DA MONTI UN “Sì” PRO-PALESTINA: perché?

palestina-bandiera.jpg_415368877Esiste una spiegazione per tutto, anche per l’inspiegabile. E la si può rintracciare facilmente a patto di ricordare che tutto quello che si vede non è mai tutto quello che c’è.

C’è una domanda che non ha ancora trovato una soddisfacente risposta: perché l’Italia di Monti e Terzi – legata ad Israele a doppio filo e già autrice di scelte contrarie all’interesse nazionale (ad esempio l’embargo all’Iran) in nome della fedeltà all’alleato – ha deciso di optare per l’assenso al cambiamento di status della Autorità Nazionale Palestinese presso le Nazioni Unite? Grazie anche al contributo italiano, l’Anp, fino a qualche giorno fa mera “entità invitata”, si ritrova “paese osservatore” con la possibilità di trascinare Israele di fronte alla Corte Penale Internazionale (CPI).

Il passaggio è epocale, anche se Monti ha tentato di sostenere il contrario con discutibili acrobazie lessicali, e la reazione israeliana contro Roma non si è fatta attendere: “una delusione molto grande”, “ora cambierà qualcosa nei rapporti”, “gli amici devono parlar chiaro”, fino al tragicomico “ridateci Berlusconi!” sono i mantra più in voga a Tel Aviv. Di fatto, si è consumata una frattura, diplomaticamente rilevante, anche perché gli israeliani, che assumono come priorità le questioni di sicurezza, non sono interlocutori con cui sia possibile operare ricami ed equilibrismi. Ogni posizionamento non gradito è letto come uno schiaffo, un affronto, un oltraggio. Monti e Terzi lo sanno benissimo. E, allora, perché?

Le motivazioni riportate a rotazione dai media mainstream sono le seguenti: era un passo necessario sulla via della pace, è servito ad isolare Hamas, è stata una punizione per le recenti violenze a Gaza, Napolitano ha voluto fare qualcosa di sinistra, l’Italia ha recuperato l’antica tradizione filoaraba di Craxi e Andreotti (!), sono stati Bersani e la Camusso, con il loro appello, a dirottare il governo. È forse pleonastico sottolineare l’inconsistenza di queste ragioni ed anche la prima, che pareva la più accreditata, è stata subito smentita dai fatti. Peraltro, fino a sette giorni prima del voto, l’Italia era ben sicura di astenersi e Tel Aviv considerava tale volontà una delle poche, acclarate certezze. Poi è successo qualcosa. Ma cosa?

“Il tutto è avvenuto mercoledì notte quando è parso chiaro che gli Usa lasciavano volentieri agli europei la possibilità di sganciarsi” scrive Francesco Battistini sul Corriere della Sera. È  la notizia che mancava. Ovunque, infatti, è passato il messaggio che Washington avesse esercitato una pressione enorme ed incessante sui partner europei affinché si allineassero su posizioni atlantiche. E la successiva sconfitta diplomatica in sede Onu era stata letta, coerentemente, come la prova definitiva del decadimento di un impero morente. A quanto pare le cose non sono andate così: gli Stati Uniti hanno volontariamente liberato gli europei da ogni obbligo, ben consapevoli dell’effetto domino di tale mossa. Osando, ma non troppo, si potrebbe ipotizzare che Obama, dopo aver concesso libertà di coscienza, si sia segretamente speso in senso inverso, cioè a favore di un voto positivo. Ancora una volta, s’impone la domanda: perché?

Un passo indietro è d’obbligo: esiste una malcelata guerra, attualmente in corso, fra due distinte fazioni dell’establishment americano. Da una parte i sopravvissuti della “rivoluzione neocon”, quella di cui George W. Bush è stato il frontman anni or sono, affezionati al sogno dell’America sola al comando, pronti ad affrontare con durezza la situazione siriana e la futura questione iraniana, disposti a servirsi ancora dei jihadisti, dichiaratamente favorevoli ad assecondare Israele nel suo espansionismo territoriale. Sono quelli che avevano puntato tutto su Romney e che, ora, prima di essere liquidati, rilanciano la centralità della vecchia dottrina. Dall’altra parte, c’è la compagine obamiana con, in mente, una nuova linea di politica estera, ben illustrata dall’analista Thierry Messan: il gigante americano è fragile, economicamente ed a livello di immagine, e non può permettersi, almeno al momento, di governare il pianeta in solitaria. Bisogna quindi dialogare con russi e cinesi (tentando contemporaneamente di separarli) e decongestionare l’area mediorientale, tagliando i ponti con l’Arabia Saudita, trovando un accordo con Assad e riconoscendo l’Iran come potenza territoriale. La probabile ascesa del senatore John Kerry, gradito a Mosca e amico personale di Assad, è da leggersi in questa chiave. Così come il rapporto del Pentagono “Decade of War” in cui i militari sottolineano l’insostenibilità delle campagne in corso ed invitano al dialogo col nemico,  nonché i recenti episodi, dal caso Stevens a quello Petraeus, tutti inseribili in questo conflitto interno all’oligarchia. I più accorti ricorderanno il fuori-onda fra Obama e Medvedev: “Dopo la rielezione – sostenne il primo – sarò più flessibile”. Il nuovo corso, appunto.

