(BUTTA)FUOCHI lungo la Via della Seta

Pietrangelo_Buttafuoco_0038picA Norberto Bobbio che, alla fine di un’intervista, gli domandò “Mi spiega perché è fascista?”, rispose così: “Professore, confessione per confessione, io non sono fascista. Sono altro. Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti ad altri inaccessibili”.E proprio dal cuore di quella eresia divampa la prosa di Pietrangelo Buttafuoco, nomen omen, giornalista, romanziere, conduttore televisivo e, da marzo, firma del quotidiano “La Repubblica” dalle cui colonne ha recentemente attaccato la destra dei “destrutti”, compilando l’alfabeto dell’agonia berlusconiana. L’ennesimo tizzone, peraltro non privo di conseguenze professionali, di un incendio ideale che la recente raccolta di scritti Fuochi (Vallecchi, pp. 234, euro 14,50) contribuisce a far divampare “recuperando – spiega l’autore – i passaggi riconducibili ad un solo tema polemico, opposto rispetto al dettato ufficiale”. Cioè quello dei conformisti e dei “piritolli, pierini profumati che alzano il dito e fanno letteratura”. Rigorosamente lontano da loro, infatti, si consumano le riflessioni del cuntastorie catanese sul tempo passato e sui tempi che verranno.

Buttafuoco, per cosa si è caratterizzato l’anno appena trascorso?

“Dal punto di vista nazionale ha svelato un trucco che altrimenti sarebbe stato difficile da decifrare: l’Italia non ha una sovranità politica. Dietro il paravento del governo tecnico, dietro l’ipocrisia della grande stampa, dietro le formule con cui hanno cercato di edulcorare la realtà, emerge precisamente questa triste rappresentazione. L’Italia non ha possibilità di decidere del proprio destino e partecipa al Grande Gioco internazionale in una posizione defilata, periferica e ininfluente ”.

In riferimento a quest’ultimo, selezioni due protagonisti del 2012: uno in senso positivo, l’altro in senso negativo…

“Secondo me, parlando di Grande Gioco, la Cina rappresenta l’elemento fondamentale, il vero protagonista. Al contrario, si può vedere nella rielezione di Obama un qualcosa di già noto. L’attuale Presidente rappresenta per gli Stati Uniti quello che Gorbaciov rappresentò per l’Unione Sovietica: è colui il quale metterà fine all’impero, sarà l’ultimo a spegnere le luci”.

È l’ “incubo d’Occidente” su cui riflette nel libro?

“Sì, è proprio questo. Cioè l’idea di non essere più il perno centrale della Storia e della contemporaneità. E di scoprirsi, adesso, in una posizione subalterna”.

Ciò nonostante, o forse proprio in virtù di tali considerazioni, l’Occidente continua a formulare per sé un certo tipo di racconto. In questo, la televisione possiede ancora un ruolo determinante?

“Assolutamente no, non riesce a sopravvivere ad internet ed alla molteplicità delle sue forme. La rete, di fatto, ha già inghiottito la carta stampata, la tv generalista, i telegiornali. Tutto si ritrova ad essere vecchio e inutile anche perché c’è una nuova, sterminata umanità che non è in grado di proporre una attenzione superiore ai due minuti. Parliamo di un pulviscolo sociale fatto di ignoranza: se prima era la fame a determinare lo stato di minorità, oggi è l’ignoranza il fattore decisivo. L’affamato che un tempo si faceva forte della sua necessità di emancipazione aveva comunque un vantaggio rispetto all’ignorante contemporaneo che è e sarà sempre solo uno schiavo”.

Stringendo la visuale sull’Italia, come si può giudicare la Rai della Seconda Repubblica nonché quella del periodo “tecnico”?

“Si tratta della più importante macchina culturale d’Italia, non c’è dubbio. Epperò svela tutta la sua stanchezza e perfino l’inutilità rispetto alla situazione attuale. È soltanto un immenso baraccone di potere dove non c’è possibilità di sperimentare, di innovare, di allevare. Quindi non ci potrà mai essere, in prospettiva, un vivaio. Naturalmente tutto questo accade ora, ma non accadeva in passato quando si riusciva a far convivere e coabitare le punte del nazional-popolare, come Mike Bongiorno, con un grande protagonista del dibattito culturale come Umberto Eco. Il quale, peraltro, fu anche l’autore della mitica Fenomenologia di Mike Bongiorno”.

Da quali parole d’ordine si dovrebbe ricominciare nel 2013?

