IL SOVRANISMO QUALE VETTORE DI UN NUOVO ASSETTO EUROPEO

di Gaetano Sebastiani

Se c’è un concetto politico che negli ultimi anni ha pian piano acquisito sempre più peso nel dibattito pubblico quello è sicuramente il sovranismo. Nell’epoca in cui “la fine della storia” avrebbe dovuto consegnarci ad un mondo puramente teleologico, ecco che questa idea (lungi ancora dal divenire una ideologia compiuta e coerente) si presenta in tutta la sua fresca vitalità per smentire i cantori dell’andamento unidirezionale ed omologante dei processi politici.
I più critici considerano il sovranismo la maschera di un volto sulfureo che volge lo sguardo ad episodi storici novecenteschi da relegare nell’oblio del passato. Certamente, si possono rintracciare legami con tempi trascorsi. Ma quelli a cui i detrattori fanno riferimento servono solo a demonizzarne l’essenza, come se questa operazione da sola potesse arrestarne la diffusione. Le radici del sovranismo, a nostro avviso, vanno sì collocate nel passato, ma non in quello recente. È nel 1648, con gli accordi di Westfalia, che il nucleo moderno di questa idea vede la luce. Devastata da un conflitto trentennale, l’Europa dell’epoca pose fine ad una guerra fratricida stabilendo, tra gli altri principi, quello di mantenere l’equilibrio delle potenze ridisegnate secondo gli esiti post-bellici e soprattutto, il rispetto assoluto delle sovranità nazionali. Nasceva “la ragion di Stato” e, insieme ad essa, il principio della non-ingerenza che, con alterne fortune, avrebbe ispirato la politica continentale dei secoli successivi fino al ‘900, quando le forze internazionaliste avrebbero occupato definitivamente il palcoscenico per avviare la globalizzazione che tutti noi conosciamo.
Tracciare questo sintetico excursus serve per ricordare che l’idea di sovranità è qualcosa di fortemente connaturato all’identità europea. I sostenitori del mondialismo che, con la puzza sotto il naso, collocano fuori dal tempo la reazione a questo processo – quasi fosse una barbarie – dovrebbero rifare i conti con il passato ancora pulsante del nostro continente. Oggi, il sovranismo è soprattutto una funzione. È l’argine contro le spinte globalizzatrici ed omologanti del divenire moderno. È il tentativo di recuperare quelle porzioni di potere nazionale maldestramente sacrificate sull’altare di entità extra-statali che svuotano di senso il naturale vivere comunitario. Per certi versi, il sovranismo è la versione più evoluta del nazionalismo novecentesco, in quanto conscio delle sfide dei tempi correnti, poichè se da un lato attribuisce alla ragion di Stato il peso che tale principio merita, dall’altro vede negli altri Stati non più un rivale da aggredire, ma un supporto per costruire una struttura geopolitica multipolare, che metta definitivamente in crisi e superi l’attuale modello a trazione occidentale.
Per quanto paradossale possa sembrare – poichè in antitesi con gli esiti più parossistici del succitato nazionalismo del “secolo breve” -, il sovranismo è, ad ora, il principale portabandiera della pace e della stabilità globali. Nei governanti che si ispirano a tale modello, infatti, non vi è alcun interesse nel sovvertire gli ordinamenti “altri”, nè imporre il proprio sistema di valori con assurde guerre “umanitarie”. Tutto quello che si richiede è il reciproco rispetto della sovranità ed una comune condivisione di tale prospettiva in ottica internazionale.
