IL TRAMONTO DEL SOL DELL’AVVENIRE

di Marcello D’Addabbo

“Compagni avanti verso nuove gloriose sconfitte” si ironizzava un tempo nelle file della sinistra comunista italiana, facendo emergere la consapevolezza di non essere ormai più in asse con la Storia. Che Guevara era morto da anni, il Vietnam si rivelò un glorioso ma isolato episodio, Mao tramava contro i sovietici giocando a ping-pong con Nixon e Kissinger e l’eurocomunismo di Berlinguer rivelava quale sarebbe stato il volto pragmatico di un partito deciso da tempo ad infilare lo svincolo per la superstrada americana. La sinistra di governo aveva ormai da tempo surclassato quella di lotta.
L’epilogo nostrano lo conosciamo già, appena il muro cade Occhetto e Napolitano volano a New York a stringere mani e a farsi perdonare il peccato di essere stati comunisti svendendo, negli anni ’90, l’Italia con le sue partecipazioni pubbliche al grande capitale privato. Ma quella è un’altra storia e l’abbiamo già raccontata. Ce n’è un’altra, invece, che parte proprio dove finisce la prima, al bivio della Bolognina dove si decide di restare in pochi con Cossutta, Garavini, Bertinotti e Ingrao come padre nobile, di continuare a leggere il Manifesto, indignarsi e lottare ancora con i lavoratori e la bandiera rossa. Che fine ha fatto la sinistra radicale, con le promesse e le speranze suscitate in lavoratori, operai e studenti riuniti in quella romantica riserva indiana che voleva cantare ancora l’Internazionale mentre fuori dal suo recinto l’unica internazionale veramente esistente, quella del potere finanziario, trasformava il mondo nell’attuale titanico Bankistan?
A partire dal primo grande trauma nel ’95, quando Rifondazione Comunista, dopo aver negato pubblicamente di voler votare la fiducia al Governo Dini, vede 14 suoi parlamentari rifiutare l’ordine di partito (Nichi Vendola, per la cronaca, optò per la fiducia votando anche successivamente la manovra finanziaria di Dini), con il solito successivo regolamento di conti interno tra correnti, scissione dell’atomo e immancabile formazione di altro soggetto politico (Movimento dei Comunisti Unitari che tre anni dopo salirà sul carro nei Democratici di Sinistra), la breve storia della sinistra radicale a cavallo tra i due secoli è in realtà un film di una noia mortale. Dal sostegno esterno al primo Governo Prodi dell’Ulivo alla caduta del medesimo, provocata da Bertinotti dopo una notte dei lunghi coltelli con la corrente filogovernativa di Cossutta che porterà alla scissione dei Comunisti italiani da Rifondazione. Fino alla deriva movimentista della battaglia per le 35 ore lavorative, e a quella no-global dopo i famosi scontri di Seattle nel ’99 in occasione della riunione del WTO, o alla più recente infatuazione per Alexis Tsipras, sfortunatissimo tentativo vendoliano di ritorno alla piazza puntando sul peggiore cavallo di una storia politica già di per sé non particolarmente brillante, per far dimenticare al popolo di Sel di aver flirtato per mesi con Matteo Renzi.
La sinistra radicale dalla sua nascita si comporta come un perpetuo pendolo tra potere e piazza, tra ministeri e auto blu da una parte e movimentismo sindacale, terzomondista o LGBT dall’altra, usato per recuperare la purezza ideologica perduta salendo sul carro vincente della sinistra governativa. Il circolo vizioso è di tipo psichiatrico: alleanza con i riformisti, salita a bordo del transatlantico di governo dove l’atavica fame arretrata di potere dei comunisti si placa per un istante, poi ripensamento, ritorno di memoria appena terminato l’effetto inebriante dello Champagne, rottura, polemica interna, scissione, medio tempore defezioni e promozioni nel campo nemico, infine nuove liste colorate di arcobaleni e ritorno alla piazza con conseguente perdita verticale di credibilità ad ogni giro di boa di questo tipo.
E non si tratta di un fenomeno solo italiano ma di tutto l’Occidente. In Germania la Die Linke di Oskar Lafontaine è accusata di aver indebolito la sinistra socialdemocratica tedesca sottraendole nel 2005 il 8,7% dei voti, con l’infamia di aver portato la Merkel per la prima volta al governo. È la stessa accusa che Paolo Mieli ha rivolto di recente a Landini, Cofferati e Civati per il loro modesto tentativo di creare qualcosa a sinistra di Renzi, “riporterete la destra al governo!”. Ovviamente se la Linke si fosse alleata con la SPD non avrebbe prodotto alcun cambiamento al governo essendo minoritaria e lo stesso Lafontaine sarebbe stato politicamente fatto fuori dai suoi sostenitori con l’accusa di essere un traditore. Una volta saliti al governo poi gli scogli sono sempre gli stessi, la legge finanziaria (oggi nella neolingua si chiama legge di stabilità), il rifinanziamento delle missioni militari atlantiche e le coppie di fatto mal viste dagli alleati democristiani della maggioranza. Eternamente intrappolati tra le accuse di irresponsabilità, di voler stare sempre all’opposizione senza mai provare a cambiare il paese con le riforme (e qui scappano le risate), a quella di tradimento delle radici rivoluzionarie marxiste-leniniste rivolte dalla base del partito.
Una vicenda che a vederla nel suo complesso ricorda un po’ quella delle tribù di Israele nell’Antico Testamento, altalenanti tra il rinnovo dell’antica Alleanza con Jahvè in una vita coerente con le sue eterne leggi e il tradimento delle medesime dovuto alla tentazione della corruzione che porta il popolo eletto a subire tremendi castighi prima di ritrovare la retta via della riconciliazione col dio. Se si sostituisce la coscienza religiosa con quella ideologica praticamente si ottiene per grandi linee la storia della sinistra radicale. Se il castigo biblico era una conseguenza della periodica perdita della fede nell’altissimo da parte dei giudei, nel caso dei post-comunisti il precipizio del tradimento ideologico nella seduzione del potere è una diretta conseguenza di una insicurezza ideologica. Costoro non sono più capaci di proporre modelli ideali e sociali e sanno perfettamente che il marxismo è valido solo nella sua “pars destruens” cioè nella critica scientifica alla società dominata dal grande capitale. È come se uno dicesse: “Sì, è vero, il capitalismo fa schifo e sta andando a rotoli come avevo previsto ma non so come sostituirlo”. Pertanto meglio abitare l’inabitabile scavandosi un comodo cantuccio critico dentro il sistema morente, attirando consensi finché dura ed esibendo una brillante quanto inconcludente critica intellettuale.
