L’Ilva, i mercati e il PIANO GLOBALE per l’Italia

ilvaUltimamente, le dichiarazioni sul caso Ilva si assomigliano un po’ tutte. Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: “Sulla base di quello che succederà si giocherà il futuro del manifatturiero pesante che connota l’Italia come paese industrializzato avanzato”. Claudio Gemme, presidente dell’ANIE: “La ricchezza e il benessere italiani si sono sempre basati sul manifatturiero. Tutti si impegnino per salvarlo”. Guglielmo Epifani, neosegretario del Pd: “Non c’è motivo per cui il nostro paese, che è ancora il secondo esportatore di manifatturiero, non debba difendere la sua siderurgia”.

In realtà, un motivo c’è e non è nemmeno così misterioso: la globalizzazione ha in serbo per l’Italia un destino diverso. Lo spiegarono benissimo i mondialisti Giuliano Amato e Carlo De Benedetti in un lungo scritto a quattro mani, comparso su “Repubblica” nel settembre del 2004, chiarendo quale sia la più grande possibilità strategica per l’Italia: “È la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per l´estetica e il design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura millenaria, il suo ambiente, la sua arte. In questo senso le grandi trasformazioni del mondo possono diventare una enorme chance per il nostro Paese”.

Proviamo a tradurre. Il mercato internazionale impone ai suoi attori di impegnarsi nei settori dove essi possiedono un “vantaggio competitivo”, cioè dove realizzano qualcosa che può essere prodotta solo lì o lì meglio che altrove. La logica del “tutti fanno tutto” è bandita. Ognuno fa il suo e, per il resto, si commercia in modo da integrare domanda e offerta, nella certezza che l’infinita intelligenza del mercato aggiusterà tutto: flussi, quantità, prezzi. Dunque, l’Italia farebbe bene a dismettere quel che resta del suo settore manifatturiero, eccellente ma costoso, e lasciare che esso emigri verso altri lidi dove si può fare lo stesso pagando gli operai un pugno di riso e lastricando le strade di morti per cancro senza che nessuno osi protestare (l’intelligenza del mercato…). Poco male, perché tanto noi abbiamo il “sole, mare e la buona cucina”, il rosso della Ferrari e di Valentino, il design e le gallerie. E se i francesi ci restituissero la Gioconda saremmo a posto per sempre. La Regione Puglia si è già portata avanti col lavoro, regalandoci uno videospot del tarantino con panorami caraibici e l’Ilva allegramente rimossa dalla cartolina. Ilva? Ma quale Ilva? Qui c’è il paradiso, venghino siori venghino.

Invece l’Ilva c’è ancora insieme a quel poco che resta delle Pmi e delle grandi imprese nazionali come la Finmeccanica, sopravvissute alla svendita privatizzatrice di Prodi&co e assediate dalla magistratura. Si dovrebbe ripartire da qui, ma il piano della globalizzazione – che non è per nulla una entità astratta ma un fenomeno “agito” e pianificato – è quello di un paese “leggero”, tutto basato sull’estetica e i servizi, e completamente dipendente dall’estero per ogni altra necessità. Un paese eternamente con il cappello in mano, terrorizzato da crisi economiche e diplomatiche, svuotato di ogni capacità autarchica di resistenza. Perché senza capi firmati si può vivere, senza acciaio o prodotti alimentari (compriamoli dall’estero, costano meno!), nella modernità, si muore. O, meglio, si diventa dipendenti da tutto e da tutti, in primis dalla globalizzazione stessa, che si è costretti a difendere perché altrimenti siamo spacciati: chi ci venderà ciò che un tempo facevamo da soli e adesso fanno – o dovrebbero fare – gli altri per noi?

Ed è ridicolo sentire parlare ora di nazionalizzazione, pianificazione, divieto di vendita dell’Ilva alla Cina da coloro che, fino a ieri, incensavano l’intelligenza del mercato globale e le virtù del nuovo corso. Questo è il mondo che avete voluto. Siatene fieri se ci riuscite.

*Pubblicato su barbadillo.it

In Cina fiorirà il costituzionalismo. E sarà peggio di prima. Italia docet.

cinaaLi Rui, anziano ex segretario di Mao, ha dato alle stampe un libro dal titolo eloquentissimo: Quando fiorirà il costituzionalismo. L’operazione non è una sortita imprudente e nemmeno un pensoso capriccio da intellettuali, ma una staffilata ben calibrata. Il Quando, infatti, è ora, perché da settimane si discute in Cina di una possibile trasformazione della forma di governo sul modello dei costituzionalismi occidentali. Si badi, una legge fondamentale già c’è, e per giunta aggiornata nel 2004, ma non basta. Il popolo, gli intellettuali e i vecchi funzionari vogliono di più.