“Per noi italiani l’espressione di riferimento non può che essere una: la Via della Seta. Si tratta della sola opzione di futuro a disposizione. Bisogna cominciare a lavorare di geografia e di politica estera per capire come il mondo stia cambiando. E, contemporaneamente, dismettere tutte le stupidaggini che ci hanno tenuti ancorati a luoghi comuni, a mondi morti e inutili, e, soprattutto, a pregiudizi grazie ai quali non si è inteso come il futuro riservi molte più chances di quante la nostra noia e la nostra stanchezza ci facciano immaginare”.

E il mezzogiorno quale ruolo specifico potrebbe recitare?

“Noi abbiamo una possibilità politica, strategica e culturale forte ed è, in una sola parola, l’Eurasia. Quando parlo di Via della Seta immagino questo grande continente in cui i popoli con i loro canti, i loro racconti, i loro commerci, i loro mercati, cioè con tutto quello che costruisce la vita quotidiana, si incontrano in un unico alfabeto, quello eurasiatico. La gente del Sud possiede un legame particolare con tale dimensione e Bari è il nostro avamposto, la città che più di ogni altra può aprire questo percorso verso Oriente”.

*Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

IN GINOCCHIO DA LORO (Facebook&Twitter)

papa-twitterL’arrivo della televisione in Italia segnò una svolta epocale: si svuotarono le piazze, le osterie, le sezioni di partito, i circoli. Le famiglie si raccoglievano di fronte al nuovo prodigio, incollate, rapite, lobotomizzate. I preti benedicevano il tubo catodico, recandosi presso ogni domicilio con libro e ampolla, mentre Pasolini lo malediceva, pronosticando l’inizio di un’omologazione senza ritorno. Naturalmente a ragion veduta perché Mike Bongiorno con i suoi quiz ha fatto molti più danni di qualunque manuale di economia partorito dalla Scuola di Chicago. Il capitalismo funziona anche così: la tecnologia – mai neutra, ma dotata di una poderosa “proprietà transitiva” per cui tu credi di manipolarla, mentre è lei che cambia te – partorisce qualche nuova intuizione, funzionale al progetto mondialista, che s’impone come imprescindibile. Se non proprio tutti la adoperano, tutti almeno si devono confrontare con essa.

Negli anni in corso è esattamente quello che succede con i social network e le conseguenze sono spesso imbarazzanti. Ad esempio, la discesa del Papa nell’arena di Twitter è un penoso tentativo di ritinteggiare una fede morente con vernice giovane e al passo con i tempi, intento che ha finito per esporre Benedetto XVI ad una quantità incalcolabile di pubblici sberleffi. Umiliazione meritata. Dalle parti del Vaticano si fatica a comprendere che, per certificare la propria presenza nella modernità, non serve armeggiare goffamente con le sue diavolerie, ma semplicemente guardare negli occhi i suoi diavoli e sfidarli. L’inizio dell’attuale pontificato, scandito a colpi di encicliche anti-finanziarie, era stato promettente. Poi, tra strette di mano a Monti e ossequiosi silenzi sui popoli massacrati dall’usura internazionale, il castello di sabbia è deflagrato nel nulla, ricordandoci, una volta di più, che il compito della Chiesa non è quello di combattere ma, banalmente, di sopravvivere, nonostante il Dio del pietismo – evidenziava Nietzsche – sia già abbondantemente morto e sepolto.

Dalle parti di Teheran le cose vanno un po’ diversamente, almeno negli intenti. La costante tensione di lotta che anima l’Iran della Rivoluzione rende leggermente meno patetiche le sue incursioni nella piazza virtuale degli Anni Dieci, ma si tratta pur sempre di una resa, di un dover fare i conti con un qualcosa che – dipendesse dai reggenti della Repubblica – non esisterebbe nemmeno. Sapere la Guida Suprema Khamenei all’opera sulla propria bacheca Facebook (1200 amici) come un qualunque quindicenne o immaginare una riunione di sapienti impegnati a concepire un tweet, è fonte di tristezza infinita. Se poi, come nel caso del Papa, è uno staff, appositamente selezionato, a far tutto, allora la questione risulta ancora più grave: i saggi non si sporcano le mani nella porcilaia virtuale (perché non hanno tempo da dedicarvi, perché non saprebbero come fare, perché ritengono ciò lesivo della loro illuminata dignità) ma desiderano comunque esserci, in quanto non si può rimanerne fuori. Guide spirituali guidate dallo spirito dei tempi.

Di certo, l’importanza della modernità dei mezzi non è una intuizione estranea al popolo iraniano: la Rivoluzione del ’79 fu avviata dai discorsi di Khomeini (in esilio a Parigi) registrati sui nastri delle musicassette, un supporto all’avanguardia per i tempi. Ma il mezzo in oggetto trasmetteva un messaggio – molto più elaborato di una frasetta – asciutto, secco, nudo e crudo, scevro finanche da questioni di telegenia. Nessuna cipria da telecamera, nessuna bacheca, nessun cinguettio. Usare senza farsi usare. E umiliare.