Da ciò il finto dissidio narcisistico che ha caratterizzato in Italia i vari Bertinotti, Ferrero, Casarini e Vendola ovvero se sia meglio interpretare la parte dei riformisti eccentrici o dei massimalisti pavidi. Paolo Ferrero ha condannato Rifondazione Comunista all’irrilevanza per la sua incapacità di prendere una posizione netta contro la moneta unica europea, nonostante il parere autorevole di quello che rimarrà alla storia come “il movimento degli economisti” alimentato soprattutto da professori universitari come Bagnai, Borghi, Rinaldi e Giacchè ma anche da personaggi più vicini alla stessa Rifondazione come l’economista Emiliano Brancaccio, ultimamente per nulla chiuso alla possibilità di una “svolta sovranista” pensata a sinistra in difesa dei lavoratori. Ma si tratta di lodevoli eccezioni, mosche bianche rarissime in un contesto in cui viene scambiata per avveduta ragionevolezza ogni pacato mantenimento dello status quo e conferma del potere sovrastante, cioè nel caso specifico quello delle banche e dell’eurocrazia che sta strozzando mezza Europa nell’attuale lager monetario. Alla fine quando ti capita di parlarci non sai mai se per uno di sinistra Ciampi, Amato, Draghi e Monti sono una banda di criminali oppure degli autorevoli e responsabili salvatori della patria, come ogni giorno viene scritto sulle colonne di Repubblica, opinione che sembra fare breccia sulle deboli menti, sensibili al politicamente corretto e al clima salottiero della gauche au caviar. Un interlocutore di destra non ha dubbi di solito: sono dei criminali comuni. Rozzo ma chiaro. Almeno sai dove ti trovi. Ma quando i tempi si fanno duri, i popoli vengono condotti alla miseria e si alzano le barricate non puoi permetterti incertezze come insegna l’epilogo del caso greco.
Varoufakis e Tsipras ci hanno mostrato esattamente lo stesso triste spettacolo offerto da Ferrero, con l’aggravante di essere maggioranza di governo, risultato che nessuno tsipriota italico avrebbe mai potuto agognare. Ma hanno perso tutto il capitale politico e di credibilità con la stessa rapidità con la quale lo avevano conquistato, perché in fondo, al di là degli slogan di piazza e del referendum sull’austerità, sono convinti che l’alternativa non ci sia, che “un altro mondo non è possibile”. E difatti non lo sarà, a meno che di questo attuale mondo in disfacimento non si contesti oltre al quadro anche la cornice, il muro sul quale il quadro è appeso, i pilastri che lo reggono, la casa tutta intera. Ma per loro non è possibile, una sorta di bullone d’arresto cerebrale impedisce loro di esercitare la critica e il dubbio oltre un certo segno, di provare l’ebbrezza di superare il limite di velocità imposto per legge scuotendo le fondamenta stesse della modernità che li ha partoriti, della rivoluzione parigina da cui vennero alla luce, della falsa idea di stato di diritto utile alla borghesia industriale che fa da presupposto a tutto il loro agire, del materialismo ideologico che costituisce l’orizzonte del loro pensare. In fondo la sinistra tornerà sempre nel grembo del potere economico che l’ha partorita, quello che credeva di contestare ma che immancabilmente, fatalmente la seduce. È per questo che il fallimento di Tsipras è qualcosa di più profondo del suo fallimento politico personale e prescinde quasi dalla sua stessa vicenda contingente in quanto vive nel campo degli archetipi. Per averne conferma basta ascoltare il tono dimesso della voce di Vendola al telefono con il braccio destro dei padroni dell’acciaieria Ilva che intendeva rassicurare, “dica a Riva che il presidente non si è defilato”. La stessa pavida sudditanza al potere del denaro mostrata dall’omologo ellenico a suggello del definitivo fallimento di ogni loro battaglia di identità e cultura politica. Tant’è che lo stesso Vendola finirà poi rinviato a giudizio per le pressioni esercitate sulle autorità di controllo ambientali al fine di minimizzare l’impatto del veleni della fabbrica sulla popolazione di Taranto. I tarantini come i greci, vittime di questi finti rivoluzionari da operetta, assistono al definitivo epilogo della sinistra radicale.
Un crepuscolo annunciato del pensiero di Varoufakis in ordine alla necessità che le sinistre facciano da stampella al capitalismo terminale nel terrore che il crollo di quest’ultimo possa dare spazio ad una vera alternativa, cioè quella costituita dai movimenti populisti che in Ungheria, Polonia e Francia stanno conquistando lentamente e inesorabilmente l’egemonia della contestazione e la funzione di efficace nonché unica arma di autodifesa del popolo contro la violenza del totalitarismo finanziario. Quel totalitarismo dal quale la sinistra radicale, per statuto, avrebbe dovuto difendere i lavoratori e in pasto al quale, al contrario, li ha ignobilmente gettati. Forse è giunto il momento storico per capire una volta per tutte chi sono i nostri amici e quali i collaborazionisti travestiti da contestatori. La Grecia rappresenta uno spartiacque ideale. In attesa che la volontà degli uomini faccia sorgere l’alba di una nuova epoca, godiamoci il definitivo tramonto del sol dell’avvenire.