Le dichiarazioni del presidente Putin, in occasione dell’ottavo meeting dei paesi BRICS tenutosi il 15 e 16 ottobre scorsi a Goa, si muovono proprio in questa direzione. Durante l’incontro, volontariamente e colpevolmente ignorato dai media di regime, il leader russo ha ribadito la comune preferenza dei Cinque circa una risoluzione politico-diplomatica dei principali conflitti internazionali, rigettando qualsiasi forma di violazione della sovranità degli altri Stati. L’esatto opposto delle forze mondializzatrici. Interventisti infarciti di filantropia ipocrita e a fasi alterne (vedi la retorica sui diritti umani), sorretti da una ideologia feroce volta ad occidentalizzare e “democraticizzare” a tutti i costi il resto del globo, impegnati a raggiungere la pace tramite missili telecomandati da remoto, questi agenti patogeni schierati per il cancro chiamato New World Order stanno gettando nel caos più completo interi popoli, provocando una destabilizzazione del quadro geopolitico internazionale impressionante.
Sarebbe troppo facile individuare nei soli USA gli artefici di questo processo fintamente irreversibile. Di certo, la centrale degli sconquassi degli ultimi vent’anni si può collocare oltre oceano, ma è anche grazie al meccanico collaborazionismo dell’Europa che gli effetti di queste scosse stanno producendo i maggiori danni. Esattamente perchè la patria del principio sovrano – il nostro continente, appunto – ha rinunciato a seguire la propria, autonoma via nel solco di quella visione. Si è lasciata lentamente ed inesorabilmente divorare dal verme del servilismo e della dipendenza nel nome di una fedeltà occidentale che non lascia spazio alla libertà d’azione.
La conseguenza fondamentale di un tale approccio miope è la perdita di vista del ruolo ordinatore e stabilizzatore per il mondo intero di un’Europa finalmente sovrana. Se gli Stati nazionali indossassero gli occhiali della storia presente scorgerebbero i limiti del globalismo e la fine desolante a cui sono destinati i loro rispettivi popoli. È proprio casuale questo clima di costante escalation a cui assistiamo ormai quotidianamente? I venti di guerra che spirano dall’estremo occidente (perché è lì che non si accettano assetti diversi da quelli fino ad ora conosciuti) non sono il frutto di un sistema mondializzante ormai sclerotico?
Se oggi, dunque, è facilmente possibile individuare gli elementi eversivi, è altrettanto agevole indicare le giuste contromisure per porre rimedio al disordine. Il sovranismo può costituire il reale vettore per un nuovo assetto europeo (e conseguentemente mondiale). Un’impalcatura agile e funzionale dove gli Stati nazionali continentali riprendono la loro dignità ed operano in comune nel reciproco rispetto delle proprie esistenze. Rinunciano a porzioni di sovranità solo in vista di un progetto confederale finalizzato ad ottenere maggiore peso specifico nella sfide globali e non per soddisfare sogni distopici di unioni al sapore di soviet. Si liberano degli agenti internazionalisti in tutte le loro forme: Nato, ONG guidate da oscuri magnati, istituzioni finanziarie e politiche votate al depauperamento delle identità storiche, culturali ed economiche. Creano alleanze strategiche con paesi contigui (vedi la Russia) che possono offrire migliori prospettive di prosperità, non solo dal punto di vista economico.
Per conseguire tutto questo senza traumi non necessari serve uno scatto di coscienza, un moto interno di indipendenza e libertà. Chissà che un primo balzo in questa direzione non arrivi prossimamente, proprio da quel paese che con ogni energia ha corroso il principio altrui di sovranità…