I conservatori, da parte loro, resistono, esibendo sostanzialmente una sola argomentazione: “Il concetto di costituzionalismo [… ] deriva dalla concezione politica occidentale e, quando lo si inculca a forza nella realtà cinese, esso decreta che il sistema politico attuale della Cina è sbagliato”, si legge sul quotidiano “Global Times”. E ancora: “Non è altro che un modo per costringere la Cina ad adottare un sistema politico occidentale”. Anche l’ex presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Wu Bangguo, ha detto la sua: “La Cina non adotterà mai una democrazia all’occidentale” e deve “resistere con forza all’influenza di teorie e ideologie sbagliate dei sistemi capitalistici occidentali”.

La parola che più ricorre, nelle citate dichiarazioni, è “occidentale”. Termine odioso, dalla prospettiva cinese, perché evoca l’avversario geografico, il nemico ideologico, l’oppositore irriducibile nella nuova Guerra Fredda bipolare. Insomma, l’altro-da-sé che imitare vorrebbe dire omaggiare con una resa incondizionata. Sarà, ma gettando uno sguardo sulla Cina contemporanea, sui suoi sistemi produttivi, sul suo turbo-capitalismo scatenato, sull’inquinamento delle metropoli, sulla cementificazione dei territori (con le case dei contadini spazzate via dalle ruspe), sui giovani pechinesi obesi che mangiano hamburgers e pollo fritto, sulle nostre imprese che lì delocalizzano, tutto il disprezzo verso il vecchio West perde molto del suo senso. I cinesi sono più occidentali degli occidentali. Il Regno di Mezzo fra cielo e terra, di millenaria memoria, fecondato da Lao Tze e Confucio, è un antico ricordo museale sotterrato dalla Lunga Marcia materialista che ha estinto il Taoismo, ridotto il confucianesimo a protocollo di partito e la pratica di stili nobili, come il Taiji, a una specie di ginnastica di stato. Sono come noi, peggio di noi, come tutti gli imitatori sono peggio, se possibile, dell’originale.

In tale porcilaia una qualche forma di costituzionalismo ci starebbe benissimo. E se il governo è preoccupato che un simile innesto possa frenare, a colpi di diritti e battaglie sociali, l’ascesa capitalista del paese, può star tranquillo. Anzi possiamo offrire l’Italia come augusto esempio di nazione ove “la costituzione più bella del mondo” non ha minimamente impedito il dilagare del consumismo, il rimbecillimento dei giovani davanti ai reality show e ai social-network, l’ascesa della finanza, il primato sovranazionale della Bce, la distruzione delle tutele lavoriste con l’arrivo dell’inumano precariato. Per inciso, quest’ultimo fu proprio la “sinistra intelligente” a regalarcelo con il Pacchetto Treu dimostrando come la cultura dei diritti e della Costituzione sia politicamente compatibile con il massacro sociale che tanto piace ai poteri forti.

Quindi cari amici, stay hungry, stay foolish, direbbe uno schiavista che ha aperto fabbriche da voi, e dotatevi del tanto bramato costituzionalismo. È lecito immaginare che la paura più radicata nell’immaginario della casta cinese sia quella dell’inevitabile tramonto della dittatura socialista, della nomenklatura comunista e dell’onnipotenza dei funzionari corrotti e strapagati. Ma, anche qui, l’esempio italiano può giungere in soccorso. Un Presidente della Repubblica ex comunista (ma l’unico col visto per gli Usa durante la Guerra Fredda) ha prima cooptato al potere un anziano tecnocrate del Bilderberg e poi, rieletto dalla casta infognata nell’inciucio, ne ha incoronato un clone, giovane e democratico. “La costituzione più bella del mondo” annuisce, approva e sorride. Tutto legittimo, tutto regolare. Certo, montare la baracca della farsa è più faticoso che regnare dal trono, ma basta prenderci la mano e non solo si può fare ogni cosa, ma la si fa proprio sotto l’ombrello costituzionale. Con il popolo costretto al silenzio perché la costituzione c’è, è bella, moderna, armonizzata con le istituzioni e dunque cos’altro volete?

Per cui il consiglio è solo uno: fatelo. E ricordatevi di inviare nelle scuole un Rodotà con gli occhi a mandorla che sproloqui salottieramente di pace e diritti mentre la nazione crolla e la gente muore di fame, per indorare la pillola. Piccoli accorgimenti all’ombra di una verità più grande: la maschera costituzionalista – a chiunque voglia esercitare un potere osceno, insostenibile in inquadrature di primo piano – conviene. Sempre. Voi non potete ancora saperlo, noi sì.