1992. SCHEGGE DI VERA STORIA (PARTE II)

di Leonardo Petrocelli

Privatizzare l’anima

Leggenda vuole che Mario Draghi, attuale presidente della BCE ed allora direttore generale del Tesoro, sia stato il grande mattatore dell’incontro avvenuto sul panfilo Britannia, il 2 giugno del 1992. In realtà, il nostro si limitò a salire a bordo e comiziare per qualche minuto con poche ma significative parole: “Le privatizzazioni – declamò – sono un lodevole strumento per limitare l’interferenza politica”. Punto. In questa frase c’era tutto il senso della rivoluzione che si approssimava: svuotare gli Stati dal di dentro, depositando debiti, aziende, banche, asset strategici nelle mani invisibili del mercato, in modo da limitare le leve del Politico, già prostrato, ed esporlo al ricatto finanziario. Di questo si discusse sul Britannia: pianificare la liquidazione della azienda Italia, mentre Tangentopoli decapitava la classe dirigente del tempo e la rendeva incapace di correre in soccorso dell’interesse nazionale.
Espletate le formalità e chiarite le premesse, Draghi scese dalla nave e lasciò i dettagli ai presenti che presero il largo verso le acque interazionali. Chi fosse rimasto a bordo è stato, ed è ancora, oggetto di dibattito. Da una parte, di sicuro, figuravano i cosiddetti British Invisibles, cioè i banchieri della City londinese (Warburg, Barclay, Coopers Lybrand, Barino etc), dall’altra gli omologhi nostrani, più manager dell’Iri e dell’Efim, rappresentanti di Confindustria e alcuni volti noti che impareremo a conoscere: Rainer Masera, Giovanni Bazoli, Beniamino Andreatta. Qualcuno sostiene anche Prodi e Tremonti. L’incontro fu pittoresco, fra orchestre e lanci di paracadutisti, e senz’altro utile. “Da quel momento – scriverà infatti Sergio Romano sul “Corriere” – e per tutti gli anni seguenti, non vi è stata privatizzazione in cui la finanza anglo-americana non abbia svolto un ruolo importante”.
D’altronde, per averne prova tangibile è sufficiente seguire la timeline degli eventi successivi. Pochi giorni dopo il confronto sul Bitannia, precisamente il 28 giungo, l’ambiguo Scalfaro (eletto Presidente a discapito di un Andreotti ormai al tramonto), incoronava premier il “tecnico” Giuliano Amato, il braccio destro di Craxi, l’unico socialista graziato dalla Tangentopoli a comando. Il motivo dell’immunità non è un mistero: Amato serviva, e tanto. La sua prima mossa fu quella di disporre, attraverso la legge 359 del 1992, la trasformazione immediata di ENI, IRI, INA ed ENEL in S.p.a. e di prevedere, tramite delibera del Cipe, la medesima possibilità per tutti gli enti pubblici economici operanti in qualunque settore (c.d. “privatizzazione formale”). A perfezionare la pratica ci penserà, due anni dopo, la legge 474, dedicata alle disposizioni sulle vendite delle partecipazioni azionarie (c.d. “privatizzazione sostanziale”). Non pago, Amato nominò, come consulenti internazionali in materia, tre istituti al di sotto di ogni sospetto: Merrill Lynch, Morgan Stanley e soprattutto Goldman Sachs il cui senior advisor Romano Prodi si adopererà moltissimo per garantire la buona (per loro) riuscita delle operazioni. Finalmente, era tutto pronto. Si consideri che, al tempo, il 25% dell’economia nazionale era in mano pubblica, ma a quel punto ogni bene poteva essere agevolmente acquistato dal capitale internazionale ed anche da quello nostrano, dai De Benedetti, dagli Agnelli, dai Pirelli, dai Cuccia, dai Tronchetti Provera. Insomma, da tutto il salotto buono del capitalismo italiano che, da anni, non aspettava altro.
Tuttavia, sopravviveva un problema. Il boccone era ghiotto, ghiottissimo, ma ancora troppo caro. La finanza voleva saccheggiare, d’accordo, ma con poca spesa. Indi, che fare? Serviva una trappola che scattò immediatamente. In una manciata di mesi, Moody’s, la più “politica” fra le agenzie di rating, declassò i Bot italiani a livello di quelli portoghesi, sbattendoci in serie C (con relativo aumento dei tassi di interesse e quindi del debito). Mentre, quasi contemporaneamente, Soros lanciava a settembre il suo celeberrimo attacco speculativo contro la lira, spalleggiato dai nostri “consulenti” (sic) della Goldman. Per respingere