Tra mondialisti e westfaliani, aspettando l’Europa

usacinarussiaimago

Non sappiamo se in Cina, sui banchi di scuola, si studi la Pace di Westfalia del 1648, quella che pose termine alla guerra dei Trent’anni e inaugurò un nuovo ordine internazionale, basato sul mutuo riconoscimento fra stati sovrani. Eppure si dovrebbe perché proprio quel principio, lì sancito, potrebbe essere posto alla base di una eventuale alleanza fra tutti i paesi non allineati sul fronte dell’egemonia americana. All’opposto dell’accordo westfaliano, infatti, c’è l’idea mondialista, ‘wilsoniana’, di un ordine globale imperniato su libertà mercantili e diritti (leggi ‘sradicamento dell’uomo’), con gli Stati Uniti nel ruolo, più esteriore, di arbitri e giudici, a tutto campo, delle altrui vite e vicende.

Inutile dilungarsi sulla parzialità del controllore e sulla discrezionalità dei giudizi, ormai nota a tutti. Più interessante è ragionare sulla contrapposizione dei modelli. Perché se il secondo è il frutto di una strategia elaborata e pianificata, l’approdo, ormai declinante, di una lunga rincorsa, il primo è (ri)sorto spontaneo con il risveglio della Russia dopo le nebbie alcoliche dell’era Eltsin. Avendone rilanciato il ruolo di potenza che pretende per sé, e i propri alleati, la necessaria libertà di manovra, Putin si è ritrovato ad essere, come giustamente è stato scritto, “il garante di Westfalia”. Cioè colui che esige ed afferma il principio di “sovranità” in un contesto in cui, invece, si pretende che ogni passo sia conforme alle pretese dei molteplici attori del mondialismo. E, quando così non è, bruciano le polveri della “guerra per interposta persona”, con ribelli armati, fondamentalisti religiosi, femministe a seno nudo, blogger prezzolati, attivisti di ogni sorta e intellettuali di tutte le risme convocati, in gran fretta, per fare in modo che l’eretico di turno sia rovesciato immediatamente fra gli applausi del mondo.

Fin qui è storia nota. Ciò che inizia a rendersi evidente è che il principio di sovranità non è più una pretesa esclusivamente russa. Rimasta apparentemente ai margini di ogni contesa, anche la Cina è posizionata sugli stessi orientamenti e la crisi ucraina sta avendo l’effetto di spingere Mosca ad abbracciare Pechino, riconoscendo nel vicino di casa un interlocutore “di fatto”. In realtà, Russia e Cina – diversamente da quanto molti immaginano – non sono alleati naturali: a dividerli, fra le altre questioni, c’è il gigantesco problema della “Siberia cinese” cioè dell’invasione mandarina in una terra liminare, ricca di risorse, in cui, fra qualche tempo, non si parlerà quasi più russo. Ma questa sarà questione di domani. Oggi bisogna fermare Washington e tutti i marionettisti nascosti nell’ampio cilindro dello Zio Sam. E quindi via con le grandi manovre di avvicinamento, con la prima trasferta da presidente di Xi Jinping proprio a Mosca, e con la conta dei futuri nuovi sodali: India, Brasile, Sudafrica, Messico, Nigeria, Indonesia. “Sebbene tali potenze emergenti – scrive su Limes Eva Hulsman Knoll – non abbiano quasi nulla in comune, esse condividono un forte spirito nazionalistico e percepiscono l’attuale ordine internazionale come funzionale agli interessi delle ex potenze occidentali”. E, quindi, tutti dentro.

Ora, sebbene possa essere naturale entusiasmarsi per questo inedito fronte in rivolta, è bene considerare tre cose. La prima è che questi paesi propongono un modello esattamente identico a quello americano, solo colorato in altro modo. La nuova gioventù metropolitana di Pechino che mangia pollo fritto, beve Coca-Cola, veste all’occidentale, siede nei cda delle grandi imprese e specula in borsa, forse non prenderà ordini dai Rothschild, ma non offre una alternativa migliore. Si distingue solo la Russia, come testimoniato dal notevole discorso di Putin al Club Valdai, ma il resto è noia crepuscolare da cui tenersi alla larga. La seconda è che la presenza di un nemico, uguale e contrario, potrebbe essere, per il fronte mondialista, perfino un regalo della Provvidenza nella misura in cui un avversario, che non contesta il ‘sistema’ ma solo i rapporti di forza all’interno dello stesso, risolve in definitiva un bel po’ di guai consentendo di rilanciare il gioco oltre la sua fisiologica estinzione.

La terza osservazione, la più importante, è che rispolverare il mito di Westfalia non è la risposta a tutto questo: il nazionalismo rancoroso ed isolazionista, che si accartoccia in cortile e vive per difendere due gocce di petrolio trovate in cantina, è la mortificazione di ciò che può condurre alla edificazione di una Civiltà, in nulla debitrice a quella vigente e orientata su principi altri. La Russia, incapace storicamente di proiettarsi al di fuori dei confini della Federazione, non riuscirà a costruire l’alternativa nonostante la felice marcia del suo leader. Per questo serve che si risvegli l’Europa. Dispiace per chi ha già il colbacco in testa, ma i cosacchi non verranno a salvarci.