Attenzione, però, a non scambiare Obama per quello che non è: l’arretramento temporaneo dell’impero è infatti una questione tattica, strumentale, opportunistica. Non ci sono rinsavimenti ideologici e nemmeno volontà di scendere dal podio, solo un necessario “realismo” che però incontra in Israele l’ostacolo maggiore. E dunque si rivela necessario contenere gli israeliani, ed in particolare il premier Netanyahu, nelle loro sortite più audaci. Gli Stati Uniti, per ovvie ragioni, non possono procedere a brutto muso e, allora, Obama ha delegato il compito all’Europa. Esattamente come negli scacchi, vanno avanti i pedoni. E così, subito dopo il voto, a fronte della volontà israeliana diedificare centinaia di nuove unità abitative nella zona E1 di Gerusalemme e in Cisgiordania, le cancellerie europee hanno reagito con inusitata durezza: numerosi paesi, fra cui l’Italia, hanno convocato gli ambasciatori israeliani e, addirittura, è trapelata la voce che Francia e Inghilterra fossero pronte a richiamare i propri rappresentanti a Tel Aviv. Perfino la Germania, astenutasi dal voto sulla Palestina, ha richiesto una chiarificazione condendola con avvertimenti e velate minacce. E, per ora, Israele è chiuso nell’angolo.

* pubblicato su barbadillo.it

PUTIN: “LE ONG SONO AGENTI STRANIERI”. E la verità divenne legge.

“L’ovvio – ha scritto Kahail Gibran – è ciò che non si vede mai, finché qualcuno non lo esprime con semplicità”. 

Il proposito è diventato legge: in Russia tutte le Organizzazioni non governative (ONG) che ricevono finanziamenti dall’estero sono tenute ad auto-qualificarsi, giuridicamente, come “agenti stranieri”. Pena, l’immediata chiusura e la condanna a due anni di detenzione per i loro dirigenti. Il provvedimento, fortemente voluto dal presidente Vladimir Putin, obbedisce ad una precisa logica politica: smascherare il ruolo operativo esercitato da presunte organizzazioni filantropiche che, dietro la patina zuccherosa delle libertà e dei diritti, incarnano sovente il motore delle eterodirette rivoluzioni “arancioni”, quelle tese a rovesciare i governi degli stati scomodi sobillando in modo pretestuoso l’agitazione interna.

È, questa, la dottrina di Obama o, più precisamente, quella dello stratega Zbigniew Brzezinski che da sempre invita la Casa Bianca a concentrarsi sugli avversari più ingombranti, too big to be attacked, troppo grandi per essere attaccati, ma sabotabili attraverso la propaganda dai diritti, iniziando dai paesi limitrofi. Niente droni, contingenti Nato o bombe intelligenti, bensì la collaudata e sovvenzionata filastrocca in difesa della minoranza di turno, utile ad incendiare l’animo di qualche indigeno culturalmente cresciuto a pane ed Occidente nonché a fornire ai media internazionali argomenti per un massiccio attacco frontale a risonanza globale. Se si aggiunge l’operato di qualche disturbatore inviato all’uopo, il quadro è completo. È, insomma, una guerra da democratici e premi Nobel per la Pace, che lascia le mani pulite, la fedina intatta e il nemico a terra. Ora, sarebbe fin troppo semplice ironizzare su un Occidente che si preoccupa dei diritti pur facendo stragi in mezzo mondo, che seleziona artatamente i governi canaglia (qualcuno sa cosa succede in Arabia Saudita?) e che, da essi, non riceve il medesimo trattamento. Detta più chiaramente, Putin non finanzia gli indipendentisti del Texas o le disagiate minoranze ispaniche, servendosi di organizzazioni di facciata, allo scopo di mettere i bastoni fra le ruote all’amministrazione americana, la quale, tuttavia, non esita a fare il contrario.