l’offensiva, il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, un cavallo di razza sellato dalla solita cricca finanziaria di matrice azionista e massonica, bruciò 50 miliardi di dollari, distruggendo le nostre riserve. Il risultato fu il crollo del valore monetario che comportò, per i predatori appostati nella selva mercatista, un lauto sconto del 30% sugli acquisti dei beni italici. Si trattava, in realtà, di una manovra molto di moda a quei tempi, adoperata anche in occasione dell’aggressione alla Russia post-sovietica: svalutazione del rublo, imposta questa volta dal Fondo Monetario Internazionale, e rastrellamento sotto costo delle aziende strategiche pubbliche di più rilevante interesse (ci penserà Putin a rimettere le cose a posto e, per questo, non sarà mai perdonato).
Per di più, il disastro veniva buono anche per giustificare agli italiani la svendita del patrimonio nazionale, incoraggiata dalla sovraesposizione mediatica del problema-debito. Debito, oltretutto, in libera impennata dal 1981, quando Andreatta, futuro passeggero del Britannia e maestro di Enrico Letta, aveva decretato il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, rimuovendo quest’ultima dal suo ruolo di prestatore di ultima istanza e consegnando il finanziamento del Paese ai capricci del mercato. E permettendo così, da Ciampi a D’Alema, quel processo di internazionalizzazione del debito che, rileva l’illustre economista Marcello De Cecco (Normale di Pisa, Sapienza di Roma), “impedisce alle politiche degli Stati di entrare in disaccordo con i mercati per più di qualche mese”.
Affogata dal debito, con i Bot declassati, la lira moribonda e le riserve bruciate, cosa poteva fare la povera Italia per sopravvivere? I grandi giornaloni della finanza globale – “Financial Times”, “Washington Post”, “Wall Street Journal” e l’immancabile “Economist”, seguiti a ruota dai nostri media servili – non avevano dubbi: privatizzare, privatizzare, privatizzare. Sottocosto e subito.
Ed è precisamente quanto accadde, durante tutto l’arco dei Novanta con un picco tra il 1997 e il 2000 che segnò una sorta di record europeo. Nessuno ha mai privatizzato quanto noi in quegli anni, nemmeno l’Inghilterra. Inutile perdersi in dettagli, comunque. Su internet si trovano dati e tabelle a iosa. Basti sapere che nel decennio svendemmo quasi tutto lo svendibile a capitalisti nostrani e stranieri: l’industria farmaceutica ad americani e tedeschi, le rete telefonica delle Ferrovie, cioè Infostrada, a De Benedetti (che, come al solito, la rivenderà subito a Mannesmann), le autostrade a Benetton, l’alimentare e la ristorazione a Nestlé, Unichips, Fisvi, l’alluminio alla americana Alcoa, la Telecom ad Agnelli, la siderurgia ai magnifici Riva (belle le privatizzazioni, vero?), la meccanica, l’impiantistica e l’elettronica a General Electric, Brown & Sharpe e Mannesmann, il vetrocemento a Pilkington e Caltagirone. Solo per citare alcuni casi. E che dire degli istituti di credito? Il Banco di Roma (insieme a Mediocredito Centrale e Banco di Sicilia) andò agli olandesi della Abn Amro, la BNL agli spagnoli del Banco di Bilbao, il San Paolo agli iberici di Santander. Non ebbero sorte migliore la Cariplo, il Credito Italiano, la Banca Commerciale. Rimase italiano solo il Monte dei Paschi, in quanto banca di partito del partito amico della finanza. Passato il decennio, l’incubo continuerà anche con Berlusconi, lesto a svendere la nostra chimica d’eccellenza agli arabi della Sabic.
Naturalmente, non solo fu ceduto tutto senza nemmeno provare ad immaginare una strategia di rilancio e di riorganizzazione, senza esigere piani sensati di sviluppo industriale, senza individuare la ricaduta delle operazioni sulle sorti dell’economia nazionale nel medio e lungo periodo, ma, per soprammercato, i capitali italiani non andarono da nessuna parte. Rimasero qui, a fluire e rifluire nelle piccole guerre di cortile del potere finanziario nostrano, tutto interno ad esibirsi in scalate e faide sulla pelle della comunità nazionale. Abbiamo venduto senza comprare nulla né programmare alcunché. D’altronde non era questo lo scopo della manovra. Era un altro: rendere l’Italia una espressione geografica.