ANDREOTTI, gli americani e quella verità che non si può raccontare

AndreottiBeppe Grillo sosteneva, divertito, che “quando morirà Andreotti gli toglieranno la scatola nera dalla gobba e finalmente sapremo la verità”. Sui misteri d’Italia e sui misteri di un uomo che non è mai uscito dalle inquadrature della storia: “A parte le guerre puniche – lamentava giustamente – mi viene attribuito veramente di tutto”. Ma non c’è bisogno di una autopsia di regime sul cadavere del Divo per raccontare quello che i documenti del Dipartimento di Stato americano, divulgati in Italia dal quotidiano “La Stampa”, spiegano con dovizia di particolari.

Nella prima parte della sua epopea politica, Andreotti si era fatto apprezzare senza riserve oltreoceano quale interlocutore affidabile e capace, di sicura fede filo-atlantica e di certa, inflessibile fermezza occidentalista. Washington non avrebbe potuto augurarsi di meglio per i futuri destini propri e del satellite-Italia. Poi qualcosa si inceppa e il soldatino cambia senso di marcia.

Sulla scena irrompe uno dei pochi “eroi civili” (ammesso che tale definizione abbia un senso) di questo Paese. È Enrico Mattei, ex-partigiano, democristiano, industriale, che osa sognare una politica energetica autonoma per l’Italia. Trivella la Val Padana in cerca di gas e petrolio, interloquisce con i produttori del terzo mondo, stringe accordi con lo Scià di Persia bypassando il cartello anglo-americano delle Sette Sorelle, oligarchia del settore. L’Italia entra senza chiedere permesso e pronuncia, nei fatti, la parola impronunciabile: “Sovranità”. Un peccato mortale, quello dell’emancipazione dei servi, condito da una ulteriore, ferale notizia: Andreotti lo sta aiutando.

Per Giulio è solo il primo passo del nuovo corso. In pochi anni serra i rapporti con il mondo arabo, apre al commercio con l’Urss, dialoga, o sembra voler dialogare, con Berlinguer e gli eurocomunisti. Dove è finito l’amico yankee? Non c’è risposta, in compenso la realtà parla chiaro: “L’Italia – scrive Maurizio Molinari – iniziava ad ondeggiare verso il terzomondismo”. E si continua così anche negli anni successivi. Andreotti è il regista della Dichiarazione di Venezia sul Medio Oriente (1980) che concede una apertura europea all’Olp di Arafat e supporta il governo Craxi, sui cui pure gli americani avevano puntato con fiducia, nella crisi di Sigonella del 1985, uno dei rari istanti in cui siamo stati una nazione.

Washington è in trappola: da una parte Andreotti e Craxi sono indispensabili per contenere il PCI, e quindi non è possibile disfarsene, dall’altro però la loro ostinazione nel tutelare l’interesse nazionale è divenuta insopportabilmente fastidiosa. Gli americani sono su tutte le furie e Andreotti, per giunta, ambisce al Quirinale. Ma si tratta solo di aspettare. Con il crollo del Muro nel 1989, autoestintosi il pericolo comunista, si accende il semaforo verde sulla decapitazione della Prima Repubblica. Dopo aver sorvolato per decenni su tangenti, mazzette, ruberie e clientele di ogni tipo, la magistratura italiana si desta improvvisamente, buttata giù dal letto dagli americani, e fa piazza pulita dei partiti in nome della moralità pubblica (sic). La globalizzazione monocolore può finalmente iniziare.

* Pubblicato su barbadillo.it

PS. E Andreotti? Per lui c’è stato molto di peggio, l’accusa di associazione mafiosa ed il processo che inizia, ufficialmente, il 27 marzo del 1993. Il primo a parlare di una “entità” alle spalle di tutti, un protettore occulto e potente, uno “zio” da cui i mafiosi ricevevano protezione, era stato il pentito Tommaso Buscetta in una conversazione con Falcone di quasi dieci anni prima. Scrive Gaetano Rizzo Nervo nel suo interessante saggio Il caso Lucky Luciano: “Un cordone ombelicale ha sempre legato la CIA alla mafia e non è mai stato reciso, secondo le prove esistenti. Perché meravigliarsi ora che la Cia possa aver pilotato Tommaso Buscetta in funzione […] anti-Andreotti cioè per l’eliminazione dalla scena politica di una persona invisa, in quel momento storico, ad una fascia ben individuabile della nomenklatura americana? Singolare il fatto che Buscetta risulterebbe arruolato nel 1966 , dopo appena cinque anni dalla morte, per cause naturali, di Lucky Luciano”. Cioè il boss “amico” che gli americani contattarono per organizzare lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943. Vendetta, tremenda vendetta.