Ma più delle parole hanno valore gli esempi. The International Republican Institute (Iri) è una Ong americana, con sede anche a Mosca, impegnata nello sviluppo e nella diffusione della democrazia (leggi sovversione di governi sgraditi). Tale meritoria associazione, dopo aver invano versato 5 milioni di dollari in favore di una rivoluzione arancione in Bielorussia, ha animato e foraggiato, anche qui senza esito, la recente “Primavera russa” dipinta come una oceanica rivolta di donne e blogger in nome della libertà. Putin ha vinto con il 63,75% dei consensi ed il castello di carte è crollato. Curiosamente, l’Iri ha come “chairman” il senatore John MacCain, l’uomo che sfidò Obama nelle presidenziali del 2008 e che l’Italia rossa e rosata si affannò ad insultare come mostruosa replica del criminale Bush, salvo appoggiarlo (inconsapevolmente) applaudendo ai suoi tentativi di abbattere Putin. Tutte le pecore, prima o poi, ritornano all’ovile. Forse perché sfugge loro una ormai evidente constatazione, magistralmente compendiata da Massimo Fini in una delle sue più riuscite affermazioni: “Quando sento parlare di diritti umani metto mano alla pistola. Perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno”.

*Pubblicato su barbadillo.it

QUEI CINQUE AMERICAN BOYS del pensiero unico

Non una premessa, ma una precisazione: per ‘contenuti’ in politica si intende, o si dovrebbe intendere, non la riforma di qualche leggina e nemmeno una mezza idea riciclata da qualche libro di sociologia. Bensì i pilastri di una visione del mondo. Possibilmente alternativa a quella dei poteri dominanti.

Se avessero parlato in inglese avremmo avuto la certezza di essere negli States. Nel confronto fra i candidati alle primarie del centosinistra si è realizzata la definitiva rivoluzione copernicana che tanto profuma di America: non conta quello che dici, ma come te la giochi.

Non casualmente, meglio di tutti se l’è cavata il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, leader in stile Mediaset addestrato da Giogio Gori: look obamiano, aria telegenica e sbarazzina, slogan incisivi, frasi formato sms. È stato il primo a chiedere il diritto di replica e l’unico a capire realmente cosa stesse succedendo. Gli altri, invece, hanno faticato e non poco. Nichi Vendola non è riuscito a stare nei tempi stabiliti nemmeno una volta, è stato richiamato ufficialmente per la sua lungaggine, cercava con insistenza un interlocutore fisico, sudava vistosamente ed invocava la necessità di premesse e ragionamenti, sacrosanti nella vita reale, meno negli studi di “X-Factor”. Per di più ha “steccato” il riferimento ideale citando il Cardinal Martini (tutti si aspettavano Pasolini o Berlinguer) in barba ad una platea che di Vaticano non vorrebbe nemmeno sentir parlare. Bersani, invece, si è mosso sul terreno della sincerità: non ha volutamente assoldato guru né snaturato la propria prosa da moviola, ma esattamente in virtù di questo è risultato più autentico dei suoi avversari sebbene deprimente nella cronica incapacità di incendiare gli animi. Laura Puppato merita un ragionamento a parte: l’essere donna si è rivelato l’unico motivo della sua presenza, totalmente velleitaria ed inutile. A dimostrare la vuotezza della retorica di genere ha provveduto il conduttore Gianluca Semprini, saltandola a piè pari durante un turno di domande. Infine Bruno Tabacci, ex democristiano senza possibilità di vittoria, per sua stessa ammissione “montiamo da prima di Monti”, decisissimo a portare il Professore al Quirinale e messo lì a ricordare che non ci sono spazi per eventuali rivoluzioni.

Il problema, ovviamente, non si è nemmeno posto: nelle camere del centrosinistra l’aria è stantia in modo quasi insopportabile, il pensiero è innocuo e la prospettiva omologata. L’Imu va via, al limite, solo sulla prima casa, l’Europa è un totem inviolabile e l’euro un feticcio da adorare e proteggere. Concetti, questi, ribaditi quasi ossessivamente. Gli unici sussulti si sprecano sui tagli alla casta, sui diritti delle coppie omosessuali, sulla quantità di ministeri degli eventuali governi e sul numero di donne da arruolare negli stessi. Metà pantaloni e metà gonne è la frontiera più audace del progresso politico, l’ultima sfida – ci dicono – al limite dell’irrealizzabile: in realtà basterebbero, senza “quote” di alcun tipo, persone competenti e non asservite ai poteri finanziari. Ma questo sì, è davvero impossibile.

Tirando le somme, i Fantastici Cinque, Vendola in testa, hanno smitragliato una pletora di dichiarazioni trionfanti a distanza di sicurezza dai temi realmente caldi: i meccanismi di creazione del debito, la possibilità di un suo ripudio, la perdita della sovranità monetaria, la dittatura della Troika, il problema energetico, le guerre presenti e future. E se si somma il nulla prodotto all’insopportabile americanata del format adoperato, vien forse da avvertire gli spettatori: giovedì, da quello stesso studio, torneranno a trasmettere “X-Factor”. Attenzione, potreste essere tramortiti dall’esponenziale aumento del livello dei contenuti.

*pubblicato su barbadillo.it