La Grande Trasformazione. Ovvero, i Maledetti Novanta

clintonLa piccola saga nostrana di inchieste e privatizzazioni sembra essere il solo squillo di tromba in un mare di niente. Non casualmente, nei manuali di storia, gli Anni Novanta sono un fastidioso intermezzo, una seccatura, una pratica da liquidare al più presto che si ostina a frapporsi tra i due grandi eventi dell’epopea contemporanea: il crollo del Muro di Berlino (1989) e l’attentato alle Torri Gemelle (2001). Quasi nel mezzo non vi fosse stato nulla di rilevante a parte la prima crisi del Golfo, la guerra in Jugoslavia e la sua appendice kosovara, tre episodi di cui ormai nessuno o quasi si ricorda più.
E, invece, i Novanta furono un decennio campale perché tutto quello che tragicamente scontiamo oggi fu concepito allora, nel silenzio-assenso di popolazioni esauste dopo quarant’anni di Guerra Fredda e ben determinate ad addormentarsi sul divano della Storia, coccolate ed anestetizzate da tutte le innovazioni tempestivamente squadernate sul tavolo dell’entertainment, dalla Playstation al Grande Fratello. E non ci riferiamo all’avvento e alla crescita (1992-95) di Internet, l’arma a doppio taglio che meriterebbe una lunga analisi a sé. Altri sono, in questo contesto, gli elementi che ci preme elencare. Fu tra il 1990 e il 1992 che iniziarono, ad esempio, a diffondersi in misura sensibile i derivati, cioè le terribili scommesse finanziare entrate di prepotenza nella cronaca economica attuale. Fu in quel periodo che si consolidò l‘unione strutturale tra le banche di credito ordinario (cioè quelle che prestano soldi a famiglie e imprese) e le banche d’affari, dedite a ben altro genere di investimenti. Ancora, fu in quegli anni, precisamente nel 1995, che sorse la World Trade Organization, l’organizzazione mondiale nata per favorire l’abolizione delle barriere tariffarie del commercio interazionale. E come non citare la progressiva rimozione del welfare e delle tutele sociali, altro gentile lascito dei Novanta, incoraggiata oltretutto dalla fine del ricatto sovietico (se togliamo lavoro e pensione gli europei si getteranno fra le braccia dell’Urss, pensavano. Quindi aspettiamo). Per tacere, ovviamente, del Trattato di Maastricht, firmato (serve dirlo?) nel 1992, che chiudeva a doppia mandata la prigione dei popoli europei.
Se qualcuno non l’avesse capito, il capitalismo stava portando a compimento la propria mutazione genetica da sistema imprenditoriale e borghese a sistema “assoluto” (Fusaro), del tutto sciolto da ogni vincolo normativo, etico, convenzionale e, soprattutto, politico. In altre parole, si assisteva allora, in presa diretta, all’ascesa della grande finanza sovranazionale al governo del mondo ed al parallelo tramonto degli stati nazionali (e dei popoli), ormai divenuti il nemico pubblico numero uno della globalizzazione trionfante e destinati a disfarsi nella cloaca liquida dei “mercati”. Una svolta non priva di qualche senso dell’ironia, se si pensa che, in passato, le nazioni erano state lo strumento “progressista” con cui sabotare gli Imperi e permettere l’ascesa dilagante dell’immaginario borghese che già conteneva in nuce i germi dell’attuale delirio. Ma tutto passa ed anche quel mondo aveva fatto il suo tempo: dunque via gli Stati, via i popoli, via perfino le poche certezze sociali della “modernità abitabile”. E dentro la Grande Trasformazione “dionisiaca” del capitalismo assoluto.
L’espressione Grande Trasformazione, ovviamente, non è nostra. Il sociologo Karl Polanyi la adoperò, nel 1944, per rappresentare il travolgente ritorno dello Stato al potere negli Anni Trenta, dopo l’euforia mercatista delle decadi precedenti, poi epilogata dal disastro del ’29. Ma quello sconvolgimento, per quanto notevole, impallidisce se confrontato con il mutamento occorso negli ultimi due lustri dello scorso secolo. E il quadro non è ancora completo, perché c’è stato un altro evento degno di segnalazione in questo interminabile 1992 che pare non finire mai: l’elezione di Bill Clinton alla Presidenza degli Stati Uniti.
La vittoria del democratico, accompagnata dal solito codazzo di applausi ed urla gaudenti per l’avvenuto ritorno alla Casa Bianca dell’America buona e solidale, coincise invece con due notevoli accadimenti. Il primo, indirettamente già citato in apertura di paragrafo, fu l’abolizione dello Glass-Steagall Act e l’approvazione del Gramm-Leach-Bliley Act, cioè la legge per la modernizzazione dei servizi finanziari che eliminava il divieto per le banche commerciali di effettuare investimenti speculativi (in Italia Draghi lo aveva già realizzato nel 1993) e poneva, di fatto, le basi per la crisi che sarebbe scoppiata nel 2007. Il secondo, forse ancor più rilevante, coincise con l’instaurazione di un ordine internazionale di tipo ferocemente monopolare. Liquidata l’Urss, e, nel tempo, anche l’Onu, la pax clintoniana si estese, inarrestabile, all’intero globo. Ad opporsi, infatti, non c’era più nessuno, a parte il solito Iran, la piccola Corea del Nord e una Cina ancora in fase di riassesto. L’avvento di Putin era lontano un decennio. E dunque eccolo qui, il gigante solo alla testa del mondo, il poliziotto che bastona, bacchetta, richiama e riconverte (fu Clinton ad inventare l’espressione “Stato canaglia”), promuove le guerre “in” e non “a”, e soprattutto si prepara, Nato al seguito – dopo il rodaggio dell’atroce esperienza jugoslava -, all’esercizio della violenza imperialista post 11 settembre. È del 1998, infatti, la lettera che i neocon spediranno al Presidente, caldeggiando un intervento definitivo contro Saddam e un deciso cambiamento di rotta nella politiche mediorientali. Ad onor del vero, come ci ricorda il sempre prezioso Thierry Meyssan, Clinton provò ad opporsi alla spallata lanciando perfino un attacco frontale al tentacolare Deep State americano (fuggito in Israele), ma la rivelazione di un suo lussurioso armeggiare sotto la scrivania con la stagista di origine ebraica Monica Lewinsky lo tolse definitivamente di mezzo. Non prima, però, di quella preziosa firma che autorizzò il bombardamento della Serbia.

