse il mandante o se non era evidente si poteva facilmente intravedere.

Anche perché geograficamente molto vicino al luogo del delitto…

Infatti. Un quadro evidente ma in quel caso non se ne poteva parlare. Nel caso di Regeni invece siamo di fronte ad una descrizione ridicola dell’accaduto perché prima di dichiarare la colpa di chiunque, se si vuole essere non dico garantisti ma almeno decentemente giornalisti, si aspettano i risultati delle indagini in corso e non si trasformano mere opinioni in titoli di giornali sparati sulle principali testate. Invece il modo di procedere è opposto: accusano, pubblicano senza verificare niente, poi quando vengono smentiti dai fatti non rettificano. Purtroppo gli organi di comunicazione in Italia sono in mano ad un gruppo di manigoldi che non si occupano mai di controllare quello che scrivono.

Tornando al quadro internazionale, dai colloqui di Monaco tra Kerry e Lavrov sembra raggiunto un accordo sul cessate il fuoco in Siria. La situazione ricorda un po’ la fine della guerra tra Iran e Iraq nel 1988 quando, ad un passo da una vittoria schiacciante su Saddam, l’Ayatollah Khomeyni fu indotto – come affermò pubblicamente – “ a bere l’amaro calice della tregua”. Putin berrà l’amaro calice ad un passo dalla liberazione di Aleppo?

La Russia non berrà nessun amaro calice perché sta vincendo. La tregua la vuole la Russia che infatti ha proposto il negoziato di Ginevra, i russi non sono in Siria per restarci ma per demolire Daesh e poi andarsene.

Nessun intervento di terra, quindi…

Non metteranno piede sul campo, questo posso dirlo con assoluta certezza, nei loro piani non c’è un solo soldato russo a combattere sul territorio né ci sarà in futuro.

E il confronto con l’Occidente?

La Russia ha interesse a che il conflitto siriano si concluda ed è ovvio che per raggiungere questo risultato bisogna realisticamente tenere conto delle forze in campo. Tuttavia “l’amaro calice” temo che dovrà berlo l’Occidente perché Bashar al-Assad rimarrà al potere in Siria. Pensare che Putin abbandoni la Siria ai piani di al-Qaeda e dell’Arabia Saudita è una pura illusione.

C’è stata da parte americana ed europea una sottovalutazione del potenziale militare messo in campo dalla Russia in questa crisi?

Non hanno capito che la Russia ha cambiato il quadro militare e politico del medio oriente. Sono rimasti letteralmente sconcertati dai 26 missili di precisione partiti dalla flotta russa nel Caspio e giunti dritti al bersaglio di Daesh attraversando due nazioni, Iran e Iraq. I servizi americani non si sono accorti che questa operazione è stata il frutto di mesi e mesi di preparazione in accordo con gli iraniani. Putin glielo ha dovuto spiegare. Se l’Occidente continua a credere o a fingere che la Russia sia un bluff si farà solo del male.

Negli Usa è in corso il consueto confronto mediatico delle primarie, una vittoria finale dei repubblicani cambierà i rapporti tra Stati Uniti e Russia?

Se la scelta è tra Hillary e Trump preferisco quest’ultimo. Perché Trump è un cialtrone mentre Hillary Clinton è una persona pericolosa. Concordo pienamente con ciò che ha dichiarato Julian Assange, con la Clinton alla Casa Bianca c’è la certezza di vedere nuove guerre, la più pericolosa in campo è certamente lei. Sanders è a mio avviso il candidato migliore. Per quanto i presidenti americani non contino nulla e in quel sistema conta soprattutto chi li paga, il ruolo della personalità nella storia esiste pertanto mi auguro davvero una sua vittoria. Se Sanders non dovesse farcela nel campo democratico meglio comunque Trump della Clinton.