Si potrebbe, oggi, dire lo stesso del Papa su Twitter o dell’ayatollah su Facebook?

* Pubblicato su barbadillo.it

DAL TEXAS AI TUAREG: la globalizzazione è in frantumi

globalIl grande racconto della globalizzazione felice, tessuto da mercanti e politologi con instancabile perizia, ha un antipatico nemico che non si rassegna a dileguarsi: la realtà.  Ciò che succede effettivamente è null’altro che l’inevitabile reazione ai deliri di un processo sintetico e plastificato, buono per la virtualità delle piazze finanziarie e pessimo per i popoli. Che, coerentemente, hanno deciso di rifiutarlo.  

“La globalizzazione è un processo irreversibile”. L’affermazione, uno dei tanti mantra in circolo nell’etere del pensiero unico, è stata esternata e sottoscritta nel tempo da un numero incalcolabile di personalità della più varia estrazione: dal “cattivo maestro” (leggi diligente scolaro) Toni Negri all’economista Giovanni Vigo, passando per Romano Prodi, Bill Clinton e Fidel Castro che, nel 1998, ebbe a dire: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. L’unanime coro non rende solo ossequio allo status quo, ma partecipa attivamente alla sua difesa, dipingendo i processi in corso come “stati naturali” al pari delle Alpi o dei Pirenei: un qualcosa che è lì per volontà divina e con cui bisogna necessariamente imparare a fare i conti, piaccia o meno. In questo modo si toglie ossigeno a quella che gli indù (ma non solo) definirebbero l’immaginazione divinizzante, cioè la capacità di dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili. Invece ogni cosa è etichettata come irreversibile: la globalizzazione, il libero mercato, l’Alleanza Atlantica, l’euro. Ma sarà poi vero? I fatti sembrano suggerire il contrario.

Per rendersene conto, però, è necessario incastrare tasselli che, in apparenza, appartengono a mosaici differenti. Il Texas necessitava di rastrellare almeno 25mila firme per sottoporre all’attenzione del presidente Obama la questione della propria indipendenza dagli Stati Uniti: ne ha raccolte oltre 116mila. La Catalogna è diventata universalmente sinonimo di aspirazione alla secessione, la Scozia corre verso uno storico referendum, il Belgio sembra destinato a spaccarsi in due come una mela. Perfino i Tuareg, apprendiamo in queste settimane, si battono per consolidare uno stato sovrano. Se stringiamo le telecamere sull’Italia la situazione non cambia: in Alto Adige, ci informa Maurilio Barozzi su “Limes”, ha ripreso fiato il partito dell’autodeterminazione Sudtiroler Freiheit, mentre in Veneto si lavora per fare della locomotiva produttiva nazionale una repubblica indipendente. E non in qualche scantinato di periferia, ma nel cuore delle istituzioni. In testa all’armata separatista c’è infatti il governatore Luca Zaia che sta esplorando la pista di un referendum consultivo, peraltro graditissimo alla popolazione. Anche l’aumento dei consensi raccolti dall’estrema destra e la riscossa dei sovranismi sono parte del gioco: il pensiero corre alla Serbia che non riconosce il Kosovo, all’Ungheria ove la “marea nera” rivendica la Transilvania, al Giappone impegnato a duellare con la Cina per le isole Senkaku/Diaoyutai. Alla Russia sovrana di Putin, al Venezuela orgoglioso di Chavez, all’Ecuador eretico di Correa, alla Grecia disperata che, se potesse, invaderebbe la Germania domani, in omaggio all’unico effetto positivo di una unione forzata: ricordarci che siamo tutti diversi.

Aggiungendo, a questo ribollir di sangue&terra, il globale disprezzo per i porti franchi della finanza e delle oligarchie non elette, l’astio istintivo verso le espressioni esterofone (tipo spending review), l’adozione di forme sempre più marcate di autoproduzione e autoconsumo (in vent’anni siamo passati dai McDonald’s all’orto sul terrazzo), il quadro può definirsi rivelatore. Se l’identità fosse un titolo in borsa sarebbe il miglior investimento possibile, diversamente dalla globalizzazione cui non resta altro che tentare di immobilizzare i popoli con le catene del debito e dell’usura. Dalla tenuta di tale morsa coercitiva dipende la sopravvivenza di un gigante in frantumi con un grande futuro alle spalle.

* Pubblicato su barbadillo.it