Un Paese Normale

E torniamo in Italia. Abbiamo lasciato il Paese in balia del pool di Mani Pulite, intento a stroncare socialisti e democristiani, e della governance finanziaria, dedita al saccheggio selvaggio dei gioielli di famiglia. Manca ancora, però, il terzo elemento del triangolo. Nel biennio horribilis 1992-93, completato dall’approdo a Roma degli emissari del Fondo Monetario Internazionale e da una riunione ateniese del Bilderberg interamente incentrata sul “caso Italia”, il timone era stato affidato ai “tecnici” (come sempre nelle fasi di aggressione all’interesse nazionale). Scalfaro, abbiam detto, aveva lanciato Amato il quale – ormai inviso al popolo dopo l’infamia del prelievo forzoso sui conti concorrenti, avvenuto nella notte fra il 9 e 10 luglio ’92 – cedette il posto a  Ciampi. Per la prima volta un banchiere sedeva a Palazzo Chigi (in attesa del Quirinale). Giù la maschera, quindi, e tappetto rosso per tutti gli illustri personaggi di cui sopra, da Andretta a Maccanico, saldamente incistati nel governo anti-italiano dei fiduciari della grande finanza. Ma non poteva durare per sempre.
Superata la transizione, infatti, serviva, come auspicato dall'”Economist” nel pre-Tangentopoli, che l’Italia diventasse un “Paese normale”. Quante volte avete sentito questa espressione? Il suo significato sottile non è mai stato oscuro e disegna un quadro fin troppo noto anche agli analisti più sprovveduti. In estrema sintesi, si pretendeva questo: la nascita di due grandi partiti speculari, uno conservatore e l’altro progressista, impegnati in una battaglia navale simulata su temi periferici, ma in realtà perfettamente concordi in quanto a strategie e riforme sostanziali. Dettate, of course, dal potere monopolare atlantico e da quello, più discreto, dei mercati sovranazionali. Un governo olografico, dunque, che facesse appassionare i cittadini ad una vuota ed inutile contesa, occultando il dettato di chi impartiva disposizioni da dietro il sipario del teatrino politico.
Qualche tentativo all’epoca fu fatto ma, è noto, l’“anomalia italiana” non ha mai cessato di deprimere ed irritare i progettisti del Terzo Millennio, costretti in breve tempo alla resa. Nulla da fare, non c’era modo né tempo per ricondurre il Belpaese all’archetipo britannico della mascherata bipolare perfettamente organizzata. Bisognava selezionare un cavallo solo, assicurarsene l’obbedienza e puntare su quello, rimandando al futuro progetti di più ampio respiro nella certezza che piroette e conversioni, negli anni a venire, non sarebbero mancate (giusto, Fini?). E, quindi, eccoci all’epilogo del thriller: su chi cadde la scelta del potere? La vita, si sa, è piena di sorprese. Sorprese che tuttavia riescono meglio se ci si è preparati negli anni con zelo e con cura. Magari schermati dal velo rosso, assolutorio e inattaccabile, della falce e del martello.

CONTINUA

1992. SCHEGGE DI VERA STORIA (PARTE I)

1

di Leonardo Petrocelli

A mo’ d’introduzione

C’è una gigantesca armata che si aggira nel dibattito pubblico italiano. È quella dei “va beh, non ho letto il libro ma ho visto il film e ora ti spiego, ti racconto, ti informo…”, ti dico come sono andate le cose ripetendoti quello che lo schermo ha raccontato attraverso la bella attrice e l’eroe tenebroso, la battuta fulminante e il mistero ammiccato, la scena di sesso e il riferimento colto. Sono quelli che hanno imparato la grande storia dai film di Hollywood e la piccola cronaca nostrana dalle fiction italiote e che sono arrivati a Tangentopoli passando per Gomorra e Il Trono di Spade. Sono i figli della Fox e della HBO, affidati al magistero di Stefano Accorsi e della sua fortunata serie 1992 per quanto riguarda uno degli anni più significativi per i destini dell’Italia contemporanea. Un anno che, forse, meriterebbe qualche riflessione integrativa di là dall’oceano di nulla nel quale la serie lo ha affogato, al netto di un paio di spunti di tiepido interesse. Sia chiaro, non basterebbe una enciclopedia per completare l’arazzo del disastro che fu ma anche qualche scheggia di vera storia può rivelarsi utile allo scopo.

Mani Legate

Ricordate la famosa battuta di Beppe Grillo a Fantastico 7 (Rai) “se in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?”. Ebbene, correva l’anno 1986 e che l’Italia intera, classe politica in testa, fosse marcia fino al midollo lo sapevano tutti. Lo sapevano i politici che le tangenti le prendevano, gli imprenditori che le pagavano, i poveracci che finivano all’angolo per non averle potute pagare. Lo sapevano tutti tranne i magistrati, le uniche anime belle della penisola a non accorgersi del verminaio di corruzione e clientele che da anni dilagava putrido in ogni dove, sommergendo il Paese. O forse lo sapevano ma non potevano intervenire, così come dimostra la misconosciuta storia del giudice Carlo Palermo che a Craxi (e non solo) si era “avvicinato” troppo già negli Anni Ottanta con l’unico effetto di farsi stoppare l’indagine dal Csm, con annessa azione disciplinare, e di vedersi negata la scorta nonostante le sue rischiose indagini sui traffici della mafia siciliana.
Insomma, dai partiti era meglio stare alla larga. E la magistratura alla larga c’era stata – vuoi per ignavia, vuoi per pavidità – per oltre quarant’anni, fino a quel fatidico 1992 che, con l’arresto di Mario Chiesa e la confessione di Alfredo Mosini, partorì l’incipit della grande slavina destinata a sconquassare l’allegro sistema tangentizio fino ad allora inviolato. Improvvisamente, era cambiato tutto. La magistratura remissiva ed ignara, fustigata per le proprie intemperanze e costretta all’immobilità dallo strapotere della politica, sembrava aver subito una mutazione antropologica ed essersi trasformata da corpo tremebondo in “partito-pool”, aggressivo e demolitore, con i vari Di Pietro, Colombo, Borrelli, D’Ambrosio, Parenti, Greco, Boccassini, decisi a fare in una manciata di mesi quel repulisti che nessuno aveva mai osato nemmeno ipotizzare per tutta la Prima Repubblica.
La Prima Repubblica, appunto, quella che aveva navigato a vista nell’ordine bipolare di Yalta, incardinata nella missione di conservare l’Italia nel blocco occidentale ed impedire che quel 30% di cittadini che votavano Pci la trascinasse dall’altra parte o, quanto meno, fuori dal blocco Nato. Cosa sarebbe successo se una Tangentopoli arrivata troppo presto avesse decapitato Dc e Psi con l’Urss ancora in piedi, Berlinguer ancora vivo e i comunisti dietro l’angolo? Ed anche considerando l’ipotesi che la valanga avesse travolto anche loro, il risultato sarebbe stato ugualmente il caos, l’imperdonabile sconvolgimento dell’arco costituzionale in un Paese, come l’Italia, i cui delicati equilibri liminari andavano conservati ad ogni costo (la questione era infatti di “carte geografiche”, di alchimie geostrategiche piuttosto che di persone perché, alla fine, un Napolitano agli Interni sarebbe stato, come sarà, fin troppo gradito). Diciamola tutta: gli Stati Uniti non avrebbero mai permesso alcun terremoto di tal fatta o, nel caso, vi avrebbero posto subito rimedio con un colpo di Stato d’ispirazione conservatrice e/o militare. Ma l’Italia non era la Grecia né il Cile e prevenire è sempre meglio che curare.
In nome di ciò, per quarant’anni gli americani avevano dovuto sopportare gli Andreotti, i Craxi, i De Michelis, i Moro (…forse no), i Cirino Pomicino, ma si trattava di un far buon viso a cattivo gioco: se fosse dipeso da loro, e soprattutto da Israele, li avrebbero volentieri lasciati penzolare da una forca. Diversamente da quanto la vulgata racconta, infatti, l’atlantismo servile non è mai stato una costante strutturale della Prima Repubblica. Ad irritare gli Usa ci aveva pensato fin da subito Andreotti sostenendo Mattei nella sua sfida alle Sette Sorelle e poi stringendo negli anni amicizie con tutti i nemici del padrone: i libanesi, i palestinesi, gli iraniani, i libici, perfino i sovietici (si leggano le memorie di Primakov). E che dire di Aldo Moro, il sorvegliato speciale su cui il Dipartimento di Stato Americano riceveva quattro rapporti al giorno e al quale Kissinger, nel 1974, mise le mani addosso durante un incontro diplomatico, minacciandolo di gravi ritorsioni (sic). Su Craxi, l’amico di Arafat che aveva trasformato il Partito Socialista da avamposto italico di Israele a forza di governo filo-palestinese, è finanche superfluo trattenersi: valga il ricordo della crisi di Sigonella ove carabinieri e militari della VAM puntarono le pistole in faccia alla Delta Force americana nell’unico e naufragato istante in cui siamo stati una nazione. All’indomani dei raid aerei su Tripoli del 1986 durante i quali gli americani non riuscirono ad uccidere Gheddafi soltanto perché Craxi lo aveva avvisato in tempo, l’emissario personale di Reagan, il generale Vernon Walters, sbottò rivolto al governo italiano: “Quando scoppia una crisi (leggi quando provochiamo una crisi, ndr), voi non siete mai dalla nostra parte”.
Il peccato originale che gli americani, schiumanti rabbia, non riuscivano a perdonare ai ministri del Belpaese era solo uno: il perseguimento dell’interesse nazionale e l’autonomia di manovra che tale obiettivo necessariamente esigeva. Detta più volgarmente, alcuni politici italiani facevano di testa loro, praticavano il doppio gioco, svicolavano dal mandato atlantico, non obbedivano, non si prostravano, non immolavano ogni ora del giorno e della notte sull’altare delle strategie di Washington, complicando così enormemente la vita dell’alleato d’oltreoceano. E per questo dovevano essere depennati. Ma non subito, però. Bisognava aspettare con pazienza il momento giusto, cioè la caduta del comunismo e dunque la rimozione del rischio di deriva rossa o terzaforzista dell’Italia.

Il Sol dell’Avvenire

E finalmente, dopo anni passati a masticare amaro e sputare bile, sorse nel 1989 l’alba del giorno nuovo con il crollo del Muro e, poco dopo, la morte annunciata del diavolo. L’Unione sovietica non esisteva più. E mai come in questo caso un evento pubblicamente salutato con giubilo e gioia segnò privatamente il lutto per la fine di un’era e di tutti i suoi protagonisti, perché il crollo del comunismo aveva fregato molti, tutti quelli che nel tempo – mafia compresa – avevano goduto del sostegno americano contro la minaccia sovietica e che ora si ritrovavano, nudi, di fronte al vecchio protettore divenuto grande inquisitore e arbitro della situazione.
Che l’attacco portato da Tangentopoli fosse irreversibile lo si poteva capire anche da un paio di segnali arrivati per tempo. La morte di Salvo Lima nel marzo del 1992 (“sono gli americani” dirà subito Sbardella, l’uomo di Andreotti) e soprattutto il sinistro articolo apparso il 14 dello stesso mese sull’oracolare “Economist” dove si rimproverava all’Italia la monolitica presenza dei democristiani al potere da cinquant’anni. Con un caldo invito a modificare le carte in tavola. Caldo quasi quanto quello che, ci ricorda Maurizio Blondet, il medesimo giornale aveva lanciato nel 1978 minacciando il compromesso storico di Moro con il tranciante titolo in italiano: “È finita la commedia”. Commedia che, in effetti, tre settimane dopo sarebbe finita davvero. Nel sangue.
Se tanti pixels fanno un’immagine, eccolo qui il semaforo verde, finalmente acceso e puntato sulla Procura di Milano come una specie di Bat-segnale. Al centro della scena, nel bel mezzo dell’occhio di bue, c’è Tonino l’Americano – cioè Antonio Di Pietro, l’ex sbirro semianalfabeta con in mano un biglietto per gli Usa dove si recherà all’improvviso nel bel mezzo dell’inchiesta – pronto a farsi carico, insieme ai colleghi del pool, delle grandi pulizie di primavera in conto terzi. Paolo Cirino Pomicino lo spiegherà anni dopo in una intervista rilasciata alla “Stampa”: “È storia, anche se poco nota da noi, che la Cia agli inizi degli anni ‘90 abbia avuto ordine di fare anche intelligence economica e di raccogliere informazioni sull’Europa corrotta. Ora, che in Italia ci fosse un sistema di finanziamento illecito ai partiti è noto oggi ed era noto allora. Io lo dissi pure in una riunione dei vertici della Democrazia cristiana, che il finanziamento illecito era il nostro fianco scoperto. Ritengo che la Cia abbia raccolto informazioni e le abbia girate alla magistratura di Milano dove c’era un pm, ex poliziotto, che non andava troppo per il sottile”. E quando, molti anni dopo, l’ambasciatore americano di allora, Reginald Bartholomew, rimprovererà a Di Pietro di aver “sistematicamente violato i diritti di difesa” durante Tangentopoli, l’ex pm replicherà stizzito: “Sconfessa se stesso e il suo Paese”. Giustamente.

Per quanto riguarda la cronaca dei fatti potremmo forse fermarci qui. Ma non ci è concesso. Perché è stato un anno gravido di sorprese questo 1992 e ci richiama all’ordine il suono di una nave che il 2 giugno attraccò in sordina nelle vicinanze di Civitavecchia, proprio mentre a Milano iniziavano a cadere le teste della vecchia politica. Si trattava del Britannia, il lussuosissimo panfilo della Corona d’Inghilterra. Al suo interno non c’era la regina, come erroneamente è stato sostenuto dal folklore complottista, ma, in compenso, un numero rilevante di banchieri, finanzieri, uomini d’affari e speculatori, sbarcati nella penisola come i conquistatori di Cortés nel Nuovo Mondo. Avevano navigato fin lì per assolvere un compito importante senza far troppo rumore. Dall’altra parte del mare e dell’oceano, infatti, c’era qualcuno che aveva grandi progetti per la nuova Italia e nessuna voglia di perdere tempo.

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